G. Calvino: Institutio christianae religionis – Istituzione della religione cristiana – Libro 2.




Giovanni Calvino: La vera e la falsa predestinazione.   -  Discorso 100


Institutio christianae religionis II. di Giovanni Calvino

Tradotto e curato dopo l’ultima edizione (1559) da Otto Weber e pubblicato per la prima volta nel 1955 dalla
Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn, sesta edizione dell’edizione in volume unico 1997.



Commissionato dalla Federazione Riformata in Germania / JOHANNES A LASCO BIBLIOTHEK Emden e preparato per l’edizione su internet da Matthias Freudenberg sulla base di una scansione del testo acquisita dall’Istituto per la Ricerca sulla Riforma dell’Università di Apeldoorn.


Insegnamento della religione cristiana

La dottrina di Calvino – Libro I: Sulla conoscenza di Dio Creatore

La dottrina di Calvino – Libro II: Sulla conoscenza di Dio come Redentore in Gesù Cristo

La dottrina di Calvino – Libro III: In che modo siamo resi partecipi della grazia di Cristo, quali frutti ne derivano e quali effetti ne derivano

La dottrina di Calvino – Libro IV: Dei mezzi o aiuti esteriori con cui Dio ci invita e ci mantiene nella comunione con Cristo.


Note editoriali

L’edizione originale in tre volumi della traduzione di Otto Weber è stata pubblicata nel 1936-1938. Per la presente edizione su Internet, abbiamo ritenuto che si potesse fare a meno delle note di Weber a margine del testo. Allo stesso modo, le poche annotazioni, la maggior parte delle quali non forniscono spiegazioni concrete, non sono state incluse. La vecchia ortografia è stata mantenuta. Sono stati corretti evidenti errori tipografici, imprecisioni nella citazione di passi biblici e altra letteratura, così come forme insolite di presentazione nella composizione.

Piano di edizione

Libro I Luglio 2006
Libro II Agosto 2006
Libro III Dicembre 2006
Libro IV Marzo 2007


Secondo libro

Della conoscenza di Dio come Salvatore in Cristo, rivelata prima ai padri sotto la Legge e poi anche a noi nel Vangelo.



Tabella dei contenuti


Capitolo uno

Attraverso la caduta e l’apostasia di Adamo, l’intera razza umana cadde sotto la maledizione e perse la sua purezza originale. La dottrina del peccato originale.


Capitolo due

L’uomo è ora privato del libero arbitrio e sottoposto a una schiavitù abietta.


Capitolo tre

Dalla natura depravata dell’uomo non viene altro che la dannazione.


Capitolo quattro

Come Dio lavora nel cuore dell’uomo.


Capitolo cinque

Difesa contro le obiezioni che si è soliti sollevare in difesa del libero arbitrio.


Capitolo sei

L’uomo perduto deve cercare la sua salvezza in Cristo.


Capitolo sette

La Legge non è data per mantenere il popolo dell’Antica Alleanza a se stesso, ma per conservare la speranza della salvezza in Cristo fino alla Sua venuta.


Capitolo otto

Interpretazione della legge morale (i dieci comandamenti).


Capitolo nove

Cristo era già noto agli ebrei sotto la Legge; ma non ci appare chiaramente fino al Vangelo.


Capitolo dieci

Della somiglianza tra l’Antico e il Nuovo Testamento.


Capitolo undici

Della differenza tra il Antico e il Nuovo Testamento.


Capitolo dodici

Per svolgere l’ufficio di mediatore, Cristo ha dovuto diventare uomo.


Capitolo tredici

Cristo ha veramente assunto la nostra carne umana.


Capitolo quattordici

Come le due nature formano la persona del Mediatore.


Capitolo quindici

Se vogliamo sapere per che cosa Cristo è stato mandato dal Padre e che cosa ci ha portato, dobbiamo prima di tutto considerare il suo triplice ufficio, profetico, regale e sacerdotale.


Capitolo sedici

Come Cristo ha fatto l’opera del Redentore e ha acquistato la nostra salvezza. Qui, dunque, si parla della morte, della risurrezione e dell’ascensione di Cristo.


Capitolo diciassette

Si dice giustamente, ed è nello spirito della questione, quando si dice: Cristo ha acquistato per noi la grazia di Dio e la salvezza per suo merito.


Capitolo uno

Attraverso la caduta e l’apostasia di Adamo, l’intera razza umana cadde sotto la maledizione e perse la sua purezza originale. La dottrina del peccato originale.

II,1,1 Non è senza motivo che l’uomo, secondo un vecchio detto, è sempre stato molto lodato per la conoscenza di sé. È già considerato vergognoso se non si sa cosa appartiene alle cose del dare umano. Molto più riprovevole, tuttavia, è l’auto-ignoranza: in ogni risoluzione di questioni importanti siamo miseramente afflitti da delusioni e praticamente colpiti dalla cecità! Ma per quanto importante sia questa istruzione, dobbiamo stare ancora più attenti a non farne un uso sbagliato – e questo, come vediamo, è successo a certi filosofi! Esortano effettivamente l’uomo alla conoscenza di sé; ma allo stesso tempo determinano lo scopo di tale sforzo in questo modo: egli deve essere chiaro sulla sua dignità e sulla sua posizione privilegiata (excellentia)! Secondo la loro volontà, l’uomo dovrebbe praticare solo l’autocontemplazione, che lo gonfia di vuota fiducia in se stesso e di orgoglio (Gen 1,27). Ma la nostra conoscenza di noi stessi dovrebbe avere qualcos’altro in essa: in primo luogo, dovremmo considerare tutto ciò che ci è stato concesso nella creazione e quanto graziosamente Dio continua ad esercitare la sua grazia su di noi; da questo dovremmo riconoscere quanto grande dovrebbe essere il vantaggio della nostra natura – se fosse rimasta incorrotta. Allo stesso tempo, però, dobbiamo anche considerare che non abbiamo nulla di nostro dentro di noi, ma possediamo come un dono ciò che Dio ci ha dato – affinché possiamo sempre aggrapparci a Lui: In secondo luogo, dovremmo essere confrontati con la nostra miserabile condizione dopo la caduta di Adamo; quando ne prendiamo coscienza, tutta la gloria e la fiducia in noi stessi cadono, e ci vergogniamo profondamente e raggiungiamo la vera umiltà. Poiché Dio ci ha creati a sua immagine in principio per risvegliare le nostre anime allo zelo nella giusta azione e per lottare per la vita eterna, e così, per evitare che la nobiltà della nostra razza, che ci distingue dagli animali, decada a causa della nostra pigrizia, dobbiamo riconoscere questo: siamo dotati di ragione (ratio) e comprensione (intelligentia) per raggiungere in una vita santa e onorevole la meta prefissata della beata immortalità! Ma questa dignità originale non può entrare nella nostra memoria senza che la triste immagine della nostra contaminazione e della nostra disgrazia appaia immediatamente davanti ai nostri occhi, come è diventata da quando siamo stati alienati dalla nostra origine nella persona del primo uomo. E da questo nasce l’odio e il dispiacere con noi stessi e la vera umiltà – e si accende un nuovo zelo per cercare Dio, in cui ognuno deve riconquistare i beni che ora abbiamo completamente perso.

II,1,2 Questo è ciò che la verità di Dio esige come contenuto del nostro autoesame: esige da noi una tale conoscenza che ci allontana da ogni fiducia nelle nostre capacità, ci toglie ogni motivo di autogloria e ci porta così all’umiltà. Dobbiamo attenerci a questa linea guida se vogliamo raggiungere la giusta misura e il giusto obiettivo di pensare e agire. So bene quanto sia più piacevole quell’insegnamento che ci invita a considerare il nostro bene che quello che ci fa contemplare la nostra miserabile povertà e vergogna e così ci riempie di vergogna. Perché allo spirito dell’uomo non piace niente di meglio che essere lusingato; e quando sente che le sue capacità sono molto lodate da qualche parte, si appoggia subito con troppa credulità da quella parte! Perciò non c’è da meravigliarsi se in questa commedia la maggior parte dell’umanità ha perso così rovinosamente la strada. Perché tutti i mortali nascono con un amor proprio più che cieco, e perciò si persuadono facilmente di non avere nulla in loro che possa essere giustamente rifiutato! E così, senza protezione straniera, questa vana illusione trova sempre di nuovo la convinzione che l’uomo è completamente sufficiente a se stesso per vivere bene e felicemente. Certo, alcuni vogliono giudicare più modestamente e concedere una parte a Dio, per non dare l’impressione di voler attribuire tutto a se stessi – ma lì si dividono in modo tale che il motivo più forte di vanto e di fiducia in se stessi viene a trovarsi dalla propria parte! Se poi si aggiunge un modo di parlare così fine, che solletica con le sue lusinghe l’arroganza che è già radicata nell’uomo con midollo e ossa, allora non c’è niente che possa dargli più piacere! E così, chiunque abbia sottolineato con forza i vantaggi della natura umana con i suoi discorsi, è stato sempre accolto con enormi applausi. Ma per quanto grande possa essere quell’esaltazione della maestà umana che insegna all’uomo ad essere contento di se stesso – è solo attraverso la sua bella forma che dà un tale piacere, e le sue pretese ottengono solo questo, che alla fine fa sprofondare completamente nella rovina coloro che sono d’accordo con essa. Perché a cosa può portare se, nella vana fiducia in se stessi, consideriamo, pianifichiamo, proviamo, mettiamo in atto ciò che riteniamo necessario, ma se nel fare ciò ci manca completamente la giusta comprensione, se già nei primi tentativi ci mancano le giuste forze – e tuttavia procediamo fiduciosi fino alla rovina? Ma è così che deve essere con coloro che pensano di poter fare qualcosa con le proprie forze! Se prestiamo orecchio a quei maestri che si limitano a ritardarci nella considerazione del nostro bene, non arriviamo alla conoscenza di noi stessi, ma cadiamo nella peggiore specie di auto-ignoranza!

II,1,3 Certamente, la verità di Dio concorda con la convinzione generale di tutti i mortali che la seconda parte della saggezza consiste nella conoscenza di sé. Ma c’è una grande differenza di opinioni sulla natura di questa conoscenza. Perché l’uomo, secondo il giudizio della carne, pensa di essersi ben esplorato quando, confidando nel suo intelletto e nella sua integrità, diventa audace, si dedica al servizio della virtù, dichiara guerra ai vizi, e cerca così di lottare con tutto il suo zelo per il bello e l’onorevole. Ma chi guarda ed esamina se stesso secondo lo standard del giudizio divino non trova nulla che possa incoraggiare la sua anima alla giusta fiducia in se stesso, e più si esamina a fondo, più viene gettato a terra – finché non rinuncia completamente ad ogni fiducia in se stesso e non vuole più trovare nulla in se stesso per condurre correttamente la sua vita. Dio non vuole certo che dimentichiamo la nobiltà originale che ha conferito al nostro antenato Adamo - perché questo dovrebbe giustamente risvegliarci allo zelo per la giustizia e il bene. Non possiamo nemmeno pensare alla nostra origine o considerare per cosa siamo stati creati senza essere allo stesso tempo provocati a desiderare l’immortalità e a lottare per il regno di Dio. Ma tale ricordo non ci rende orgogliosi, bensì getta a terra ogni orgoglio e ci rende umili. Perché questa origine? Proprio quella – da cui siamo usciti! Qual è l’obiettivo della nostra creazione? Proprio quello da cui ora siamo completamente allontanati, così che sospiriamo con profondo dolore per la nostra miserabile sorte e in tale sospiro desideriamo quella dignità perduta! Ma se diciamo che l’uomo non è capace di guardare nulla in se stesso che possa renderlo orgoglioso, la nostra opinione è: non c’è nulla nell’uomo su cui possa contare e che possa renderlo arrogante. Se volete, allora, dividiamo la conoscenza di sé che l’uomo dovrebbe avere come segue: Innanzitutto, che consideri per quale scopo è stato creato e quali doni, da non sottovalutare, gli sono stati concessi. Questa considerazione dovrebbe stimolarlo ad essere intento al culto di Dio e alla vita futura. In secondo luogo, dovrebbe considerare le sue capacità, cioè, in realtà, la sua mancanza. Se lo fa, diventerà niente, per così dire, e si troverà nella confusione più totale. Lo scopo della prima considerazione è che egli riconosca qual è il suo compito (officium), la seconda che si renda conto di ciò che è effettivamente in grado di fare per adempierlo. Dovremo parlare di entrambi nell’ordine dettato dall’intenzione dottrinale.

II,1,4 Ora, non è necessariamente un’offesa leggera, ma un vizio abominevole, che Dio ha punito così severamente; e quindi dobbiamo esaminare la natura stessa del peccato, (come è) apparso nel caso di Adamo, che infatti la terribile punizione di Dio ha fatto cadere su tutta la razza umana. Infantile è l’opinione generale che (la caduta dell’uomo) sia stata una questione di lussuria del palato. Come se il contenuto principale di tutta la virtù consistesse solo nell’astinenza dall’unico frutto! Eppure tutto ciò che un uomo poteva desiderare in fatto di piaceri scorreva da tutte le parti in abbondanza, e con quella benedetta fertilità della terra c’era abbastanza abbondanza e varietà per preparare una buona vita! Dobbiamo guardare più in alto. Infatti la proibizione di prendere dall’albero della conoscenza del bene e del male era una prova di obbedienza: Adamo doveva dimostrare con la sua obbedienza di essersi sottomesso volentieri al comando di Dio! Il nome stesso (dell’albero) mostra che il comandamento non aveva altro scopo se non che l’uomo, contento della sua situazione, non si lasciasse trasportare dall’empia cupidigia verso cose più alte. E la promessa che gli fece sperare nella vita eterna finché avesse mangiato dall’albero della vita, la terribile minaccia di morire di nuovo appena avesse mangiato dall’albero della conoscenza del bene e del male – entrambi avevano lo scopo di mettere alla prova la sua fede. Da questo è facile vedere in che modo Adamo ha invocato l’ira di Dio su di sé. Agostino spiega questo non male quando dice che l’orgoglio è l’origine di tutti i mali; perché se l’uomo non fosse salito più in alto nella sua arroganza di quanto gli spettasse e di quanto fosse giusto da parte di Dio, avrebbe potuto rimanere nella sua (alta) posizione. Ma dalla descrizione della tentazione, come data da Mosè, si può trovare un’interpretazione più esatta. Perché la donna è portata via dalla parola di Dio dall’astuzia del serpente nell’incredulità – e lì già vediamo: l’inizio della caduta è la disobbedienza. Paolo lo conferma anche quando dice che per la disobbedienza di un uomo tutti sono perduti (Rom 5:19). Allo stesso tempo, però, dobbiamo notare che il primo uomo si allontanò dal comandamento di Dio, e questo accadde non solo perché fu irretito dalle lusinghe di Satana, ma anche perché si rivolse alla menzogna in spregio alla verità. E veramente, una volta che la Parola di Dio è disprezzata, ogni riverenza per Dio è persa. Perché la sua maestà non può durare tra noi, il suo culto non può rimanere puro – se non ci aggrappiamo alla sua bocca. Pertanto, l’incredulità era la radice dell’apostasia. Essa ha dato origine all’arroganza e alla superbia, a cui si aggiunse l’ingratitudine, perché Adamo, volendo avere più di quanto gli spettasse, disprezzò la grande generosità di Dio che gli era stata concessa. Questo, però, mostrava la terribile empietà, che sembrava troppo poco al figlio della terra essere fatto a immagine di Dio – finché non si aggiungeva l’uguaglianza (con Dio)! Un abominevole sacrilegio è l’apostasia con cui l’uomo si allontana dal comandamento del suo Creatore, fino a scuotere il suo giogo nella ribellione. Pertanto, è uno sforzo inutile mitigare il peccato di Adamo. E non si tratta nemmeno di semplice apostasia, ma di meschini rimproveri contro Dio: gli uomini firmano le invettive di Satana, che imputa a Dio menzogne, invidia e gelosia! E infine, l’incredulità apre anche la porta alla presunzione, e la presunzione era la madre della sregolatezza, così che gli uomini gettarono via ogni timore di Dio e si lasciarono guidare interamente dai loro desideri. Perciò è giusto che San Bernardo insegni che la porta della salvezza ci viene aperta quando ascoltiamo il vangelo con le nostre orecchie oggi, proprio come la morte è entrata in questa apertura (l’orecchio) quando è stata aperta a Satana. Perché Adamo non avrebbe mai osato disobbedire al comandamento di Dio, se non avesse incredulo la sua parola. Le migliori briglie per tenere sotto controllo tutti i desideri era la convinzione che niente era meglio che obbedire al comandamento di Dio e fare così la giustizia, e che la meta più alta di una vita benedetta era essere amati da Dio. Ma quando l’uomo si è lasciato trasportare dalle invettive del diavolo, ha fatto di tutto per distruggere tutta la gloria di Dio.

II,1,5 Come la vita spirituale di Adamo consisteva nel suo rimanere unito e legato al suo Creatore, così l’alienazione da Lui significava la rovina dell’anima. Non c’è quindi da meravigliarsi che abbia fatto sprofondare la sua razza nella miseria – dopo tutto, ha pervertito l’intero ordine della natura in cielo e in terra! La creatura geme, dice Paolo, che è sottoposta alla corruzione senza la sua volontà! (Rom 8,22). Se chiediamo la causa di questo, non c’è dubbio che la creatura porta una parte della punizione inflitta all’uomo, per il cui beneficio è stata creata. Così, da tutte le parti, sopra e sotto, la maledizione è scaturita dalla colpa di Adamo, che grava su tutte le regioni del mondo – e quindi non è affatto assurdo che si sia trasmessa anche a tutta la sua posterità. Una volta che l’immagine celeste era stata distrutta in lui, non solo fu punito per la sua stessa persona, ma la saggezza, la forza, la santità, la verità e la rettitudine che un tempo lo avevano adornato furono sostituite dalle corruzioni più malvagie: Cecità, debolezza, impurità, vanità, ingiustizia, – ma in questa stessa miseria ha anche coinvolto e spinto la sua posterità. Questa è la corruzione ereditaria (haereditaria corruptio) che gli antichi chiamavano "peccato originale" (peccatum originale), intendendo per peccato la distruzione della natura precedentemente buona e pura. C’era una grande disputa tra di loro su questa dottrina, perché nulla è così strano per il senso comune come il fatto che a causa della colpa di un solo uomo tutti debbano essere colpevoli, e quindi il peccato debba diventare generale. Questo sembra essere stato anche il motivo per cui i più antichi maestri della Chiesa hanno trattato questa dottrina solo in modo oscuro; almeno l’hanno sviluppata meno chiaramente di quanto sia giusto. Eppure questa cautela non poté impedire a Pelagio di esporre l’empia opinione che Adamo aveva peccato solo per la propria dannazione, ma non aveva fatto alcun male ai suoi discendenti. Con una tale subdolezza Satana ha voluto cercare di coprire la malattia e renderla così incurabile. E quando Pelagio fu condannato dalla chiara testimonianza della Scrittura (e dovette ammettere) che il peccato era passato dal primo uomo a tutti i suoi discendenti, ebbe la sottile saggezza di dire che ciò era avvenuto solo per imitazione, ma non nel senso di ereditarietà. Allora uomini coraggiosi, soprattutto Agostino, hanno dovuto lottare per dimostrare che non cadiamo nella depravazione attraverso una cattiveria assunta in seguito, ma portiamo con noi una peccaminosità innata dal ventre di nostra madre. Negare questo era il massimo della presunzione. Tuttavia, non ci si stupirà dell’audacia dei Pelagiani e dei Celestiani quando si noterà dagli scritti di quel santo uomo (Agostino) quali impudenti mostri fossero sotto tutti gli altri aspetti. È sicuramente chiaro come il giorno quando Davide confessa di essere nato nei peccati e concepito nei peccati da sua madre (Sal 51:7). Non intende rimproverare i peccati di suo padre o di sua madre, ma per sottolineare la bontà di Dio nei suoi confronti, confessa la propria depravazione, che afferma di avere avuto fin dalla nascita. Ora si riconosce che la testimonianza di Davide non è unica, e quindi ne consegue che il suo esempio illustra la sorte generale della razza umana. Perché tutti noi che discendiamo da un seme impuro nasciamo contaminati dal contagio del peccato; infatti, prima di vedere la luce del giorno siamo già corrotti e contaminati davanti agli occhi di Dio. "Può una persona pulita venire dall’impuro? Nemmeno uno", dice il Libro di Giobbe (Giobbe 14:4).

II,1,6 Sentiamo che l’impurità degli antenati si trasmette ai discendenti in modo tale che tutti senza eccezione sono contaminati fin dall’inizio. L’inizio di questa contaminazione può essere trovato solo risalendo al capostipite di tutti gli uomini come fonte. Quindi dovremo certamente considerare la questione in questo modo: Adamo non è solo l’antenato della natura umana, ma è, per così dire, la sua radice, e quindi, attraverso la sua corruzione, l’intera razza umana è stata disgregata a buon mercato. L’apostolo chiarisce questo paragonandolo a Cristo. "Come per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato in tutto il mondo, e per mezzo del peccato la morte; e così la morte è passata per tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato; così la giustizia e la vita ci sono restituite per mezzo della grazia di Cristo" (Rom 5:12 ss.). Di cosa blaterano i pelagiani? Si suppone che il peccato di Adamo sia stato riprodotto per imitazione? Allora non verremmo dalla giustizia di Cristo in nessun altro modo se non perché è stato posto come esempio da imitare. Ma che bestemmia intollerabile sarebbe questa! È fuori discussione che la giustizia di Cristo diventa nostra attraverso la comunione con lui e ci dà la vita. Ma poi segue che entrambi sono stati persi in Adamo per essere riconquistati in Cristo; il peccato e la morte si sono insinuati attraverso Adamo per essere eliminati attraverso Cristo. E quando l’apostolo dice che attraverso l’obbedienza di Cristo molti sono resi giusti, così come attraverso la disobbedienza di Adamo sono diventati peccatori, non c’è nulla di oscuro in questo. La relazione tra i due è che il primo (Adamo) ci trascina nella sua distruzione e quindi ci porta alla rovina con lui, mentre il secondo (Cristo) ci riporta alla salvezza attraverso la sua grazia. La questione viene così chiaramente alla luce della verità che penso che non abbia bisogno di una prova più lunga e laboriosa. Così anche Paolo mostra in 1 Corinzi, dove vuole rafforzare i pii nella speranza della risurrezione, che in Cristo riacquistiamo la vita che fu persa in Adamo (1 Cor. 15:22). Dicendo che siamo tutti morti in Adamo, egli testimonia chiaramente e apertamente che siamo irretiti dalla macchia del peccato. Perché la condanna non arriverebbe nemmeno a coloro che non sono stati toccati da alcuna colpa di peccato! Ma l’intenzione reale dell’apostolo diventa più chiara dalla relazione con l’altra clausola, dove egli insegna che in Cristo la speranza della vita è restaurata. Ma è ben noto che questo non avviene in altro modo che per mezzo della comunicazione miracolosa di Cristo della potenza della sua giustizia a noi - come è anche detto in un altro passo che lo Spirito è vita per noi per la giustizia (Rom 8:10). Così anche la frase che siamo tutti morti in Adamo non può essere interpretata in altro modo che questo: con il suo peccato non solo ci ha trascinato nella sua sconfitta e rovina, ma ha anche immerso la nostra natura nella stessa corruzione. E questo non l’ha fatto solo con la sua offesa, come se non avesse nulla a che fare con noi, ma proprio infettando tutta la sua posterità con la corruzione in cui era caduto. Né Paolo potrebbe dire che tutti gli uomini sono per natura figli dell’ira (Efes 2:3) se non fossero sotto la maledizione dal grembo di loro madre! È facile vedere che non si riferisce alla natura come fu creata da Dio, ma come fu corrotta in Adamo; perché sarebbe abbastanza insensato fare di Dio l’autore della morte! Così Adamo si corruppe in modo tale che il contagio venne da lui a tutti i suoi discendenti! Cristo, il giudice celeste, proclama egli stesso abbastanza chiaramente che tutti gli uomini nascono malvagi e corrotti; poiché insegna: "Ciò che è nato dalla carne è carne" (Giov 3:6). Dopo questo, la porta della vita è chiusa per tutti gli uomini finché non nascono di nuovo.

II,1,7 Ma per capire queste cose, non abbiamo bisogno di quella questione ansiosamente precisa di controversia con la quale gli antichi si tormentavano più di quanto fosse bene, cioè se l’anima del bambino nasce dal passaggio del padre al bambino, poiché è soprattutto nell’anima che risiede la peste! Piuttosto, dobbiamo accontentarci di questo: il Signore ha dato tutti i doni che ha voluto concedere alla natura umana ad Adamo perché li conservasse. Se dunque perse ciò che aveva ricevuto, lo perse non solo per la sua persona, ma per tutti noi; chi allora si preoccuperà della procreazione dell’anima, quando sentirà che Adamo ricevette tutto l’ornamento che perse tanto per noi quanto per se stesso, che non fu assegnato solo a lui, ma a tutto il genere umano? Non c’è nulla di perverso nel fatto che, poiché ha perso quei doni gloriosi, anche la natura è nuda e povera, e che, poiché è stato macchiato dal peccato, l’infezione è entrata anche nella natura! Così dalla radice marcia spuntarono dei rami marci, e questi a loro volta comunicarono il loro marciume agli altri germogli che spuntarono da loro! Così la corruzione dei figli si trova già nei padri, e i figli corrompono di nuovo i nipoti; cioè: la corruzione è iniziata con Adamo e si è propagata così in un corso ininterrotto dagli antenati ai discendenti. Perché l’infezione e la contaminazione ha la sua origine non nella natura di base (substantia) della carne o dell’anima, ma nel fatto che Dio l’aveva disposta in modo tale che il primo uomo possedeva i doni che gli aveva conferito insieme ai suoi – e li perse! Ma ora i pelagiani dicono che non è credibile che i figli di genitori pii ricevano la corruzione da loro; devono piuttosto essere santificati dalla loro purezza! (Cfr. 1Cor 7:14). Questo è facile da confutare. Perché i bambini non nascono dalla loro rinascita spirituale, ma dalla procreazione carnale. Per questo Agostino dice giustamente: "Che si tratti di un incredulo e colpevole o di un credente che viene assolto, entrambi non generano assolti, ma colpevoli, perché generano dalla loro natura depravata! (Contro i Pelagiani e i Celesti, Libro II). Che i figli, dunque, partecipino alla santità dei loro genitori, è una benedizione speciale del popolo di Dio; e non impedisce quella prima e generale maledizione della razza umana! Perché l’iniquità è per natura, ma la santificazione per grazia soprannaturale.

II,1,8 Ma non siamo qui per parlare di una cosa oscura e sconosciuta, e quindi descriveremo il peccato originale. Nel fare ciò, tuttavia, non intendo passare in rassegna le singole descrizioni che gli scrittori ecclesiastici hanno intrapreso. Ne sceglierò solo uno che mi sembra corrispondere più da vicino alla verità. Infatti il peccato originale appare come la corruzione ereditaria della nostra natura, che è penetrata in tutte le parti dell’anima; questo prima ci rende colpevoli davanti all’ira di Dio, ma poi produce anche in noi le opere che la Scrittura chiama "opere della carne" (Gal 5:19). Questo è nel vero senso quello che Paolo chiama spesso "peccato". Le opere che ne derivano, come l’adulterio, la fornicazione, il furto, l’odio, l’omicidio, la gola, egli chiama i "frutti" del peccato, sebbene siano ampiamente chiamati "peccati" nella Scrittura e da Paolo stesso. Queste due cose, dunque, sono da osservare attentamente: (1) Siamo così corrotti e depravati in ogni parte della nostra natura che siamo giustamente condannati e respinti davanti a Dio solo a causa di questa corruzione, poiché nulla è gradito a Lui se non la giustizia, l’innocenza e la purezza. Ma questo non è un coinvolgimento nei reati degli altri. Perché quando si dice che attraverso il peccato di Adamo siamo colpevoli del giudizio divino, ciò non va inteso come se dovessimo portare la colpa per la sua (di Adamo) offesa innocentemente e senza merito; piuttosto, si dice che egli ci ha coinvolti nella sua colpa, perché attraverso la sua trasgressione ora tutti portiamo la maledizione su di noi. Tuttavia, non solo la punizione è venuta su di noi da lui, ma la corruzione trasferita da lui a noi ora abita in noi, e questo è giustamente punito. Così Agostino dice spesso che è un peccato "straniero", per mostrare più chiaramente che viene a noi per trasmissione. Ma tuttavia sostiene anche che il peccato è di tutti. (Così, tra l’altro, in "Della colpa e del perdono dei peccati" III,8). L’apostolo stesso testimonia espressamente che la morte è dunque giunta a tutti, perché tutti hanno peccato! (Rom 5:12). E questo significa: perché tutti sono caduti nel peccato originale e sono stati afflitti dalle sue macchie. Così anche gli stessi bambini, che dal grembo della madre portano con sé la loro condanna, sono impigliati non nel peccato degli altri, ma nel loro stesso peccato. Infatti, anche se non hanno ancora portato i frutti della loro peccaminosità, hanno tuttavia il seme in loro; anzi, tutta la loro natura è, per così dire, un seme di peccato, così che inevitabilmente deve essere odiosa e abominevole a Dio. Da ciò consegue che questo conta come peccato in senso proprio davanti a Dio: perché senza colpa non ci sarebbe lo stato di accusa. (2) A questo si aggiunge il secondo: questa perversione non è mai inattiva in noi, ma produce senza sosta nuovi frutti, cioè quelle "opere della carne" descritte sopra – proprio come una fornace, una volta accesa, ora produce fiamme e scintille, o una fontana sprizza acqua da sé senza sosta. Chi, dunque, vuole intendere il peccato originale come la mancanza della "giustizia originale" (justitia originalis), che in realtà dovremmo avere, ha in tal modo effettivamente riassunto tutto ciò che appartiene alla questione, ma non ha espresso abbastanza chiaramente la sua potenza ed efficacia. Perché la nostra natura non è semplicemente povera e vuota di bene, ma è feconda e produttiva di male, così che non può mai essere inattiva! Alcuni hanno detto che il peccato originale è la "cupidigia" (concupiscentia). Questa non è di per sé una parola estranea; ma bisogna aggiungere – cosa che i più non ammettono minimamente – che tutto l’uomo (quicquid in homine est), mente e volontà, anima e carne, è macchiato e pieno di questa cupidigia, o in breve, l’intero uomo non è di per sé altro che cupidigia!

II,1,9 Per questo ho detto che l’anima fu colta dal peccato nella sua interezza da quando Adamo si allontanò dalla fonte della giustizia. Perché non solo fu tentato da un desiderio vile, ma la vergognosa malvagità si impossessò della sua anima fino in fondo, e la speranza penetrò nell’intimo del cuore. Pertanto, è insipido e sciocco limitare la corruzione che ne deriva solo ai cosiddetti "moti sensuali" (sensuales motus) o chiamarli semplicemente un "acciarino" che irrita, eccita e attira ciò che alcuni chiamano "sensualità" (sensualitas). Pietro Lombardo dimostrò la sua grossolana ignoranza arrivando a pensare, nella sua ricerca della sede del peccato originale, che secondo Paolo fosse la carne, non nel senso proprio, naturalmente, ma perché il peccato originale appare più chiaramente nella carne. Come se Paolo intendesse solo una parte dell’anima e non tutta la natura quando contrappone la "carne" e la grazia soprannaturale! Paolo toglie anche ogni dubbio insegnando che la corruzione ha la sua sede non solo in una parte, ma che nulla è puro o non toccato dalla sua macchia mortale! Perché nel considerare la natura corrotta (dell’uomo) non solo condanna gli impulsi sregolati che diventano visibili, ma afferma soprattutto che l’anima è dedita alla cecità e il cuore alla corruzione, e l’intero terzo capitolo della Lettera ai Romani non è altro che una descrizione del peccato originale. Questo diventa ancora più chiaro quando consideriamo (il rovescio della) rigenerazione. Perché lo Spirito, che si oppone all’uomo vecchio, alla carne, non significa semplicemente la grazia che mette in ordine la parte "inferiore" o "sensuale" dell’anima, ma comprende un rinnovamento completo di tutto l’essere. Per questo Paolo non ci comanda solo di distruggere gli istinti più grossolani, ma di rinnovarci nello spirito della nostra mente (Efes 4,23), come ci chiama anche in un altro luogo a cambiare nel rinnovamento della nostra mente (Rom 12,2). Da questo è chiaro che proprio la parte (dell’anima) in cui la sua alta dignità e nobiltà brillano di più è non solo ferita, ma addirittura così corrotta da richiedere non solo la guarigione, ma l’accettazione stessa di una nuova natura! Quanto il peccato abbia il possesso della mente e del cuore, lo vedremo in seguito. Qui ho solo brevemente indicato che tutto l’uomo è coperto dalla testa ai piedi come da un diluvio, in modo che nessuna parte è intatta, e quindi tutto ciò che viene da lui è contato come peccato, così come Paolo dice che tutti i sensi della carne e tutto il suo pensiero sono inimicizia contro Dio (Rom 8,7) e quindi morte!

II,1,10 Se ne vadano dunque quelli che osano imputare a Dio i loro vizi, perché abbiamo detto che gli uomini sono corrotti per natura. Essi cercano erroneamente l’opera di Dio nella sua contaminazione – eppure dovrebbero cercarla nella natura ancora intatta e incorrotta di Adamo! La nostra corruzione viene dalla colpa della nostra carne, ma non da Dio! Perché noi periamo solo perché ci siamo allontanati dalla nostra posizione originale! Ora, che nessuno mi obietti che Dio avrebbe potuto occuparsi molto meglio della nostra salvezza se avesse impedito la caduta di Adamo. Perché una tale obiezione è detestabile per i pii sensi, perché è troppo presuntuosa! Inoltre, tocca il mistero della predestinazione, che sarà trattato più tardi al suo posto. Diciamo quindi solo: la nostra rovina è da attribuire alla perturbazione della natura. Dobbiamo tenerlo a mente, per non accusare Dio stesso, l’autore della natura. È vero che questa ferita corrotta è ormai insita nella natura; ma è di grande importanza se è arrivata dall’esterno o se c’era già dall’inizio. È certo, però, che è nato attraverso il peccato. Quindi non abbiamo motivo di lamentarci di nulla se non di noi stessi, come la Scrittura osserva spesso. Così dice l’Ecclesiaste: "Io so che Dio ha fatto l’uomo retto, ma essi cercano molte arti per se stessi" (Eccl. 7:30). È ovvio: Solo l’uomo è da biasimare per la propria rovina; perché ha ricevuto la sincerità dalla bontà di Dio, eppure, a causa della propria follia, è caduto nella vanità.

II,1,11 Diciamo dunque che l’uomo è corrotto dalla depravazione naturale, che però non viene dalla natura! Neghiamo la sua origine in natura per indicare che è una qualità aggiunta che è capitata all’uomo, e non una caratteristica originale che gli sarebbe stata innata fin dall’inizio. Ciononostante, la chiamiamo "naturale", affinché nessuno pensi che essa sorga solo ora nell’individuo per cattiva abitudine, quando ha una presa su tutti noi per diritto ereditario (haereditario iure)! Non lo facciamo senza un mandato. Per la stessa ragione Paolo insegna anche che siamo tutti "per natura" figli dell’ira (Efes 2:3). Come può Dio essere arrabbiato con la più nobile delle sue creature, quando anche le sue opere minori gli sono gradite? Ma è arrabbiato per la distruzione della sua opera, non per la sua opera stessa! Così si può dire con buona ragione che l’uomo, a causa della corruzione della natura umana, è "per natura" ripugnante a Dio, e quindi non è scorretto dire che l’uomo è "per natura" cattivo e corrotto. Così anche Agostino non esita a chiamare il peccato "naturale" a causa della corruzione della natura che, dove non è presente la grazia di Dio, governa necessariamente nella nostra carne. Questo abbatte anche la sciocca fantasmagoria dei manichei: essi immaginavano che ci fosse una malvagità essenziale nell’uomo, e poi osavano imputare all’uomo un altro Creatore, per non dare l’impressione di attribuire l’origine e l’inizio del male a Dio, il giusto.


Capitolo due

L’uomo è ora privato del libero arbitrio e sottoposto a una schiavitù abietta.

II,2,1 Abbiamo visto come il dominio del peccato, da quando ha portato il primo uomo in suo potere, ora non solo regna in tutta la sua posterità, ma ha anche preso possesso di ogni singola anima. Ora dobbiamo esaminare più da vicino se, essendo stati una volta soggetti a questa schiavitù, abbiamo perso tutto il libero arbitrio, e fino a che punto, se ne rimane ancora un po’, si estende il suo potere. Ma affinché la verità in questa questione ci diventi ancora più chiara, stabilirò prima in poche parole il punto di vista fondamentale secondo il quale tutto deve essere orientato. Perché possiamo allora guardarci meglio da ogni errore se consideriamo i pericoli che minacciano da entrambi i lati. Perché (1) l’uomo fa subito una buona occasione di conforto dall’intuizione di non possedere più alcuna rettitudine (rectitudo); e poiché si dice di lui che lo sforzo per la rettitudine non ha in sé alcun valore, lo lascia interamente a se stesso, come se ormai non avesse più nulla a che fare con essa! E d’altra parte, (2) non si può dire nemmeno la minima cosa per lui senza che l’onore di Dio sia derubato e l’uomo sia abbattuto dalla presuntuosa fiducia in se stesso! Agostino menziona anche questi due abissi (Lettera 215 e Spiegazione di Giov 12). Per evitare queste insidie, il percorso da seguire è il seguente. Da un lato, l’uomo deve sapere che non c’è più nulla di buono in lui e in se stesso; è circondato da tutti i lati da una miserabile miseria. Ma allora bisogna insegnargli a cercare il bene che gli manca e la libertà di cui è privato. Così deve essere tirato fuori da ogni pigrizia, e più potentemente che se fosse persuaso di essere dotato del potere supremo per il bene (virtus). Quanto sia necessario questo secondo, lo vedranno tutti. Ma vedo che c’è più dubbio che bene sul primo. Perché se, da un lato, è fuori discussione che non si debba negare all’uomo ciò che gli appartiene, dall’altro, è chiaro come la luce del giorno quanto significhi strapparlo da ogni falsa autogloria. Perché anche allora non era permesso all’uomo di vantarsi in se stesso, quando era distinto dalla bontà di Dio con il più alto ornamento. Ma come deve umiliarsi ora, quando per la sua ingratitudine è caduto dalla più alta gloria alla più grande disgrazia! Nel momento in cui fu innalzato alla più alta gloria, le Scritture non gli attribuirono altro che il fatto di essere stato creato a immagine di Dio, indicando così che era benedetto non dai suoi propri beni ma dalla partecipazione a Dio! Cos’altro c’è da fare se non che egli, spogliato di ogni gloria, riconosca Dio, per la cui bontà non poteva essere grato quando lo ricopriva dei tesori della sua grazia? Che altro dovrebbe fare se non esaltare colui che (una volta) non lodava riconoscendo i suoi beni e i suoi doni, ora almeno confessando la propria povertà? Che tutta la gloria della nostra saggezza e della nostra virtù ci sia negata, non è meno a nostro vantaggio che a gloria di Dio; e chi ci concede qualcosa oltre la verità bestemmia Dio, e allo stesso tempo ci fa sprofondare nella distruzione! Perché se ci viene insegnato a combattere con le nostre forze, non è più che se fossimo sollevati su un bastone di canna, che presto si rompe, così che cadiamo! Ed è già una lode troppo alta per la nostra forza se viene paragonata a un bastone. Perché è tutto fumo e specchi quello che gli uomini hanno escogitato e di cui si sono persuasi! Per questo è fondato quando Agostino, in quel famoso detto, afferma ripetutamente che il "libero arbitrio" viene distrutto dai suoi difensori più di quanto non si affermi in realtà. Questa prefazione era necessaria. Perché ci sono alcune persone che, quando sentono che il potere umano di fare il bene (virtus) viene distrutto dal basso verso l’alto affinché il potere di Dio sia costruito nell’uomo, odiano tremendamente tutta questa considerazione, come se fosse pericolosa, addirittura del tutto superflua! Eppure è evidentemente necessario nella religione e, inoltre, della massima utilità per noi!

II,2,2 Ora abbiamo detto sopra che le potenze dell’anima consistono nella "mente" (comprensione, facoltà cognitiva) e nel cuore (volontà). Ora consideriamo cosa possono fare questi due. I filosofi sono ormai completamente uniti nell’opinione che la ragione ha la sua sede nella mente, e che brilla come una torcia davanti a tutte le decisioni e guida la volontà come una regina. Perché la ragione è così piena di luce divina che è in grado di consigliare al meglio, e di una potenza così eccezionale che è in grado di comandare al meglio. La sensualità, invece, era afflitta da pigrizia e cecità, per cui strisciava sempre per terra e si occupava di cose grossolane, ma non era mai in grado di elevarsi alla vera comprensione. La forza del desiderio, se obbedisce effettivamente alla ragione e non si lascia soggiogare dalla sensualità, è portata a lottare per la virtù; allora prende la strada giusta e si trasforma in volontà effettiva. Se invece entra nella schiavitù della sensualità, viene corrotta e distrutta da essa e degenera in mera lussuria. Ora, secondo loro, quelle potenze dell’anima che ho menzionato sopra, cioè l’intelligenza, la sensualità e la potenza del desiderio o volontà – un termine che è già entrato nell’uso frequente – hanno la loro sede insieme nell’uomo. E così sostengono che la facoltà della conoscenza è (in ogni caso) dotata di ragione, e che questa è la migliore guida per una vita buona e felice; solo la facoltà della conoscenza deve affermarsi in questa posizione privilegiata e lasciare che sia efficace il potere che le è innato per natura. Il suo impulso inferiore, cioè la cosiddetta sensualità, che lo porta all’errore e alle illusioni, è almeno capace di essere domato e gradualmente sottomesso dalla verga della ragione. Essi collocano ora la volontà in mezzo alla ragione e alla sensualità, cioè in modo tale che essa sarebbe potente di suo diritto e di sua libertà, o per obbedire alla ragione o per abbandonarsi alla sensualità, interamente a sua discrezione!

II,2,3 Ora i filosofi non negano – perché l’esperienza li condanna con troppa forza! Ora, i filosofi non negano – l’esperienza li convince fin troppo – quanta difficoltà abbia l’uomo a stabilire una regola di ragione in se stesso: a volte la tentazione lo attira verso il piacere, a volte una falsa apparenza di bontà lo inganna, a volte è impotentemente travolto da impulsi sfrenati e tirato avanti e indietro come da corde o lacci, come dice Platone. (Leggi, Libro I). Allo stesso modo Cicerone afferma che quelle piccole scintille che ci sono state date dalla natura vengono presto spente dalle cattive vedute o dai cattivi costumi. (Tusc. III). Ma una volta che tali malattie hanno preso piede nella mente umana, si diffondono troppo vigorosamente, secondo la stessa ammissione dei filosofi, per essere facilmente sottomesse. Sì, sono senza esitazione paragonati a cavalli selvaggi che abbandonano ogni ragione, gettano via il loro destriero e si abbandonano ora alla loro selvatichezza senza freni e senza moderazione. Ma questo è abbastanza fuori discussione per i filosofi, che la virtù e il vizio sono in nostro potere. Perché – dicono – se è nella nostra libera scelta di fare questo o quello, allora deve essere anche nella nostra scelta di non farlo! Al contrario, se il non fare è nelle nostre mani, lo è anche il fare! Ma noi facciamo ciò che facciamo per nostra libera scelta, e ci asteniamo anche da ciò da cui ci asteniamo per nostra libera scelta. Così, se facciamo qualcosa di buono dove ci sembra buono, possiamo anche astenerci dal farlo; se facciamo qualcosa di cattivo, possiamo anche evitarlo! (per esempio Aristotele, Nic. Eth. III,7). Alcuni filosofi si sono spinti fino all’audacia di affermare che è sì il dono degli dei che noi viviamo, ma è affar nostro che viviamo bene e santamente! (Seneca). Da qui anche la parola che Cicerone fa dire a Cotta: ogni uomo acquisisce la sua virtù da solo, e perciò nessun saggio ha mai ringraziato Dio per essa. "Per la virtù", dice, "siamo lodati, e per essa ci vantiamo". Ma questo non accadrebbe affatto se fosse un dono di Dio e non venisse da noi!". E poco dopo: "È un comune giudizio umano: agli dei si deve chiedere la felicità, ma la saggezza deve essere presa da se stessi!" (Cicerone, Sulla natura degli dei III). Il contenuto principale dell’opinione di tutti i filosofi è questo: la ragione dell’intelletto umano è sufficiente ad assicurare la giusta guida; la volontà è soggetta alla ragione, è sì provocata al male dalla sensualità, ma ha libera scelta e quindi non le si può mai impedire di seguire la ragione come guida in ogni cosa.

II,2,4 Non c’era nessuno tra i maestri della chiesa che non sapesse che la salute della ragione umana è gravemente ferita dal peccato e che la volontà è molto schiava dei desideri malvagi. Ma tuttavia molti di loro si sono avvicinati ai filosofi molto più di quanto sia giusto. Nel loro elogio delle potenze umane, gli antichi mi sembra che avessero intenzione, in primo luogo, di non suscitare il riso dei filosofi, con i quali dovevano discutere all’epoca, confessando chiaramente la completa incapacità umana. In secondo luogo, non volevano dare alla carne, che è già troppo pigra per fare il bene, una nuova ragione per essere pigra. Per queste ragioni, per non presentare qualcosa che apparisse assurdo al senso comune, cercarono di unire a metà strada gli insegnamenti della Scrittura e le dottrine dei filosofi; in particolare, i loro scritti mostrano chiaramente questa seconda ragione: non fare spazio alla pigrizia! Così, per esempio, il Crisostomo dice in un passaggio: "Dio ha dato il bene e il male in nostro potere, e con esso ci ha dato anche il libero arbitrio nella decisione (electionis liberum arbitrium); chi non vuole, non trattiene, ma chi vuole, accetta". (Sermone sul tradimento di Giuda, I). O anche: "Un uomo malvagio è spesso reso buono dalla trasformazione, se solo vuole, e un uomo buono cade per accidia e diventa malvagio; perché il Signore ha previsto che la nostra natura abbia il libero arbitrio (liberum arbitrium); né impone alcuna costrizione; al contrario, prepara la medicina adatta, e poi lascia interamente alla discrezione del malato di usarla." (Omelia sulla Genesi, XIX). Oppure: "Come non possiamo mai fare nulla di giusto senza l’aiuto della grazia di Dio, così non possiamo ottenere il favore dall’alto se non facciamo la nostra parte!". Ma prima ancora: "Affinché tutto dipenda dall’aiuto divino, anche noi dobbiamo contribuire con qualcosa". (Sermone 53). Perciò usa spesso e volentieri la frase: "Diamo solo quello che è nostro, Dio aggiungerà il resto!". E questo corrisponde di nuovo a ciò che dice Girolamo: "L’inizio è con noi, con Dio il completamento; noi dobbiamo contribuire con ciò che siamo capaci, ed Egli aggiungerà ciò che non siamo capaci" (Contro i Pelagiani, Libro III). Da questi detti si vede che i Padri della Chiesa permettevano all’uomo di sforzarsi di più per la virtù di quanto non fosse in accordo con la verità, cioè perché credevano di non poter disturbare la nostra inerzia innata in altro modo che rafforzando la convinzione che il peccato era solo l’opera di questa inerzia. Se e in che misura erano giustificati a farlo, lo vedremo più avanti. In ogni caso, la completa falsità delle opinioni presentate diventerà immediatamente chiara. È vero che i maestri della chiesa greca, e tra loro soprattutto il Crisostomo, hanno superato ogni misura nell’esaltazione della volontà umana. Tuttavia, tutti gli antichi, ad eccezione di Agostino, sono così diversi, vacillanti e confusi nel loro trattamento di questa materia che è quasi impossibile riprodurre qualcosa di certo dai loro scritti. Per questo motivo non cercherò di citare con precisione le opinioni dei singoli; piuttosto, selezionerò da ciascuno solo quanto è necessario per dimostrare il punto. I maestri successivi della Chiesa sono tali che ognuno reclama per sé la lode di un grande acume nella difesa della natura umana; ma l’uno sprofonda ancora più in basso dell’altro. Così si arrivò a credere che l’uomo fosse generalmente depravato solo nella sua parte sensuale, la sua ragione, invece, era ancora abbastanza intatta, e la volontà per la maggior parte. Nel frattempo, si diceva di bocca in bocca che i doni naturali erano corrotti nell’uomo, mentre i doni soprannaturali erano ritirati da lui. Ma il significato di questa frase non è stato minimamente compreso da un centinaio di persone. Se io, da parte mia, volessi parlare più chiaramente di come si costituisce la corruzione della natura, potrei accontentarmi di questa forma di espressione. Ma allora dobbiamo considerare attentamente di cosa è ancora capace l’uomo dopo che ha corrotto tutte le parti della sua natura e ha perso tutti i doni soprannaturali! Perché le persone che si definivano discepoli di Cristo ne parlavano in modo riccamente filosofico. Così l’espressione "libero arbitrio" rimase in uso tra i latini – come se l’uomo vivesse ancora intatto nel suo stato originale! I greci non avevano paura di usare un’espressione ancora più presuntuosa: dicevano che l’uomo era "autonomo" (autexusios) – come se avesse potere su se stesso! Così tutti, compreso il popolo, avevano l’opinione che l’uomo fosse dotato di "libero arbitrio"; ma anche coloro che amano essere considerati particolarmente eccellenti non sanno fino a che punto questo "libero arbitrio" arrivi effettivamente. Quindi esaminerò prima il significato di questa espressione ("libero arbitrio") e poi spiegherò dalla semplice testimonianza della Scrittura ciò che l’uomo è capace di fare il bene o il male per sua natura. Ora il termine "libero arbitrio" ricorre negli scritti di tutti i teologi allo stesso modo – ma ciò che riguardava era descritto solo da alcuni. Origene sembra riflettere la convinzione generale del suo tempo quando dice che il "libero arbitrio" è la capacità della ragione di distinguere tra bene e male e quella della volontà di decidere per uno dei due. Il giudizio di Agostino non è diverso: dice che il libero arbitrio è una facoltà della ragione e della volontà, secondo la quale, sotto l’assistenza della grazia, si sceglie il bene, ma in sua assenza il male. Bernard vorrebbe parlare con astuzia e quindi si esprime in modo un po’ più oscuro: il libero arbitrio è l’armonia che si basa sulla libertà inalterabile della volontà e sul giudizio inalterabile della ragione. La descrizione di Anselmo non è abbastanza semplice; egli dice che il libero arbitrio è la capacità di conservare la giustizia per se stessa. Così Pietro Lombardo e gli scolastici accettarono la descrizione di Agostino in misura maggiore, perché era più chiara e perché non escludeva la grazia di Dio – videro che la volontà non è sufficiente di per sé senza tale grazia. Allo stesso tempo, aggiungevano qualcosa di proprio: pensavano che l’uno fosse migliore, l’altro che servisse una maggiore chiarificazione. In ogni caso, c’è accordo sull’idea di base: l’espressione "volontà" (decisione) si riferisce alla ragione, che ha il diritto di distinguere tra il bene e il male; l’aggiunta "libera", invece, si riferisce effettivamente alla volontà, che può volgersi da una parte o dall’altra. (Così in Petrus Lombardus, Sentenze, Libro II,24). Poiché la "libertà" appartiene in realtà alla volontà, Tommaso dice che è più appropriato esprimerla in questo modo: il "libero arbitrio" è un potere di decisione (vis electiva), che è un misto di comprensione e desiderio, ma che appartiene più al potere del desiderio. (Summa theologica I,63). Così abbiamo mostrato dove sta, secondo questi teologi, il potere del libero arbitrio, cioè nella ragione e nella volontà. Ora dobbiamo vedere cosa attribuiscono a questi due in termini di efficacia.

II,2,5 In generale, tra i teologi citati, le "cose di mezzo" (res mediae), che quindi non hanno nulla a che fare con il regno di Dio, sono poste sotto il "libero arbitrio" dell’uomo, mentre la vera giustizia è riferita alla grazia speciale di Dio e alla rinascita spirituale. Con l’intenzione di chiarire questo, l’autore dell’opera "Sulla chiamata dei gentili" elenca tre tipi di volontà: quella sensuale, quella spirituale e quella mentale; ora dice che i primi due tipi sono liberi all’uomo, l’ultimo, invece, è opera dello Spirito Santo nell’uomo. (Pseudo-Ambrogio, Sulla chiamata dei gentili I,2). Se questo è vero, lo vedremo nel passaggio dato. Qui, tuttavia, intendo solo comunicare brevemente l’opinione di altri, non confutarla. In ogni caso, la conseguenza di questa affermazione è che i maestri della Chiesa, quando parlano di "libero arbitrio", non si chiedono prima cosa significhi per le opere civili, esterne, ma solo quale valore abbia per l’obbedienza alla legge divina. Sono convinto che quest’ultima questione sia della massima importanza, ma non credo che la prima debba essere lasciata completamente da parte. Spero di poter giustificare perfettamente questa proposta. Tra gli scolastici, tuttavia, la distinzione principale era che venivano enumerati tre tipi di libertà: primo, la libertà dalla necessità; secondo, la libertà dal peccato; terzo, la libertà dalla miseria. Il primo, si pensava, era così inseparabilmente legato alla natura dell’uomo che non poteva essere strappato in nessuna circostanza, mentre gli altri due erano persi a causa del peccato. Adotterò volentieri questa distinzione; ma così facendo la "necessità" si confonde con la "costrizione" – e diventerà chiaro in un altro luogo quanto sia profonda la differenza tra queste due e quanto sia necessario osservarla.

II,2,6 Se questo è accettato, allora è fuori discussione che l’uomo non ha alcun "libero arbitrio" che possa aiutarlo alle buone opere, se non è assistito dalla grazia, e precisamente dalla grazia "speciale" (gratia specialis) che solo gli eletti ricevono attraverso la rigenerazione. Perché non voglio essere coinvolto con persone così insensate che millantano che la grazia è distribuita a tutti in egual misura e senza distinzione. Ma questo non è stato ancora chiarito, se l’uomo è completamente privo di qualsiasi capacità di agire bene, o se ne ha ancora un po’, anche se è piccola e debole. Si tratterebbe allora di una capacità che, pur non potendo fare nulla da sola, farebbe tuttavia la sua parte con l’aiuto della grazia. Questa è la questione che il Maestro delle Sentenze (Pietro Lombardo) vuole risolvere; e perciò insegna che abbiamo bisogno di una duplice grazia per essere mandati al bene. La prima la chiama "grazia attiva" – ci fa desiderare di fare il bene in modo efficace. L’altra è chiamata "grazia cooperante", che segue tale buona volontà con la sua assistenza (Sentenze II,26). Ciò che non mi piace di questa divisione è che attribuisce il desiderio effettivo alla grazia di Dio, ma allo stesso tempo suggerisce che l’uomo stesso desidera il bene per natura, anche se senza effetto. Così Bernardo sostiene anche che la buona volontà è opera di Dio, ma poi permette all’uomo di desiderare questa buona volontà di sua iniziativa! Questo non ha niente a che vedere con l’opinione di Agostino, eppure il lombardo vorrebbe dare l’impressione di aver preso in prestito da lui questa divisione. Nel secondo arto (la divisione), l’ambiguità mi ripugna, che poi ha causato anche un’interpretazione completamente sbagliata. Perché si è pensato che noi lavoriamo insieme alla seconda grazia ("cooperante") di Dio, cioè che abbiamo la possibilità o di rifiutare quella prima grazia (quella "operante") e così renderla inefficace, o di seguirla obbedientemente e così renderla efficace. L’autore dell’opera "Sulla chiamata dei gentili" lo esprime in questo modo: Chi segue il giudizio della ragione è libero di allontanarsi dalla grazia; e quindi è un atto degno di ricompensa non allontanarsene; in questo modo, dunque, l’opera buona, che non può essere fatta senza la cooperazione dello Spirito, è imputata ai meriti dell’uomo, la cui volontà potrebbe anche impedirla! (Libro II,4). Queste due cose dovevano essere toccate di sfuggita, affinché il lettore possa vedere quanto io sia in disaccordo anche con gli studiosi più ragionevoli. Una distanza molto maggiore, infatti, mi separa dai sofisti più recenti – e questo tanto più quanto più essi, a loro volta, si discostano da quelli più vecchi. In ogni caso, però, impariamo da quella divisione per quale motivo hanno concesso il libero arbitrio all’uomo. Infatti il lombardo lo dice finalmente: abbiamo il libero arbitrio non perché siamo ugualmente capaci di fare o pensare il bene e il male, ma solo perché siamo liberi dalla costrizione. Questa libertà non è ostacolata (secondo il lombardo) anche se siamo malvagi, addirittura servi del peccato, e non possiamo fare altro che peccare (Sent. II,25).

II,2,7 In questo modo, dunque, si attribuisce all’uomo il libero arbitrio, non nel senso che ha la libera scelta di fare il bene come il male, ma perché agisce il male con volontà e non per costrizione. Ora questo è eccellente – ma a quale scopo dovrebbe effettivamente servire dare a una cosa così banale un nome così pomposo? Questa è veramente una libertà eccellente, dove l’uomo non è costretto nella schiavitù del peccato, ma è tuttavia un servo volontario (ethelodulos) tale che la sua volontà è tenuta in catene dal peccato! In verità, ogni verbosità (logomachia) mi ripugna, perché affligge la chiesa senza profitto; ma penso che dovremmo stare abbastanza attenti a tali espressioni, che sembrano contenere qualcosa di assurdo, soprattutto quando è imminente un pericoloso errore. Dove c’è sulla terra un uomo che, quando sente che il libero arbitrio è attribuito all’uomo, non pensa subito che ora è padrone della sua mente e della sua volontà e che può girare di sua iniziativa in qualsiasi direzione? Ma qualcuno potrebbe obiettare che ogni pericolo in questa direzione sarebbe eliminato se il popolo fosse diligentemente istruito sul significato del termine. Sì, ma la mente umana è per natura così incline all’errore che può prendere più facilmente l’errore da una singola parola che la verità da un lungo discorso. Questo stesso concetto è una prova migliore di quanto si possa desiderare. Perché quell’interpretazione degli antichi è stata completamente abbandonata, e da allora tutti si sono attenuti alla comprensione letterale dell’espressione "libero arbitrio", lasciandosi così trasportare in una perniciosa fiducia in se stessi.

II,2,8 L’autorità dei Padri della Chiesa ci è di grande aiuto; essi usano costantemente la parola "libero arbitrio", ma allo stesso tempo mostrano chiaramente fino a che punto si spingono nella sua applicazione. Agostino, in particolare, non esita a chiamare la volontà "soggiogata", "non libera" (Contro Giuliano, Libro I). In un altro passaggio, si scatena contro coloro che negano il libero arbitrio; ma nel farlo, dà anche una ragione ben precisa: "Solo che nessuno osi negare la determinatezza (arbitrium) della volontà in modo tale da voler scusare con essa il peccato" (Omelia su Giovanni, 53). E in un altro passaggio ammette chiaramente che senza lo Spirito Santo la volontà dell’uomo non è libera, poiché è soggetta ai desideri che la vincolano e la vincono (Lettera 145). Oppure sentiamo anche che dopo che la volontà è stata vinta dal vizio in cui è caduta, la natura non ha più libertà (Sulla perfezione della giustizia dell’uomo, 4,9). Oppure: l’uomo aveva fatto un cattivo uso del suo libero arbitrio, e ora aveva perso la sua capacità di decidere (arbitrium) (Handbüchlein, 30). Oppure: il libero arbitrio è caduto in cattività così che non può più fare nulla per la giustizia (Contro due lettere dei pelagiani a Bonifacio, III,8). Inoltre: Ciò che la grazia di Dio non ha reso libero, quello non è libero (ibid. I,3). E: la giustizia di Dio non si compie quando la legge comanda qualcosa e l’uomo lo fa con le sue sole forze, per così dire, ma quando lo Spirito presta il suo aiuto e non il libero arbitrio dell’uomo, ma la sua volontà, liberata da Dio, compie l’obbedienza (III,7). La ragione di tutto questo è brevemente riassunta altrove come segue: l’uomo ha ricevuto grandi poteri di libero arbitrio nella sua creazione, ma li ha persi perché ha peccato (Sermone 131). In un altro luogo mostra che il libero arbitrio si realizza attraverso la grazia, e poi continua aspramente contro coloro che vogliono arrogarselo senza la grazia. Dice: "Come osano i miserabili parlare con arroganza del libero arbitrio prima ancora di essere resi liberi, o dei loro poteri prima di aver raggiunto la libertà? Non prestano attenzione al fatto che la parola ’libero arbitrio’ ha già in sé un anello speciale di ’libertà’. Ma dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà! (2Cor 3:17). Se dunque sono servi del peccato, che cosa vantano del libero arbitrio? Perché uno è soggetto come un servo a colui che lo tiene prigioniero! Ma se vengono liberati, di cosa si vantano, come se loro stessi avessero fatto qualcosa nel processo? O sono così liberi da non essere anche servi di colui che dice: Senza di me non potete fare nulla (Giov 15:5)?". (Dello Spirito e della Lettera, XXX). Sì, in un altro luogo sembra ridere dell’uso (comune) di questa espressione quando dice che la volontà è libera, ma non resa libera, libera dalla giustizia e serva del peccato! (Della disciplina e della grazia, 13). Ripete anche altrove questa frase e la elabora: l’uomo è libero dalla giustizia solo per la propria decisione di volontà, ma è liberato dal peccato solo per la grazia del Redentore (A Bonifacio, I,2). Se testimonia in questo modo che intende per libertà dell’uomo solo la sua liberazione dalla giustizia, allora sembra ridicolizzare il concetto vuoto di libertà! Se dunque qualcuno vuole usare questo termine senza cattiva comprensione, non voglio tormentarlo per questo. Ma io sono dell’opinione che il termine non può essere mantenuto senza un incommensurabile pericolo, e che la sua abolizione porterebbe una grande benedizione alla Chiesa; perciò non voglio usarlo io stesso, e anche consigliare altri, se vogliono ascoltare il mio consiglio, contro il suo uso.

II,2,9 Ma forse sembra che io abbia eccitato un pregiudizio contro di me affermando che tutti i Dottori della Chiesa, eccetto Agostino, hanno parlato di questo in modo così ambiguo e multiforme che nulla di certo si può imparare dai loro scritti. Alcuni lo interpreteranno come se io volessi escluderli dal diritto di voto solo perché sono tutti contrari a me. Ma non ho avuto altro in mente che consigliare alle persone timorate di Dio semplicemente e fedelmente ciò che è meglio, perché se volessero aspettarsi qualcosa di giusto dall’opinione dei Padri in questa materia, dovrebbero sempre rimanere all’oscuro. Perché a volte insegnano che l’uomo ha perso i poteri del libero arbitrio e deve rifugiarsi nella sola grazia; a volte, al contrario, lo armano con le sue stesse armi, o almeno sembrano farlo. Ma non è difficile dimostrare che in questa ambiguità del loro insegnamento essi considerano anche la potenza umana (virtus) come nulla, o almeno da tenere in bassissima considerazione, e quindi danno la lode di tutto ciò che è buono allo Spirito Santo. A tal fine, inserirò alcuni dei loro detti che esprimono chiaramente questo. Così Agostino loda molto spesso una parola di Cipriano: "Non dobbiamo vantarci di nulla, perché nulla è nostro". Cos’altro intende Cipriano con questo se non che l’uomo, essendo diventato completamente annullato in sé e per sé, dovrebbe imparare ad aggrapparsi interamente a Dio? Che cosa significa quando Agostino ed Eucherio intendono Cristo per l’albero della vita e dichiarano che chi stende le mani verso di esso ha la vita, o quando dicono che l’albero della conoscenza del bene e del male è la decisione della volontà (voluntatis arbitrium) – e che chi rinuncia alla grazia di Dio e ne mangia deve morire? (Sulla Genesi, Libro III). O cosa significa la parola del Crisostomo: ogni uomo è per natura non solo peccatore, ma tutto peccato? Se nulla di buono ci appartiene, se l’uomo non è altro che peccato dalla pianta del piede alla corona del capo, se non può nemmeno provare fin dove si estende la facoltà del libero arbitrio – come si può dividere la lode per un’opera buona tra Dio e l’uomo? Potrei citare un gran numero di detti simili di altri scrittori, ma mi asterrò dal farlo, per evitare che qualcuno possa spettegolare che sto presentando solo quelli che sarebbero utili alla mia causa, e che sto astutamente omettendo gli altri che parlano contro di essa. Questo, tuttavia, oso affermare: certo, i maestri della Chiesa si spingono talvolta troppo in là nel loro elogio del libero arbitrio; ma il loro scopo e la loro intenzione era di dissuadere completamente l’uomo dal confidare nelle proprie forze e di insegnargli che tutta la sua forza risiede in Dio solo. Ora cercherò di mostrare semplicemente e sinceramente qual è la natura dell’uomo.

II,2,10 Qui devo di nuovo fare riferimento alla prefazione di questo capitolo. Vale a dire: un uomo è penetrato nella giusta conoscenza di sé solo quando è completamente umiliato e schiacciato a terra dalla coscienza del suo bisogno, della sua mancanza, della sua nudità e vergogna. Perché non c’è pericolo che l’uomo si neghi troppo. Solo deve riconoscere che ciò che gli manca può essere riconquistato in Dio. Ma non può arrogarsi nemmeno la minima cosa al di là del suo diritto senza rovinarsi nella vana fiducia in se stesso, derubando Dio del suo onore, appropriandosene e rendendosi così colpevole del più terribile sacrilegio. E davvero, se mai ci venisse in mente questa avidità, di volere qualcosa per noi stessi, che quindi avrebbe il suo posto in noi stessi e non in Dio, dovremmo sapere che questo pensiero ci viene sussurrato dallo stesso consigliere che un tempo diede ai nostri primi antenati il desiderio di essere come Dio e di sapere cosa è bene e cosa è male. È una parola del diavolo, che gonfia l’uomo dentro di sé – e quindi non dobbiamo dargli spazio, a meno che non vogliamo prendere consigli dal nemico! Certamente ci piace sentire che abbiamo tanta forza propria da poter contare su noi stessi. Ma molte parole serie della Scrittura ci mettono in guardia contro la tentazione di tale vana fiducia in se stessi, e indicano rigorosamente i nostri limiti. Così: "Maledetto l’uomo che confida nell’uomo e tiene per braccio la carne …." (Ger 17:5). Oppure: "Dio non si compiace della forza di un cavallo, né delle cosce di un uomo; ma si compiace di coloro che lo temono e sperano nella sua bontà" (Sal 147,10 s.). Inoltre, "Egli dà forza allo stanco e forza sufficiente al debole". Egli rende i ragazzi stanchi e deboli e i giovani inciampano – ma quelli che sperano in lui solo ottengono nuova forza …" (Isa 40,29.31; non proprio il testo di Lutero). Il significato di questi passaggi è che non dobbiamo fare minimamente affidamento sull’illusione della nostra forza se vogliamo avere un Dio misericordioso, perché "Egli resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili" (Prov 3:34. Giac 4:6). D’altra parte, dovremmo anche ricordare promesse come: "Verserò acqua sugli assetati e fiumi sugli aridi" (Isa 44,3), o: "Voi tutti che avete sete, venite all’acqua" (Isa 55,1). Lì ci viene detto che solo coloro che languono nella consapevolezza della loro povertà sono in grado di partecipare alle benedizioni di Dio. Né dovremmo passare sopra a passaggi come quello in Isaia: "Il sole non risplenderà più su di te di giorno, né lo splendore della luna ti illuminerà di notte; ma il Signore sarà la tua luce eterna" (Isa 60:19). Certamente il Signore non vuole privare i suoi servi dello splendore del sole o della luna; ma vuole apparire glorioso solo in mezzo a loro, e quindi attira anche la loro fiducia lontano da ciò che secondo loro è il più glorioso.

II,2,11 In ogni momento una parola del Crisostomo mi è stata potentemente gradita: Che l’umiltà sia il fondamento della nostra saggezza (Omelie sul progresso del Vangelo, III). Ma mi ha fatto ancora più piacere un detto di Agostino: "Una volta fu chiesto a un oratore quale regola si dovesse osservare per prima nell’eloquenza. Ha risposto: "La conferenza". E al secondo posto? Di nuovo: "La conferenza"! E al terzo posto? Di nuovo: "La conferenza"! Allo stesso modo, se mi chiedeste qual è la cosa più importante nelle regole della religione cristiana, dovrei nominare prima e seconda e terza e sempre solo l’umiltà!" (Lettera a Dioskur, 118). Per umiltà, tuttavia, non intende che un uomo, consapevole di qualche virtù, si astenga dall’arroganza e dalla pomposità, ma piuttosto, come spiega altrove, la certezza di un uomo di essere tale da poter trovare rifugio solo nell’umiltà. Così dice: "Che nessuno si lusinghi; egli è di per sé un Satana; quello per cui è salvato lo ha solo Dio. Perché cosa hai di te stesso se non il peccato? Prendi il peccato che è tuo, perché la giustizia è dono di Dio" (Interpretazione su Giov 49). O anche: "Perché stimiamo così tanto l’abilità della natura? È ferito, malato, livido e corrotto! Quello che serve è una giusta confessione, non una difesa sbagliata" (Natura e Grazia, 66). Allo stesso modo: "Quando ognuno riconosce che non è nulla in se stesso e non riceve alcun aiuto da se stesso, allora le armi si rompono in lui e la guerra è risolta. Ma è anche veramente necessario che tutte le armi dell’empietà siano frantumate, schiacciate e bruciate e che tu rimanga senza armi e non abbia alcun aiuto in te stesso. Più sei debole in te stesso, prima il Signore ti accetterà" (sul Sal 45). Così anche, nella sua spiegazione del Sal settantesimo, ci proibisce ogni pensiero della nostra propria giustizia, affinché possiamo conoscere la giustizia di Dio, e mostra come Dio rende la sua misericordia così grande per noi che sappiamo di essere nulla. È solo grazie alla misericordia di Dio che siamo stabiliti, mentre da noi stessi siamo solo malvagi (Sul Sal 70, I,2). Pertanto, non dobbiamo discutere con Dio dei nostri diritti, come se ciò che gli viene attribuito fosse dannoso per la nostra salvezza. Perché come la nostra bassezza è la sua maestà, così anche la confessione della nostra bassezza trova la sua misericordia pronta come rimedio. Ma in questo non esigo che l’uomo si abbassi senza convinzione, o che si allontani dai poteri (facultates) che possiede, per sottomettersi così nella vera umiltà. No, lascia perdere tutte le malattie dell’amor proprio e dell’ambizione – perché è accecato da esse e così pensa più in alto di se stesso di quanto sia giusto – e riconoscersi invece correttamente nello specchio incontaminato della Scrittura.

II,2,12 L’opinione generalmente accettata, presa in prestito da Agostino, secondo la quale i doni naturali nell’uomo sono corrotti dal peccato, mentre i doni soprannaturali sono completamente estinti, incontra la mia approvazione. I "doni soprannaturali" nella seconda clausola della frase sono intesi come la luce della fede e della giustizia, che sarebbe stata sufficiente per ottenere la vita celeste e la beatitudine eterna. Così, nello stesso momento in cui fu allontanato dal regno di Dio, l’uomo perse anche i doni spirituali di cui era dotato per la speranza della salvezza eterna. Ne consegue che egli vive bandito dal regno di Dio in modo tale che tutto ciò che appartiene alla vita beata dell’anima si spegne in lui – finché non rinasce per la grazia dello Spirito Santo e riacquista questi doni. Questi includono la fede, l’amore per Dio, l’amore per il prossimo e la ricerca della santità e della giustizia. Tutte queste cose Cristo ce le restituisce; ma sono così chiamate qualcosa di aggiunto (dall’esterno) e non appartenenti alla natura; e da questo si conclude che sono state eliminate (dalla caduta). D’altra parte, la salute della "mente" (comprensione) e la sincerità del cuore (volontà) sono state allo stesso tempo perse, e questa è la "corruzione" dei doni naturali. Infatti, sebbene rimanga un residuo di comprensione e giudizio, insieme alla volontà, non possiamo dire che la mente sia intatta e sana, perché è debole e coperta da molte tenebre; inoltre, la perversità della volontà è più che sufficientemente nota. Perciò, poiché la ragione, con la quale l’uomo distingue il bene dal male, comprende e giudica, è un dono naturale, non poteva essere completamente distrutta, ma è in parte indebolita, in parte corrotta, così che così (solo) frammenti informi (deformes ruinae) sono ancora visibili. In questo senso Giov dice: "La luce brilla nelle tenebre e le tenebre non l’hanno compresa" (Giov 1,5). In questo detto, entrambe le cose sono chiaramente espresse: da un lato, si mostra che nella natura perversa e degenerata dell’uomo ci sono ancora dei barlumi che mostrano che egli è un essere razionale (animale razionale) e si differenzia dagli animali perché è dotato di comprensione. Ma d’altra parte si dice che questa luce è così soffocata dall’oscurità terribilmente densa dell’ignoranza che non può effettivamente brillare. Così anche la volontà non è perduta, perché non può essere separata dalla natura dell’uomo; ma è caduta in cattività ai desideri cattivi, così che non può più desiderare nulla di giusto. Questa è una descrizione completa, ma deve essere sviluppata in modo più dettagliato. Procederemo ora nell’ordine, secondo la divisione data sopra, secondo la quale abbiamo distinto l’intelletto e la volontà nell’anima dell’uomo. Dobbiamo quindi esaminare prima il potere dell’intelletto. Sarebbe contrario non solo alla parola di Dio, ma anche all’esperienza comune (sensus communis experientia), se l’intelletto fosse condannato alla cecità permanente in modo tale che non gli restasse alcuna conoscenza delle cose. Perché vediamo che nello spirito umano è impiantato un certo desiderio di cercare la verità, e questo sforzo per la verità sarebbe impossibile se non ne avesse già un sentore. Una certa facoltà conoscitiva dell’intelletto, dunque, sta già nel fatto che esso è stimolato dalla natura ad amare la verità; il fatto che gli animali non la conoscano è proprio una prova dei loro sensi grezzi e irragionevoli. Certamente, per quanto questo desiderio di verità possa essere costituito, esso fallisce ancor prima di essere attuato, perché presto cade nella vanità. Lo spirito umano, nella sua debolezza di visione, non può fermarsi sulla strada giusta per la ricerca della verità, ma si perde in vari errori, spesso inciampando mentre annaspa come nelle tenebre, finché alla fine, stanco di vagare, svolazza via. Così, appena sopra la ricerca della verità, mostra quanto sia incapace di cercarla e trovarla. La nostra mente ha anche difficoltà con una seconda illusione: spesso non riesce a vedere chiaramente quali oggetti sono effettivamente più meritevoli della nostra indagine approfondita. Perciò, nella ridicola curiosità, si tormenta con l’indagine di cose superflue e banali e, d’altra parte, non si rivolge affatto a quelle cose che sono più necessarie da riconoscere, o comunque le tratta con insufficiente rispetto, le affronta solo raramente, ma in realtà non vi applica quasi mai un vero zelo. Gli scrittori laici si lamentano molto spesso di questo difetto, e così facendo ammettono che quasi tutti gli uomini ne sono afflitti. Così anche Salomone, in tutto il suo "Ecclesiaste", insegue il pensiero e lo sforzo in cui gli uomini sembrano essere particolarmente saggi, e poi dichiara che è tutto "vano" e inutile!

II,2,13 Tuttavia, gli sforzi dello spirito umano non sono sempre così infruttuosi da non ricavarne nulla; soprattutto quando sono rivolti più alle cose inferiori. Né è così rigido da non capire un po’ delle cose superiori, anche se se ne occupa meno a fondo. Perché non appena l’uomo va oltre la sfera di questa vita terrena, diventa abbastanza consapevole della sua inadeguatezza. Per poter riconoscere meglio fino a che punto l’intelletto arriva nelle singole cose secondo la potenza della sua facoltà conoscitiva, dobbiamo quindi opportunamente fare una distinzione. E questo dovrebbe consistere nel rendere chiaro a noi stessi che la conoscenza delle cose terrene è qualcosa di diverso da quella delle cose celesti. Per cose "terrene" intendo quelle che non hanno nulla a che fare con Dio, il suo regno, la vera giustizia e la beatitudine della vita futura, ma che, secondo il loro significato e le loro relazioni, appartengono alla vita presente e rimangono, per così dire, nei suoi limiti. Per cose "celesti" intendo la pura conoscenza di Dio, la via della vera giustizia e i misteri del regno dei cieli. Al primo gruppo appartengono il reggimento mondano, le arti domestiche, tutti i mestieri e le arti liberali. Il secondo gruppo comprende la conoscenza di Dio e della sua volontà, e le linee guida per vivere la propria vita secondo questa conoscenza. Del primo gruppo si può dire quanto segue: l’uomo è un essere per natura concepito per la comunità (animale natura sociale) e quindi tende per istinto naturale a mantenere e promuovere questa comunità. Pertanto, notiamo che i sentimenti generali per una certa rispettabilità e ordine civico sono inerenti a tutti gli esseri umani. Perciò non si può trovare un uomo che non capisca che ogni comunità umana deve essere tenuta insieme da leggi, e che non porti nella sua mente i principi di tale legislazione. Da qui viene anche quel perpetuo accordo di tutte le nazioni e anche dei singoli mortali riguardo alle leggi; poiché i semi di questo sono seminati in tutti gli uomini senza maestri e legislatori. Non mi soffermerò sulla discordia e la lotta che presto sorgono quando alcuni desiderano rovesciare tutta la legge umana e divina, rompere tutte le barriere della legge, e dare libero sfogo alla lussuria solo per il proprio diritto, come ladri e rapinatori, o quando altri, che è un male fin troppo comune, dichiarano sbagliato ciò che altri hanno stabilito come giusto, o lodevole ciò che quelli proibiscono! Perché l’odio di tali uomini contro le leggi non è dovuto al fatto che essi non sanno che esse sono buone e sante; ma essi infuriano nella cupidigia selvaggia, combattono contro la ragione chiaramente riconosciuta, e nella loro brama aborrono ciò che approvano con la forza della loro propria comprensione! La natura di quest’ultimo litigio è tale da non dissolvere quella coscienza originaria del diritto. Al contrario: se gli uomini sono in disputa su alcune parti delle leggi, c’è tuttavia accordo sull’essenziale della legge. Certo, questo mostra l’inadeguatezza dello spirito umano: anche dove sembra seguire la strada giusta, inciampa e vacilla! Tuttavia, resta il fatto che un seme dell’ordine del regime mondano è, per così dire, piantato nel cuore di tutti gli esseri umani. E questa è una forte prova che nella condotta di questa vita (terrena) nessun uomo è senza il lume della ragione.

II,2,14 Ora seguite le arti liberali e i mestieri. Tutti abbiamo una certa attitudine per queste cose, e il fatto che siamo in grado di impararle mette anche in luce la potenza dell’intelletto umano. Certamente non tutti sono in grado di imparare tutto; ma è comunque un segno abbastanza chiaro del potere generalmente esistente che non si trova quasi nessuno il cui intuito non sarebbe notevole (almeno) in qualche abilità! Ma la forza e l’agilità si dimostrano non solo nell’apprendimento, ma anche nel pensare qualcosa di nuovo in un’arte, e anche nel perfezionare e allenare ciò che si è imparato da qualcun altro. Questa osservazione ha dato una volta a Platone l’idea sbagliata che tale comprensione non sia altro che la memoria. Ma ci costringe ad ammettere, a ragione, che le ragioni iniziali sono innate nello spirito umano. Queste prove testimoniano chiaramente che un concetto generale di ragione e comprensione è insito nell’uomo per natura. Eppure questo bene è così universalmente presente che ogni individuo deve personalmente riconoscere in esso un dono speciale della grazia di Dio. A questa gratitudine lo stesso Creatore della natura ci incoraggia potentemente; perché Egli crea anche gli sciocchi per mostrare in loro quali capacità distinguono effettivamente l’anima umana quando non è inondata (perfusa) della Sua luce – e quest’ultima avviene per natura quasi in tutti gli esseri umani, così che è praticamente un dono gratuito della Sua grazia per ogni individuo! Ora l’invenzione delle arti e l’istruzione ordinata in esse, o anche la conoscenza penetrante e di vasta portata – che è propria solo di alcuni – non è una prova sufficiente di una capacità generale di conoscenza. Ma è comune sia al pio che al non pio, ed è quindi giustamente annoverato tra i doni naturali.

II,2,15 Per quanto spesso leggiamo gli scrittori pagani, la luce della verità ci risplende meravigliosamente da loro. Da questo vediamo che sebbene lo spirito umano sia caduto dalla sua purezza originale e sia corrotto, è ancora equipaggiato e adornato con eccellenti doni di Dio. Se ora consideriamo che lo Spirito di Dio è l’unica fonte di verità, non rifiuteremo né disprezzeremo la verità ovunque essa ci metta di fronte – altrimenti saremmo disprezzatori dello Spirito di Dio! Perché non si possono denigrare i doni dello Spirito senza disprezzare e oltraggiare lo Spirito stesso! Perché dovremmo? Dovremmo negare che gli antichi giuristi erano illuminati dalla verità, quando descrivevano con tanta giustizia l’ordine e la disciplina civile (civilem ordinem et disciplinam)? Vogliamo dire che i filosofi erano ciechi nella loro bella osservazione e nell’abile descrizione della natura? Vogliamo dire che coloro che hanno presentato l’arte del ragionamento e ci hanno insegnato a parlare in modo sensato mancano di ragione? Dovremmo dichiarare insensati coloro che ci hanno servito con tanta diligenza allenandosi nell’arte della guarigione? Cosa diremo alle scienze matematiche? Vogliamo considerarli la frenesia dei pazzi? No, non possiamo leggere gli scritti degli antichi su questo argomento senza grande ammirazione, e arriviamo a questo perché dobbiamo necessariamente dichiararli eccellenti secondo i fatti. Ma possiamo dichiarare qualcosa di lodevole o eccellente senza allo stesso tempo riconoscere che viene da Dio? Dovremmo vergognarci di una tale ingratitudine; anche i poeti pagani non vi cadevano: dichiaravano che la filosofia e la legislazione e tutte le belle arti erano insegnamenti degli dei! Così anche questi uomini, che la Scrittura chiama "uomini naturali", sono evidentemente in questo grado percettivi e capaci di conoscenza nell’indagine delle cose inferiori. Da questi esempi dovremmo imparare quanto bene il Signore ha lasciato a noi esseri umani, dopo che abbiamo, naturalmente, perso il vero bene!

II,2,16Ma intanto non trascuriamo il fatto che queste capacità sono i più gloriosi doni dello Spirito di Dio, che Egli distribuisce a chi vuole per il bene comune del genere umano. Se Bezaleel e Oholiab dovevano avere la comprensione e la conoscenza necessarie per la costruzione del tabernacolo, dovevano essere riempiti con essa dallo Spirito di Dio (Es 31:2; 35:30f s.). E quindi non sorprende che si dica che la conoscenza delle cose più importanti nella vita umana ci è data dallo Spirito di Dio. Ma nessuno ha motivo di chiedere: Che cosa hanno a che fare gli empi con lo Spirito Santo, visto che sono completamente separati da Dio? Perché si dice che lo Spirito di Dio abita solo nei fedeli (cfr. Rom 8,9), ma questo deve essere collegato allo Spirito di santificazione, attraverso il quale siamo consacrati a Dio stesso come un tempio. Ma per questo Dio, per la potenza dello stesso Spirito, non meno riempie, muove e rafforza tutte le cose, secondo la natura peculiare di ogni singolo essere, come gliel’ha assegnata dalla legge della creazione (creationis lege). Se, quindi, il Signore vuole aiutarci attraverso l’aiuto e il servizio degli empi nella scienza naturale, nella scienza del pensiero o nella matematica o in altre scienze, dobbiamo farne uso. Altrimenti disprezzeremmo i doni di Dio, che ci vengono offerti di nostra iniziativa, e saremmo giustamente puniti per la nostra pigrizia! Ma che nessuno consideri l’uomo beato solo perché gli è concesso un tale potere di comprendere la verità tra le cose deperibili di questo mondo. Perciò bisogna aggiungere subito: tutto questo potere di comprensione, questa comprensione, come risulta da esso – è dopo tutto una cosa mutevole e nulla davanti a Dio, se non poggia sul solido fondamento della verità (stessa)! Perché Agostino, che, come ho detto, il Maestro delle Sentenze (II,25) e gli scolastici dovevano seguire, ha ragione, dopo tutto, quando dice che i doni della grazia furono ritirati dall’uomo dopo la caduta, e che anche i restanti doni naturali furono corrotti. Ora questo non significa che siano contaminati da loro stessi, perché vengono da Dio. Ma per l’uomo contaminato non sono più puri, così che non può cercare la sua gloria in essi!

II,2,17 Come contenuto principale di ciò che è stato appena detto, teniamo duro: In tutto il genere umano si vede che la ragione è inerente alla nostra natura; ci distingue dagli animali, così come questi ultimi si distinguono dagli esseri inanimati per il possesso del sentimento. Nascono sciocchi e imbecilli, ma questa mancanza non oscura la grazia generale di Dio (generalem Dei gratiam). Al contrario, l’immagine stessa di tale miseria ci ricorda che tutto ciò che ci rimane è giustamente dovuto alla grazia di Dio: se non ci avesse risparmiato, la caduta avrebbe portato con sé la rovina di tutta la natura. Ma nel fatto che uno eccelle nella sagacia, un altro nel discernimento, un altro è particolarmente dotato nell’apprendere questa o quella abilità, così in questa diversità Dio ci pone davanti la sua grazia – in modo che ognuno non si arroghi ciò che gli è scaturito dalla sua semplice generosità. Perché da dove altro dovrebbe venire il fatto che l’uno spicca sull’altro, se non dal fatto che all’interno della natura comune si rende visibile la grazia speciale di Dio (specialis Dei gratia), che passa per molti e così testimonia più chiaramente che non ha obblighi verso nessuno? Oltre a questo, dobbiamo tenere presente che Dio, secondo la speciale chiamata (vocatio) dell’individuo, suscita anche speciali forze motivanti in lui; troviamo molte prove di questo nel libro dei Giudici, dove si dice che lo Spirito del Signore si impossessò di coloro che aveva chiamato a governare il popolo (Giudici 6:34). Infine, un impulso speciale appare anche in eventi speciali; così quelli andarono con Saul "a cui Dio aveva toccato il cuore" (1Sam 10:26). E all’investitura di Saul alla regalità, Samuele dice: "Lo Spirito del Signore verrà su di te, e tu diventerai un altro uomo" (1Sam 10:6). Questo si riferisce all’intero corso del regno, poiché Davide è riportato più tardi che disse che lo Spirito del Signore venne su di lui quel giorno e da quel giorno in poi (1Sam 16:13). Ma questo è esattamente ciò che viene detto in altri passi riguardo agli impulsi speciali dello Spirito. Sì, in Omero si dice che gli uomini non hanno il loro intelletto solo secondo la misura dell’assegnazione (una tantum) da parte di Giove, ma che lo possiedono "secondo come egli li governa quotidianamente" (Odissea). E l’esperienza mostra davvero – per esempio, quando persone altrimenti molto dotate e competenti spesso stanno improvvisamente lì come fulminate – come lo spirito umano sia così tanto nella mano e nella volontà di Dio che lo governa nei singoli momenti! Così è anche detto: "Egli toglie l’intelligenza ai prudenti, ed essi si perdono" (Sal 107:40; non è il testo di Lutero). Eppure, anche in mezzo a queste grandi differenze, vediamo alcuni segni residui dell’immagine di Dio che distinguono l’intera razza umana dalle altre creature.

II,2,18 Consideriamo ora di cosa è capace la ragione umana quando si tratta del regno di Dio e dell’intuizione spirituale. Questa intuizione spirituale consiste principalmente in tre pezzi: (1) conoscere Dio, (2) la sua grazia paterna nei nostri confronti, sulla quale poggia la nostra salvezza, e (3) il modo giusto di condurre la nostra vita secondo la guida della legge. Nei primi due, soprattutto nel secondo, anche le persone più intelligenti sono più cieche delle talpe. Non nego, naturalmente, che ogni tanto si possono leggere nei filosofi affermazioni intelligenti e intelligenti su Dio; ma sanno sempre, come dire, di fantasia vertiginosa. È vero che il Signore ha dato loro, come ho detto, un leggero sentore della sua divinità, così che non possono giustificarsi nella loro empietà con l’ignoranza. A volte li ha anche spinti a dire cose la cui ammissione li supera. Ma quando hanno visto qualcosa, è successo in modo tale che non sono stati minimamente condotti alla verità da questa visione, e tanto meno l’hanno raggiunta. È come quando un vagabondo nel campo percepisce per un momento il lampo che lampeggia in tutte le direzioni di notte: lo vede, ma avviene con una visione che svanisce rapidamente, che, prima che possa muovere un piede, è inghiottita di nuovo dall’oscurità della notte; così con l’aiuto di questa luce è difficilmente riportato sul giusto cammino! E poi, con quante e quante terribili menzogne si sporcano quelle gocce di verità che spruzzano sui loro libri per caso! E dopo tutto, non hanno mai nemmeno sospettato quella certezza del buon piacere di Dio verso di noi, senza la quale lo spirito umano è necessariamente pieno di confusione incommensurabile. La vera verità sarebbe che abbiamo capito chi è il vero Dio e come vuole relazionarsi con noi – ma la nostra ragione non può arrivare a quel punto, non può penetrarlo, non può nemmeno allinearsi con esso!

II,2,19 Ma noi siamo inebriati dalla sciocca stima in cui è tenuto il nostro potere di conoscenza e siamo quindi molto riluttanti ad essere convinti che esso è completamente cieco e ottuso nelle questioni divine. Per questo sono dell’opinione che è meglio provarlo con testimonianze scritturali che con ragioni di ragione. Giov lo insegna molto finemente nel passo sopra citato: "In lui (Calvino: in Dio) era la vita, e la vita era la luce degli uomini; e la luce brilla nelle tenebre, e le tenebre non la comprendono" (Giov 1:4, 5). Lì mostra che l’anima dell’uomo è certamente illuminata dallo splendore della luce divina, così che non manca mai completamente, anche se è solo una piccola fiamma o una minuscola scintilla, ma tuttavia non comprende Dio nemmeno in tale illuminazione. Perché? Perché la loro comprensione, quando si tratta della conoscenza di Dio, è oscura! Quando lo Spirito Santo chiama le persone "tenebre", sta negando loro qualsiasi capacità di conoscenza spirituale. Per questo Egli mostra anche che i credenti che accettano Cristo nella fede non sono nati dal sangue né dalla volontà dell’uomo, ma da Dio (Giov 1:13). Questo significa che la carne non ha in sé una saggezza così grande da poter riconoscere Dio e i suoi, a meno che non sia illuminata dallo Spirito di Dio. Cristo ha anche testimoniato che la confessione di Pietro era una rivelazione speciale del Padre! (Mat 16,17).

II,2,20 Se fossimo davvero convinti che la nostra natura manca di ciò che il Padre celeste dona ai suoi eletti attraverso lo Spirito di rigenerazione – e su questo non c’è dubbio! – non ci sarebbe motivo di preoccuparsi. Perché il popolo credente dice con il profeta: "Tu sei la fonte della vita, e nella tua luce vediamo la luce!". (Sal 36:10). L’apostolo testimonia lo stesso con le parole: "Nessuno può chiamare Cristo Signore senza nello Spirito Santo" (1Cor 12:3). E quando Giov Battista vide l’ottusità dei suoi discepoli, esclamò: "Nessuno può prendere nulla se non gli è dato dall’alto" (Giov 3,27). Qui intende per "dono" l’illuminazione speciale e non la dotazione generale; perché si lamenta che con tutte le sue parole, in cui loda Cristo ai suoi discepoli, non ha ottenuto nulla. "Vedo", intende dire, "che le parole non sono sufficienti per istruire i cuori degli uomini sulle cose divine, a meno che il Signore non abbia prima dato la comprensione attraverso il suo Spirito". Anche Mosè, che rimprovera il popolo per la sua indifferenza, ma allo stesso tempo osserva che non può raggiungere alcuna sapienza nei misteri di Dio senza il suo dono speciale. "I vostri occhi hanno visto i grandi segni e prodigi, ma il Signore non vi ha ancora dato fino ad oggi un cuore per capire, orecchie per udire e occhi per vedere" (Deut 29:2 s.). Sarebbe un’espressione ancora più dura se ci chiamasse grulli verso la contemplazione delle opere di Dio? Perciò il Signore promette anche attraverso il profeta, come grazia speciale, che darà agli israeliti un cuore per essere conosciuto da loro! (Ger 24,7). Con questo allude abbastanza sottilmente: lo spirito umano ha altrettanta comprensione spirituale quanto è precedentemente illuminato da lui! Cristo lo conferma chiaramente anche con la sua stessa parola: "Nessuno può venire a me, se non gli è dato dal Padre mio" (Giov 6:44). Perché? Non è egli stesso l’immagine vivente del Padre, in cui tutto lo splendore della sua gloria si rivela a noi? Per questo non poteva spiegare meglio la nostra capacità di conoscere Dio che negandoci gli occhi per riconoscere questa immagine di Dio, quando ci viene presentata così chiaramente! Come mai non è venuto sulla terra per rivelare agli uomini la volontà del Padre? E non ha forse compiuto fedelmente quest’opera della sua missione? È vero, ma la sua predicazione non serve a nulla se lo Spirito, come maestro interiore, non gli spiana la strada verso i cuori. E quindi vengono a lui solo coloro che lo ascoltano dal Padre e sono istruiti da lui. Ma come funziona questo apprendimento e questo ascolto? Proprio in modo tale che lo Spirito, in potenza miracolosa e unica, crea orecchie per sentire e un senso per capire! E perché questo non appaia come qualcosa di nuovo, il Signore si riferisce alla profezia di Isa (Giov 6,45), che promette l’edificazione della Chiesa e insegna che coloro che sono chiamati alla salvezza devono essere discepoli di Dio (Isa 54,13). Così, quando Dio dice qualcosa di speciale sui Suoi eletti in questo passaggio, ovviamente non sta parlando dell’istruzione che viene data anche agli infedeli e ai miscredenti. Dobbiamo quindi riconoscere che l’ingresso nel regno di Dio è aperto solo a coloro ai quali lo Spirito Santo ha dato un nuovo significato attraverso la sua illuminazione. Questo è ciò che l’apostolo Paolo testimonia più chiaramente; egli prima rifiuta tutta la sapienza umana e la dichiara stoltezza e vanità; poi si intromette deliberatamente nella suddetta questione e arriva alla conclusione: "L’uomo naturale non ascolta nulla dello Spirito di Dio; è stoltezza per lui, e non può conoscerlo; perché deve essere giudicato spiritualmente" (1Cor 2:14). Chi chiama qui "l’uomo naturale"? Ovviamente colui che si affida alla luce della natura. E lui, dico, non capisce nulla dei misteri spirituali di Dio! Perché? Non lo fa per convenienza? No, non è in grado di fare nulla, per quanto si sforzi, perché deve essere giudicato spiritualmente. E cosa significa? Queste cose sono completamente nascoste all’intuizione umana e sono quindi accessibili solo attraverso la rivelazione dello Spirito, e quindi sono necessariamente considerate stoltezza dove manca l’illuminazione attraverso lo Spirito di Dio. Poco prima di questo brano, Paolo aveva mostrato come ciò che Dio ha "preparato per coloro che lo amano" è al di là di ogni comprensione degli occhi, delle orecchie e dei sensi. Sì, aveva testimoniato che la saggezza umana è praticamente una tenda che impedisce allo spirito umano di vedere Dio! Cosa vogliamo di più? L’apostolo dice che Dio ha fatto della saggezza di questo mondo una stoltezza (1Cor 1:20) – e noi vogliamo attribuirle un acume con cui è capace di penetrare fino a Dio e ai misteri inaccessibili del regno dei cieli? Che tale follia sia lontana da noi!

II,2,21 Ciò che Paolo nega così all’uomo, lo attribuisce altrove a Dio solo. Infatti egli prega: "Dio, Padre della gloria, vi dia lo spirito di sapienza e di rivelazione" (Efes 1,17). Lì puoi già sentire: tutta la saggezza e la rivelazione è un dono di Dio! E poi continua chiedendo: "…e gli occhi illuminati della tua mente". Se i lettori di questa lettera hanno bisogno di una nuova rivelazione, sono ciechi di loro stessi; e così continua: "Perché sappiate qual è la speranza della vostra professione…" (Efes 1,18). Quindi confessa che lo spirito dell’uomo non ha la comprensione per riconoscere la chiamata dell’uomo. Ma che nessun pelagiano mi dica che Dio sostiene proprio questa ottusità e ignoranza quando guida la mente umana con l’insegnamento della sua parola in un luogo dove non potrebbe arrivare senza una guida. Infatti anche Davide possedeva la legge, in cui era deciso tutto ciò che si poteva desiderare in saggezza; eppure non si accontenta di questo, ma chiede che gli si aprano gli occhi, per poter "vedere le meraviglie della sua legge" (Sal 119,18). Con questo vuole sicuramente sottintendere: Quando la Parola di Dio risplende sull’uomo, allora il sole certamente sorge per la terra; ma ancora l’uomo non ha molta benedizione da essa prima che Colui che è chiamato il "Padre della luce" (Giac 1,17) gli abbia dato gli occhi e li abbia aperti. Perché dove egli non crea la luce attraverso il suo Spirito, tutto è nelle tenebre! Anche gli apostoli avevano ricevuto un’istruzione adeguata e abbondante dal loro grande Maestro, ma non avrebbero ricevuto il comandamento di aspettare lo Spirito di verità per istruire i loro cuori nella dottrina che avevano sentito prima, se non ne avessero avuto bisogno! (Giov 14:26). Quando chiediamo qualcosa a Dio, confessiamo che ci manca, e Lui stesso prova la nostra mancanza proprio con ciò che ci promette! Pertanto, dobbiamo confessare senza esitazione: siamo in grado di penetrare i misteri di Dio solo nella misura in cui siamo illuminati dalla sua grazia. Chi si attribuisce più comprensione è solo più cieco, perché non riconosce la sua cecità!!

II,2,22 Ci resta da trattare la terza parte, che riguarda la conoscenza della guida alla retta condotta di vita, che chiamiamo anche, non a torto, la "conoscenza della giustizia delle opere". Qui lo spirito dell’uomo sembra essere un po’ più capace di conoscenza che negli altri due passaggi. Infatti l’apostolo testimonia: "I Gentili, che non hanno la legge, ma compiono le opere della legge, sono … una legge per se stessi, mostrando che l’opera della legge è scritta nei loro cuori, come testimoniano le loro coscienze e i loro pensieri, che si accusano o si scusano a vicenda davanti a Dio" (Rom 2:14, 15; non proprio il testo di Lutero). Se, dunque, la giustizia della legge è per natura incisa nel cuore dei gentili, non si può certo dire che essi siano completamente ciechi nella condotta della loro vita. Questa è anche la ragione dell’opinione diffusa che l’uomo è sufficientemente attrezzato per trovare la strada giusta attraverso la "legge naturale" (lex naturalis), che l’apostolo intende qui. Vogliamo considerare, d’altra parte, a cosa serve effettivamente questa conoscenza della legge inerente all’uomo; e allora sarà presto chiaro fino a che punto la sua guida ci avvicina alla meta della ragione e della verità. Questo diventa chiaro anche dalle parole di Paolo, se solo prestiamo attenzione al contesto. Poco prima dice: coloro che hanno peccato sotto la legge saranno giudicati dalla legge, ma coloro che hanno peccato senza la legge periranno senza la legge. Ora potrebbe sembrare assurdo che i Gentili debbano perire senza tutto il giudizio precedente; perciò aggiunge immediatamente che presso di loro la coscienza ha l’effetto della legge, ed è quindi sufficiente per la loro giusta condanna. Lo scopo della legge naturale (lex naturalis), quindi, è quello di rendere l’uomo inescusabile. Per questo (la legge naturale) non è mal descritta quando si dice che è la conoscenza della coscienza, che distingue con sufficiente chiarezza ciò che è giusto e ciò che è ingiusto; essa ha, poi, il compito di togliere all’uomo ogni pretesa di ignoranza, poiché egli è condannato dalla sua stessa testimonianza! Ma in questo consiste la tolleranza dell’uomo verso se stesso, che sebbene faccia il male, tuttavia allontana i suoi pensieri, per quanto possibile, dalla conoscenza del peccato. Questo sembra essere stato il motivo che ha portato Platone all’opinione che l’uomo pecca solo nell’ignoranza (Protagora). Questo sarebbe un giudizio corretto se l’ipocrisia umana, con il suo occultamento del peccato, raggiungesse davvero la scomparsa nel cuore dell’uomo di ogni coscienza di essere cattivo davanti a Dio. Ma anche se il peccatore fugge dal giudizio del bene e del male impresso su di lui – deve sempre ritornare ad esso, e non gli è reso possibile trascurarlo del tutto, ma che gli piaccia o no, deve una volta aprire gli occhi! Perciò è sbagliato dire che egli pecca solo per ignoranza.

II,2,23 Temistio si esprime più correttamente. Egli insegna che l’intelletto si sbaglia molto raramente nella descrizione generale di un oggetto, cioè riguardo alla sua essenza, ma che non rimane esente da illusioni quando va oltre, cioè quando cerca un’applicazione alla propria persona. (Dell’anima, VI,6). Così nessun uomo nega che l’omicidio sia qualcosa di malvagio – purché si giudichi in generale. Eppure, chi cospira per uccidere un nemico fa i suoi piani come se volesse fare qualcosa di buono! L’adulterio anche l’adultero lo condannerà – ma quello che lui stesso ha commesso lo perdonerà! Qui sta l’ignoranza che l’uomo, applicandola individualmente, dimentica la regola che ha appena stabilito come di applicazione generale! Agostino ne parla molto finemente nella sua interpretazione del primo verso del Sal 57. Naturalmente, anche la regola di Temistio non si applica del tutto universalmente; perché la follia del vizio a volte opprime la coscienza a tal punto che l’uomo, non ingannato dalla falsa apparenza del bene, ma con la propria conoscenza e volontà, corre nel male. Da una mente così turbata provengono detti come: "Vedo il meglio e lo riconosco, ma seguo il peggio" (Medea, in Ovidio Met. VII,20). Per questo mi sembra molto corretto quando Aristotele distingue tra incontinentia e intemperantia (cosciente). Secondo Aristotele, dove regna l’incontinentia, lo spirito è privato della conoscenza speciale a causa della confusione del sentimento e della passione; così non si accorge nemmeno del male nella sua azione, anche se generalmente lo riconosce in azioni dello stesso tipo, – quando l’ebbrezza è finita, segue subito il pentimento. La licenziosità, d’altra parte, non si estingue o si rompe con la coscienza del peccato, ma rimane rigidamente con la decisione consapevole presa una volta per il male.

II,2,24 Certamente, abbiamo sentito che c’è un giudizio generale nell’uomo per distinguere il bene dal male. Ma non dobbiamo pensare che questo giudizio sia sempre sano e senza errori. Perché la distinzione tra giusto e ingiusto è messa solo nel cuore dell’uomo, affinché sia privato di ogni possibilità di scusarsi con l’ignoranza. Per questo motivo, però, non è affatto necessario che egli veda la verità in tutte le singole questioni, ma è più che sufficiente se la sua comprensione arriva così lontano che ogni evasione gli diventa impossibile ed egli, condannato dalla coscienza come testimone, comincia già ad essere terrorizzato davanti al seggio del giudizio di Dio. Se vogliamo mettere alla prova la nostra ragione con la legge di Dio, che sola è l’immagine della giustizia perfetta, scopriremo in quanti modi essa è cieca! In ogni caso, non riconosce i punti principali della prima tavoletta, come il fatto che si dovrebbe avere fiducia in Dio, dargli lode per ogni potere e giustizia, invocare il suo nome e mantenere santo il giorno del sabato. Quale anima, dunque, ha mai, per mezzo del sentimento naturale, anche solo sospettato che in queste e simili cose consiste il giusto culto di Dio? Perché quando gli empi vogliono adorare Dio, possono essere richiamati cento volte dalle loro vuote fantasie – ci cascano ancora e ancora! Essi negano che i sacrifici siano graditi a Dio senza l’integrità del cuore; così testimoniano di avere un sentore del culto di Dio nello spirito – ma presto corrompono di nuovo questo con le loro false immaginazioni! Non potranno mai essere convinti della verità di ciò che la legge dice su questo. E dovrei dire che lo spirito umano possiede una facoltà di conoscenza – quando non è in grado di pensare correttamente di sua iniziativa, né di ascoltare gli ammonimenti? L’uomo capisce un po’ di più i comandamenti della seconda tavola, nella misura in cui sono più strettamente legati alla conservazione della società umana. Certo, anche qui c’è a volte una grande mancanza di comprensione. Così, anche per gli spiriti più esaltati, è qualcosa di assurdo sopportare un dominio ingiusto e troppo violento quando si trova un’occasione favorevole per scuotere il giogo. Il giudizio della ragione umana qui è: sopportare pazientemente una tale regola è un segno di vile servitù, e d’altra parte, scrollarsela di dosso mostra una disposizione onorevole e nobile. Né è considerato un sacrilegio dai filosofi se ci si vendica dei torti subiti. Ma il Signore condanna questa arroganza eccessiva e impone ai suoi la pazienza che è disprezzata dagli uomini. Infine, la condanna del desiderio malvagio è generalmente al di là della nostra comprensione quando consideriamo l’intera legge. Perché l’uomo naturale non può essere portato a riconoscere le molteplici infermità dei suoi desideri! Prima che raggiunga le profondità di questo abisso, la luce della natura si spegne. Infatti, sebbene i filosofi chiamino gli impulsi disordinati vizi, essi intendono solo quelli esteriori, che si manifestano in effetti grossolani. Ma i cattivi desideri interiori, che ingannano delicatamente lo spirito, li considerano come niente.

II,2,25 Come sopra abbiamo contraddetto Platone, perché attribuisce ogni peccato all’ignoranza, così ora dobbiamo anche opporci a coloro che pensano che in tutti i peccati ci sia una cattiveria consapevole e una malvagità all’opera. Perché ci accorgiamo fin troppo chiaramente di quanto spesso non siamo all’altezza delle migliori intenzioni! La nostra ragione è invasa da così tanti inganni, è soggetta a così tanti errori, impigliata in così tanti ostacoli, presa da così tante paure, che non si può parlare di una guida sicura. Paolo mostra quanto sia futile davanti al Signore in tutti gli aspetti della nostra vita: "Non siamo in grado di pensare a nulla se non a noi stessi" (2Cor 3:5). Non sta parlando qui della volontà o del sentimento, ma nega che ci possa anche solo venire in mente come fare qualcosa di giusto. Allora tutto il nostro zelo, tutta la nostra perspicacia, tutta la nostra comprensione, tutta la nostra diligenza è così corrotta da non essere in grado di concepire o considerare nulla che sia giusto agli occhi del Signore? Certo, non ci piace che ci venga negata l’acutezza della nostra ragione, che consideriamo la facoltà più squisita, e ci sembra troppo dura. Ma sembra giusto e corretto allo Spirito Santo, perché Egli sa che tutti i pensieri dei saggi sono vani, e lo dice chiaramente: "Tutti i pensieri e le azioni del cuore umano sono sempre malvagi" (Sal 94:11; Gen 6:5; 8:21). Se tutto ciò che la nostra mente pensa, decide, progetta e mette in pratica è sempre malvagio, come può venirci in mente di progettare qualcosa che sia giusto agli occhi di Dio, al quale solo la santità e la rettitudine sono gradite? Quindi la nostra ragione è ovviamente miseramente soggetta alla vanità ovunque si giri. Davide era consapevole di questa debolezza quando pregava che gli fosse data la comprensione per imparare i comandamenti del Signore (Sal 119,34). Quando chiede una nuova comprensione, mostra che il suo spirito non è affatto sufficiente. Non fa questa richiesta solo una volta, ma la ripete dieci volte in un solo salmo (Sal 119:12, 18, 19, 26, 33, 64, 68, 73, 124, 125, 135, 169). Questa ripetizione fa capire quanto sia grande il bisogno che lo spinge a fare una tale richiesta. E quello che chiede per sé solo, Paolo lo chiedeva per tutte le chiese: "Non cessiamo di pregare e di chiedere per voi, che siate riempiti della conoscenza di Dio in ogni sapienza e intelligenza, perché camminiate in modo degno del Signore…." (Fili 1:9; Col 1:9). E ogni volta che loda questo come una benedizione di Dio, vuole testimoniare che non è nelle capacità dell’uomo. Anche Agostino ha notato questa incapacità della ragione di riconoscere le cose divine, e in modo tale da pensare che la nostra "mente" (comprensione) ha bisogno della grazia dell’illuminazione proprio come il nostro occhio ha bisogno della luce. Sì, non si accontenta di questo, ma aggiunge subito un miglioramento alla sua frase: cioè che noi stessi apriamo i nostri occhi (fisici) per vedere la luce, mentre gli occhi della nostra "mente" rimangono chiusi se il Signore non li apre. (Sulla colpa e il perdono dei peccati, II,5). Né, secondo l’insegnamento della Scrittura, la nostra "mente" è illuminata una volta per tutte in un giorno, per poi vedere da sola; perché ciò che ho appena citato da Paolo si riferisce ad un continuo progresso e crescita. Davide lo dice esplicitamente: "Ti cerco con tutto il mio cuore; non permettere che mi allontani dai tuoi comandamenti!". (Sal 119:10). Dopo tutto, era nato di nuovo, era cresciuto straordinariamente nella vera pietà – eppure confessa di aver bisogno di una guida speciale per ogni singolo momento, per non allontanarsi ancora dalla conoscenza che gli era venuta! Ecco perché chiede altrove che gli venga dato – ciò che aveva perso! – (Sal 51:12); perché Dio, che ci ha dato lo Spirito in principio, è l’unico che può restituircelo quando ci è stato tolto per un certo tempo.

II,2,26 Ora dobbiamo esaminare la volontà in cui, se mai, la "libertà della decisione della volontà" è più probabile che operi. Perché abbiamo già visto che la decisione sta più in essa che nell’intelletto. Ora viene insegnato dai filosofi, e l’idea generale l’ha ripresa, che tutti gli esseri desiderano "il bene" per impulso naturale. Ma non deve sembrare che questo abbia a che fare con la perfezione della volontà umana; per riconoscerlo, teniamo a mente: la potenza del libero arbitrio non è da ricercare in un tale desiderio, che nasce da un’inclinazione naturale fondata nella natura dell’uomo, ma non dalla considerazione (cosciente) della "mente". Perché anche gli scolastici ammettono che il libero arbitrio diventa attivo solo quando la ragione si trova di fronte a possibilità opposte. Questo significa: l’oggetto del desiderio deve essere soggetto alla decisione, e deve essere preceduto da una considerazione che apre la strada alla decisione. Se ora guardiamo più da vicino questo sforzo naturale verso il "bene" nell’uomo, scopriamo che lo ha in comune con gli animali. Perché anch’essi hanno l’impulso di lasciar fare il bene a se stessi, e dovunque incontrano l’aspetto del bene, che tocca la loro sensibilità, lo seguono. L’uomo, invece, non sceglie con la sua ragione ciò che è veramente buono per lui e che corrisponderebbe alla dignità della sua natura immortale, per poi attuarlo con zelo. Non consulta la sua ragione, né applica la giusta attenzione alla questione. No, come gli animali segue l’inclinazione naturale senza ragione, senza un piano giusto. La questione se l’uomo sia portato dal sentimento naturale (sensu naturae) a desiderare il bene, quindi, non ha nulla a che fare con il libero arbitrio. Piuttosto, il libero arbitrio richiede che egli riconosca il bene sulla base di una considerazione corretta e razionale (recta ratione), che decida a favore di ciò che ha riconosciuto correttamente e che esegua anche questa decisione! Affinché non rimanga alcun dubbio in nessun lettore, bisogna tener conto di un doppio malinteso. Perché da un lato, "desiderio" di cui sopra non significa un impulso effettivo della volontà, ma un impulso naturale, e dall’altro lato, "bene" non denota qualcosa che avrebbe a che fare con la virtù e la giustizia, ma un semplice stato, cioè: il benessere dell’uomo! E poi: per quanto l’uomo possa desiderare di raggiungere il "bene", non lo persegue; così come tutti considerano la beatitudine eterna come qualcosa di bello, eppure senza l’impulso dello spirito nessuno la raggiunge veramente. Così il desiderio naturale dell’uomo di avere il bene non dice nulla per l’eventuale prova del libero arbitrio, non più dell’inclinazione naturale nei metalli e nelle rocce a perfezionare la loro natura. Consideriamo, poi, in un’altra direzione, se la volontà è in ogni modo così corrotta e degenerata da far nascere solo il male da se stessa, o se c’è ancora qualcosa di inerente ad essa che non è ferito, da cui potrebbe nascere il giusto desiderio.

II,2,27 Alcuni attribuiscono alla "prima grazia di Dio" (prima Dei gratia) l’effetto che possiamo effettivamente desiderare. D’altra parte, essi implicano anche che l’anima ha la capacità naturale di tendere al bene, ma che è troppo debole per produrre un forte movimento interiore o una reale spinta all’azione (conatus). Questa opinione, che proviene da Origene e da alcuni antichi, è stata indubbiamente ripresa da tutti gli scolastici, che si rifanno alle parole dell’apostolo: "Il bene che voglio, non lo faccio, ma il male che non voglio, lo faccio. Posso volerlo, ma non posso fare ciò che è buono" (Rom 7:15, 19). Secondo il loro giudizio, la persona che Paolo descrive qui è in una posizione puramente naturale (in puris naturalibus). – Ma così facendo, distorcono completamente la questione che Paolo sta trattando in questo passaggio. Perché sta parlando qui della lotta del cristiano, che tocca anche brevemente in Gal 5,17, la lotta che i credenti attraversano costantemente nel conflitto tra la carne e lo Spirito. Ma lo spirito non è nostro per natura, ma per rigenerazione. (Porro Spiritus non a natura est, sed a regeneratione). Che l’apostolo parli del nato è evidente dal fatto che aggiunge immediatamente alla frase che nulla di buono abita in lui: "cioè nella mia carne" (Rom 7:16). Secondo le sue parole, non è lui stesso che fa il male, ma il peccato che abita in lui (Rom 7,20). Ma qual è il significato di questa aggiunta: "In me, cioè nella mia carne"? Ovviamente lo stesso che se dicesse: "Niente di buono abita in me da me stesso, perché niente di buono si trova nella mia carne. Quindi segue la forma delle scuse: Non sono io che faccio il male, "ma il peccato che abita in me". Una tale apologia viene solo a coloro che sono nati di nuovo e la cui parte più importante della loro anima (praecipua animae parte) è incline al bene. Tutto questo diventa molto chiaro dalle parole finali dell’apostolo: "Io mi diletto nella legge di Dio secondo l’uomo interiore; ma vedo un’altra legge nelle mie membra, contraria alla legge della mia mente…" (Rom 7:22, 23). Chi altro dovrebbe portare in sé una tale contraddizione se non colui che è nato di nuovo dallo Spirito di Dio, ma allo stesso tempo trascina con sé i resti della carne? Così anche Agostino, che all’inizio voleva riferire tutto questo passaggio alla natura dell’uomo, ha ritirato la sua interpretazione come falsa e impropria (A Bonifacio, I,10 e Retract, I,23; II,1). Ma se supponiamo che l’uomo, anche senza la grazia, abbia certi, per quanto lievi, impulsi al bene, cosa diremo alla dichiarazione dell’apostolo che siamo incapaci di "non pensare ad altro che a noi stessi"? (2Cor 3:5). Cosa diremo al Signore che, attraverso Mosè, dice che tutti i pensieri e le azioni del cuore umano sono sempre malvagi? (Gen 8:21). I sostenitori del libero arbitrio si sono semplicemente aggrappati a un passaggio biblico che hanno frainteso, e quindi non abbiamo più bisogno di soffermarci sulla loro visione. Preferiamo attenerci alla parola stessa di Cristo: "Chi commette il peccato è servo del peccato" (Giov 8:34). E tutti noi siamo peccatori per natura: perciò viviamo tutti sotto il loro giogo. Ma se tutto l’uomo è soggetto al dominio del peccato, la volontà, che è la sua speciale dimora, è necessariamente legata con le catene più dure. Non sarebbero vere nemmeno le parole di Paolo: "È Dio che opera in noi la volontà…" (Fil 2,13). (Fili 2,13) non potrebbe esistere se la volontà precedesse in qualche modo la grazia dello Spirito Santo! Quindi, ciò che molti hanno detto sulla "preparazione" (dell’uomo alla salvezza) dovrebbe stare lontano! Certamente, i credenti a volte pregano perché i loro cuori siano preparati per l’obbedienza alla legge di Dio, come Davide fa diverse volte. Ma bisogna ricordare che anche il desiderio di pregare viene da Dio! Questo è anche evidente dalle parole di Davide, perché se egli desidera che un cuore nuovo sia creato in lui (Sal 51:12), non si attribuisce con ciò la paternità di tale nuova creazione! Accettiamo piuttosto le parole di Agostino: "Dio ti ha prevenuto in tutto – ora previeni anche la sua ira! E come? Confessa che hai tutto questo da Dio, che hai ricevuto da lui tutto ciò che possiedi di buono, ma da te stesso tutto ciò che è male in te". O poco dopo: "Il nostro non è altro che peccato" (Sermone 176:5).


Capitolo tre

ADalla natura corrotta degli uomini non esce altro che il dannato.

II,3,1 Ma l’uomo può essere giudicato al meglio secondo le sue due potenze animiche (intelletto e volontà) quando viene alla luce con i titoli che la Scrittura gli dà. Se è descritto nel suo insieme nelle parole di Cristo, "Ciò che è nato dalla carne è carne" – e questo sarà dimostrato tra un momento! – allora, tuttavia, è evidentemente un essere miserabile. Infatti la mente carnale ("essere di mente carnale" Rom 8:6 s.) "è morte, perché è inimicizia contro Dio, e perciò non è soggetta alla legge, né può esserlo". "La carne è dunque così corrotta da non poter concordare con la giustizia della legge divina, e non è in grado di produrre altro che morte?" – Supponete che la natura dell’uomo sia solo carnale, e poi vedete se potete tirar fuori qualcosa di buono da essa! – "Ma sicuramente la parola ’carne’ si riferisce solo al regno sensuale dell’anima, non a quello superiore!" – Questo può essere ampiamente confutato dalle parole di Cristo e dell’apostolo! Il Signore vuole dimostrare che l’uomo deve nascere di nuovo – perché egli "è carne"! (Giov 3,6). Non comanda nessuna rinascita dopo il corpo. L’anima, però, non nasce di nuovo per il fatto che qualche parte di essa viene migliorata, ma solo per il fatto che viene completamente rinnovata! Questo è dimostrato anche dal contrasto aggiunto in entrambi i passi (Giov 3 e Rm. 8): lo spirito è contrapposto alla carne in modo tale che non rimane nulla di terzo! Quindi, ciò che non è spirituale nell’uomo è, secondo questo argomento, da chiamare carnale! Ma noi riceviamo qualcosa dallo spirito solo attraverso la rigenerazione. Quindi quello che abbiamo per natura è carne. Se c’è qualche dubbio su questo, Paolo lo rimuove: prima descrive l’uomo vecchio e dice di lui che è corrotto dalle concupiscenze dell’errore (Efes 4,22), e poi ci comanda di rinnovarci nello spirito della nostra mente (Efes 4,23). Si vede che non trova le concupiscenze proibite e malvagie solo nella parte sensuale dell’anima, ma anche nella "mente" (mens) stessa, e quindi ne esige anche il rinnovamento! E poi, poco prima, ha disegnato un tale quadro della natura umana, che non ci fa apparire affatto incorrotti e invertiti. Infatti egli scrive di tutti i gentili: "Camminano nella vanità della mente, la loro intelligenza è oscurata, e camminano lontano dalla vita che è di Dio, per l’ignoranza che è in loro e la cecità del loro cuore" (Efes 4:17, 18). Qui intende ovviamente tutti coloro che Dio non ha rigenerato nella giusta saggezza e giustizia. Questo diventa ancora più chiaro dal confronto che viene immediatamente aggiunto: "Non avete imparato Cristo in questo modo" (Efes 4:20). Perché in queste parole la grazia di Cristo appare come l’unico mezzo di salvezza che ci libera da quella cecità e da tutto il male che ne consegue. Isa profetizzò sul regno di Cristo quando promise che il Signore sarebbe stato una luce eterna per la Sua Chiesa, mentre "le tenebre coprivano la terra e le tenebre le nazioni" (Isa 60,19). Lì egli testimonia che la sola luce di Dio sorgerà sulla Chiesa, lasciando fuori dalla Chiesa solo tenebre e cecità! Non voglio elencare qui ciò che è detto dappertutto, specialmente nei Sal e nei Profeti, sulla vanità dell’uomo. La parola di Davide è piuttosto pesante nel contenuto, che se fosse messo sulla bilancia con la vanità, sarebbe ancora più vano di essa (Sal 62:10). Veramente un colpo secco con cui colpisce duramente il suo spirito, quando tutti i pensieri che procedono da lui sono derisi come sciocchi, vani, insensati e perversi!

II,3,2 Né la condanna del nostro cuore è più leggera quando è chiamato "una cosa rude e perversa" (Ger 17,9; non il testo di Lutero, ma più letterale di esso!). Ma sarò breve e mi accontenterò di un altro passaggio, che però è come uno specchio molto chiaro in cui possiamo guardare l’immagine perfetta della nostra natura. Per abbattere l’arroganza dell’uomo, l’apostolo porta le seguenti testimonianze: "Non c’è nessuno che sia giusto, non c’è nessuno che abbia comprensione, non c’è nessuno che cerchi Dio. Tutti si sono smarriti e tutti sono diventati inadatti; non ce n’è uno che faccia il bene, nemmeno uno. La loro bocca è un sepolcro aperto; con la loro lingua trattano con l’inganno; il veleno della vipera è sotto le loro labbra. La loro bocca è piena di maledizione e di amarezza; i loro piedi si affrettano a spargere sangue; le loro vie sono vile miseria e corruzione; non c’è timore di Dio davanti ai loro occhi" (Rom 3:10-13; Isa 59:7). Con queste saette non va dietro a certi individui, ma a tutti i figli di Adamo! Non rimprovera nemmeno i costumi corrotti di un’epoca o di un’altra, ma accusa la corruzione permanente della natura! Perché non ha intenzione di rimproverare semplicemente le persone affinché si ravvedano; piuttosto, vuole insegnare che tutti sono in una miseria insormontabile dalla quale possono uscire solo se la misericordia di Dio li strappa. Poteva dimostrarlo solo descrivendo la decadenza e la rovina della nostra natura, e quindi ha portato avanti quelle testimonianze scritturali dalle quali emerge in modo convincente che la nostra natura è completamente perduta. Rimane, quindi, che gli uomini non sono diventati come sono descritti qui solo per la cattiva abitudine, ma anche per la corruzione della loro natura. Altrimenti l’argomento dell’apostolo non avrebbe un fondamento solido, perché vuole mostrare che l’uomo può aspettarsi la salvezza solo dalla misericordia di Dio, perché è perso e desolato in se stesso. Non voglio tormentarmi qui con la dimostrazione dell’uso corretto delle testimonianze scritturali citate da Paolo, che qualcuno potrebbe trovare inappropriato. Procederò come se queste parole fossero state usate per la prima volta da Paolo stesso e non prese dai profeti. Prima nega all’uomo la giustizia, cioè l’innocenza e la purezza, poi la giusta comprensione. Egli attribuisce la mancanza di conoscenza all’apostasia da Dio, perché è il primo passo della saggezza cercarlo, e questa perdita di conoscenza deve necessariamente verificarsi in coloro che sono caduti lontano da Dio. Poi aggiunge che tutti si sono smarriti e sono diventati marci: "non c’è nessuno che faccia il bene…". Poi passa ad enumerare i singoli vizi con cui l’uomo, una volta che si è dato alla malvagità, macchia le sue singole membra. E alla fine testimonia che ci manca il timore di Dio, secondo la cui norma tutti i nostri passi dovrebbero effettivamente essere diretti. Se queste sono le doti ereditarie della razza umana, allora si cercherà invano qualcosa di buono nella nostra natura! Ammetto, naturalmente, che non tutti questi vizi si manifestano in ogni singolo essere umano. Ma nessuno può negare che questa idra abita segretamente in tutti i cuori! È come per il corpo: una volta che ha in sé il germe e la causa di una malattia e lo nutre, allora non si chiama sano, anche se non è ancora afflitto dal dolore. Allo stesso modo, l’anima, in cui opera abbondantemente una tale malattia del vizio, non può essere dichiarata sana. Tuttavia, questa parabola non si adatta a tutti i punti. Perché per quanto malato sia il corpo, c’è ancora vitalità; ma l’anima è caduta in un vortice così corrotto che non può uscire dai suoi vizi e ha perso completamente ogni bontà.

II,3,3 Qui incontriamo di nuovo quasi la stessa questione che abbiamo già risolto sopra. Perché ci sono state persone in tutti i tempi che, sotto la guida delle loro disposizioni naturali, hanno lottato per la virtù per tutta la loro vita! Non voglio soffermarmi sulla questione se non ci possano essere anche degli errori nel loro comportamento. Dopotutto, con il loro coraggio per la giustizia, hanno dato prova che c’era una certa purezza nella loro natura. È vero che dobbiamo parlare più pienamente della questione del valore di tali virtù davanti a Dio quando parliamo del merito delle opere. Ma già a questo punto dobbiamo dire ciò che è necessario per affrontare la nostra presente questione. Gli esempi che abbiamo dato sembrano ammonirci a non pensare che la natura umana sia interamente corrotta, perché alcune persone non solo hanno compiuto azioni potenti, ma hanno anche mostrato la massima rispettabilità in tutta la loro condotta di vita. Ma a questo punto possiamo essere aiutati dall’intuizione che la grazia di Dio ha ancora spazio anche all’interno di questa distruzione della natura; certo, non ha un effetto purificatore, ma inibitorio. Perché se il Signore lasciasse correre la mente di tutti gli uomini nelle sue concupiscenze e gli sparasse le redini, allora davvero tutti dovrebbero ammettere che tutto il male che Paolo condanna in tutta la natura si applicherebbe in piena misura a ciascuno di noi! (Sal 14:3; Rom 3:12). Come adesso? Vuoi escluderti dal numero di coloro i cui piedi sono "veloci" a "spargere sangue", le cui mani sono macchiate di rapina e omicidio, la cui "bocca è come un sepolcro aperto", le cui "lingue sono piene di falsità, le cui labbra sono piene di veleno" (Rom 3:13), le cui opere sono inutili, ingiuste, corrotte, mortali, il cui spirito è senza Dio, il cui intimo essere è vana malvagità, i cui occhi sono pronti a perseguire segretamente e il cui cuore è pronto a resistere apertamente, in breve, il cui intero essere è capace di vizi infinitamente molteplici? Ora, se ogni singola anima è soggetta a tutte queste cose terribili, come dice audacemente l’apostolo, possiamo ben vedere dove si dovrebbe arrivare se il Signore lasciasse che il desiderio umano si sviluppi secondo la propria inclinazione! Non ci sarebbe bestia da preda più frenetica, non ci sarebbe torrente selvaggio le cui piene strariperebbero più terribilmente! Ma il Signore guarisce queste infermità nei Suoi eletti in modo speciale, come dobbiamo ancora mostrare. Per quanto riguarda gli altri, ha bisogno di trattenerli e almeno di tenerli a freno, affinché non si lascino trasportare troppo, poiché è la Sua provvidenza a preservare tutte le cose. Così alcuni sono impediti dalla vergogna, altri dalla paura delle leggi, di commettere ogni tipo di oltraggio con selvaggio abbandono, anche se sono in gran parte incapaci di nascondere la loro impurità. Altri sono convinti che uno stile di vita corretto sia qualcosa di utile e buono, e quindi sono un po’ zelanti al riguardo. Altri ancora si elevano al di sopra dello stato ordinario per mantenere altre persone nel loro ufficio, nella loro professione, per la loro reputazione. Così Dio, nella bella provvidenza, pone dei limiti alla corruzione della natura, affinché essa non si manifesti in (pieno) effetto; ma interiormente non la rende pura.

II,3,4 Ma questo non risolve il problema. Perché ora dobbiamo mettere Camillo (il modello di tutte le virtù virili) al livello di Catilina (il tipo del traditore) – oppure abbiamo in Camillo la prova che la natura, se la si allena con zelo, non è priva di ogni bene! Confesso, d’altra parte, che le meravigliose qualità che Camillo possedeva erano un dono di Dio e, se considerate in sé, sono giustamente degne di lode. Ma perché dovrebbero essere una prova della rettitudine naturale di Camillo? Non dobbiamo forse risalire al cuore per questa prova? Ma allora difficilmente si può concludere diversamente da come fece Agostino (Contro Giuliano, libro IV): Se un uomo naturale si è distinto per una tale mancanza di morale, la natura non manca certo di una certa capacità di tendere alla virtù. Ma come, se il cuore era malvagio e subdolo, e aveva posto il suo cuore su qualcosa di molto diverso dalla rettitudine? E così deve essere stato senza dubbio, se si ammette che Camillo era un uomo naturale. Cosa c’è dunque in questa commedia per predicarmi la capacità della natura umana di fare il bene, quando si dimostra che essa è sempre attratta dal male, anche nell’apparenza della più alta imperfezione? Come un uomo i cui vizi fanno impressione sotto l’apparenza della virtù non dovrebbe essere esaltato in nome della sua virtù, così non si dovrebbe attribuire alla volontà umana la capacità di desiderare il bene mentre è ancora in preda al peccato! Ma il modo più sicuro e semplice per risolvere la questione è dire che questi vantaggi (come quelli di Camillo) non sono doni naturali, ma doni speciali della grazia di Dio, che egli elargisce agli increduli in vari modi e secondo un certo ordine. Per questo non esitiamo a dire di uno che ha una natura nobile e dell’altro che ha una natura bassa. Infatti non li sottraiamo entrambi alla partecipazione allo stato generale della corruzione umana, ma designiamo con ciò la grazia speciale che il Signore ha concesso all’uno, di cui non ha a sua volta reso degno l’altro. Così Dio fece un uomo nuovo, per così dire, di Saul, che doveva diventare re (1 Sam 10:6). Per questo Platone, alludendo alla favola di Omero, dice anche dei figli del re che sono creati con capacità eccellenti. Perché Dio, per una cura speciale per il genere umano, spesso dota di natura eroica coloro che ordina di governare. Da questo laboratorio provengono tutti i grandi eroi di cui la storia sa raccontare. Allo stesso modo, si deve giudicare anche la gente comune (privati). Ma per quanto un uomo possa essere eccellente, è sempre spinto dall’ambizione, e questa macchia contamina tutte le virtù così che perdono ogni valore davanti a Dio! Così, ciò che è lodevole nelle persone non credenti non è in realtà nulla da rispettare. La parte più importante di tutta la giustizia manca se non c’è lo zelo di glorificare la gloria di Dio – e questo manca in tutti coloro che Dio non ha fatto rinascere attraverso il Suo Spirito! Non senza motivo Isa dice che lo "spirito del timore di Dio" si posa sul Cristo (Isa 11,2). A coloro che sono lontani da Cristo, dunque, rinunciate al timore di Dio, che è il "principio della sapienza"! (Sal 111,10). Certamente tali virtù, che ci ingannano con il loro vano luccichio, raccoglieranno lodi nella mente pubblica e nel giudizio generale degli uomini, ma davanti al seggio del giudizio celeste non avranno alcun valore in virtù del quale l’uomo possa guadagnare la giustizia.

II,3,5 Così la volontà è tenuta prigioniera sotto la schiavitù del peccato, e quindi non può muoversi verso il bene, tanto meno afferrarlo. Perché un tale movimento è l’inizio della conversione a Dio, che nella Scrittura è attribuita interamente alla grazia di Dio. Così Geremia prega il Signore di convertirlo, se lo convertirà (Ger 31:13). Perciò, nello stesso capitolo, quando descrive la salvezza spirituale del popolo credente, il profeta dice anche che saranno "liberati dalla mano di un potente" (Ger 31:11). Con questo egli mostra in quali dure pastoie giace legato il peccatore finché è separato dal Signore e vive sotto il giogo del diavolo. Tuttavia, rimane la volontà, che si rivolge al peccato con la più profonda inclinazione e praticamente si precipita verso di esso. Perché l’uomo, quando è entrato in questo dominio obbligatorio, non ha perso la sua volontà, ma la purezza della sua volontà! Non è fuori luogo che Bernhard insegni che la volontà è in tutti noi, e poi dica che solo la volontà di fare il bene è un progresso, ma la volontà di fare il male è un’afflizione. Così è per l’uomo volere semplicemente, per la natura corrotta volere il male, e per la grazia volere giustamente! (Della grazia e del libero arbitrio, 6:16). Alcuni trovano stranamente dura la mia affermazione che la volontà è ormai privata della sua libertà ed è quindi necessariamente attratta o spinta verso il male – anche se non contiene nulla di incontrovertibile ed è usata anche dagli antichi Padri della Chiesa. Ma è ripugnante solo per coloro che non sanno distinguere tra necessità e costrizione. Ma se qualcuno chiede loro: "Dio è necessariamente buono?" o "Il diavolo è necessariamente cattivo?". – cosa risponderanno? Perché la bontà di Dio è così legata alla sua divinità che la sua esistenza come Dio è altrettanto necessaria quanto il suo essere buono! Ma il diavolo, con la sua caduta, è così separato da ogni partecipazione al bene che può solo fare il male. Ora uno scocciatore potrebbe dire che Dio non ha diritto a molte lodi per la sua bontà, poiché è costretto a mantenerla. La risposta a questo sarebbe: Dio non può fare il male, questo viene dalla sua incommensurabile bontà, ma non da nessuna costrizione! Il fatto che Dio agisca necessariamente bene non limita il suo libero arbitrio al di sopra di tale azione buona. E anche il diavolo, che può solo agire male, pecca con la sua volontà! Ma come potrebbe allora un uomo dire che è soggetto alla necessità di peccare e quindi non pecca con la sua volontà? Agostino parlava spesso di questa necessità; e anche quando l’amaro disprezzo di Celestio lo colpì, non esitò a sostenere il suo insegnamento. Così dice: "Attraverso la libertà l’uomo è diventato peccatore, ma la peccaminosità che segue come punizione ha trasformato la libertà in necessità" (Sulla perfezione della rettitudine… 4,9). Ogni volta che arriva a parlare di questa connessione, parla di nuovo senza esitazione della necessaria schiavitù del peccato. (Così nello scritto "Della natura e della grazia" e anche altrove.) Il punto essenziale di questa distinzione (tra necessità e costrizione) sta nel seguente: L’uomo è depravato dalla caduta, ma pecca con la sua volontà, non costretto contro la sua volontà, o dall’inclinazione più profonda del cuore e non da una costrizione violenta, dall’impulso della propria concupiscenza e non da una pressione esterna; ma a causa della depravazione della natura può comunque solo muoversi verso il male e agire secondo esso. Se questa frase è vera, allora si esprime chiaramente che l’uomo è soggetto alla necessità di peccare. Anche Bernhard è d’accordo con il pensiero di Agostino quando scrive: "Tra tutti gli esseri viventi, solo l’uomo è libero, eppure l’intervento del peccato gli fa subire qualche violenza. Ma questo avviene per sua volontà, non per natura, affinché non perda così la sua libertà innata. Perché ciò che è fatto dalla volontà è libero". E subito dopo: "Così la volontà, corrotta dal peccato, crea una necessità per se stessa in modo terribile e meraviglioso. Ma questo avviene in modo tale che la necessità, che è volitiva, non può servire a scusare la volontà (cattiva), e che, d’altra parte, la presenza della volontà, che è in fondo infatuata, non esclude la necessità. Perché questa necessità è, per così dire, volitiva". Poi parla di un giogo che ci opprime; questo è precisamente il giogo della nostra schiavitù volontaria, e quindi siamo da compatire in vista di questa schiavitù, ma inescusabili in vista della volontà che è ancora presente, poiché la volontà, quando era ancora libera, si era fatta serva del peccato! E in conclusione giunge alla conclusione: "Così l’anima vive in modo strano e perverso sotto tale necessità volitiva, entrata in misera libertà, come serva e tuttavia come libera, come serva per la necessità e come libera per la volontà. E, cosa ancora più meravigliosa, è colpevole perché è libera, ed è domestica perché è colpevole – e quindi è domestica proprio perché è libera!" (Sermoni sul Cantico dei Cantici, 81). Da questo, il lettore si renderà certamente conto che non sto portando nulla di nuovo con la mia affermazione, perché Agostino una volta disse la stessa cosa in accordo con tutte le persone pie e la sua visione non si è persa nemmeno nei monasteri per mille anni. Pietro Lombardo, tuttavia, non fu in grado di fare la distinzione tra necessità e costrizione e quindi diede materiale e motivo di un pericoloso errore.

II,3,6 D’altra parte, aiuta ad approfondire il nostro compito se ora rivolgiamo la nostra attenzione all’essenza del rimedio, cioè la grazia divina, con cui la corruzione della natura viene migliorata e guarita. Perché il Signore ci concede con il suo aiuto ciò che noi stessi manchiamo; e quindi, quando la natura del suo aiuto ci sarà chiara, la nostra povertà diventerà allo stesso tempo ben visibile. L’apostolo dice ai Filippesi: "E ho fiducia in questo, che colui che ha iniziato l’opera buona in voi la porterà a termine fino al giorno di Gesù Cristo" (Fil 1,6). In questo modo egli intende il "principio dell’opera buona" come l’origine della conversione che ha luogo nella volontà. Dio inizia l’"opera buona" in noi in modo tale da suscitare nei nostri cuori l’amore, il desiderio e l’aspirazione alla giustizia, o per parlare più precisamente: da volgere i nostri cuori verso la giustizia, trasformandoli e dirigendoli. Egli completa l’opera buona dandoci la forza di perseverare. Ma che nessuno prenda la scusa che il Signore è l’autore del bene sostenendo la nostra volontà, che è debole di per sé. Pertanto, lo Spirito Santo mostra in un altro luogo ciò che la volontà, lasciata a se stessa, può effettivamente realizzare. "Io vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò dalla vostra carne il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne, e metterò dentro di voi il mio Spirito e farò di voi un popolo che cammina nei miei comandamenti…" (Ez 36:26 e seguenti). Chi direbbe ancora che la debolezza della volontà umana è semplicemente rafforzata dall’aiuto di Dio per tendere al bene con forza ed efficacia – quando si tratta di una volontà che deve essere completamente rinnovata? Se si volesse dimostrare che una pietra è una cosa morbida che con un buon aiuto potrebbe essere resa più duttile e quindi piegata in una certa direzione – allora non vorrei negare che il cuore umano potrebbe essere fatto seguire ciò che è giusto, purché per grazia di Dio ciò che è imperfetto venga perfezionato in esso! Ma se quella parabola voleva mostrare che nulla di giusto può mai uscire dal nostro cuore se non diventa completamente diverso – allora non dobbiamo dividere tra Lui e noi ciò che Dio attribuisce a Lui solo: Quando Dio ci converte a cercare ciò che è giusto, è la trasformazione di una pietra in carne. Così ciò che è proprio della nostra volontà è gettato via, e ciò che prende il suo posto è totalmente da Dio! Io dico che il testamento viene eliminato. Questo non significa: è fatto fuori come volontà, perché ciò che appartiene alla prima natura (originale) rimane intatto nella conversione dell’uomo. Intendo dire questo: la volontà viene creata di nuovo, non per cominciare ad essere una volontà, ma per essere convertita dal male al bene! E questo avviene, io sostengo, puramente da Dio, perché, come dice l’apostolo, non siamo nemmeno in grado di "pensare qualcosa di noi stessi" (2 Cor. 3:5). Perciò egli mostra altrove che Dio non si limita a prestare aiuto alla nostra debole volontà o a correggere la nostra cattiva volontà, ma che egli stesso vuole operare in noi (Fili 2,13). Da questo si deduce facilmente la mia affermazione che ciò che è buono nella nostra volontà è solo un’opera della grazia. In questo senso dice anche: "Perché Dio è colui che opera tutte le cose in tutti" (1Cor 12,6). Egli non parla qui del governo generale del mondo, ma dà lode a Dio solo per tutti i beni in cui abbondano i credenti. Quando dice "tutti", sta certamente dichiarando che Dio è l’autore di tutta la vita spirituale – dall’inizio del mondo alla fine! Egli insegna lo stesso con altre parole già prima (1Cor 8:6; Efes 1:1) quando dice che i credenti sono "da Dio in Cristo"; perché con questo ovviamente loda la nuova creazione, che mette via ciò che appartiene alla nostra natura ordinaria. Si deve anche tener conto del paragone tra Adamo e Cristo, che spiega più chiaramente in un altro passo, dove insegna che siamo "opera di Dio, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato in anticipo perché noi le compissimo" (Efes 2:10). Con questo ragionamento vuole dimostrare che la nostra salvezza ci viene "per grazia" (Efes 2,5), poiché tutte le cose buone cominciano con la seconda creazione, che ci accade in Cristo. Se avessimo anche la minima capacità nostra, meriteremmo anche noi una parte del merito. Ma Paolo, per distruggerci completamente, insegna che non abbiamo alcun merito, poiché siamo "creati in Cristo per le opere buone, che Dio ha preparato in anticipo…". In questo modo mostra di nuovo che tutto ciò che riguarda le opere buone, dal primo impulso, è solo di Dio. Così anche il profeta nel Sal 100 (Sal 100,3) prima dice che siamo opera di Dio, ma poi, per evitare ogni divisione (tra Lui e noi), aggiunge subito: "Egli ha fatto noi e non noi stessi…". È abbastanza chiaro dal contesto che sta parlando della nuova nascita, che è l’inizio della vita spirituale; perché questo è immediatamente seguito dal riferimento che siamo "il suo popolo" e "pecore del suo pascolo". Così, come possiamo vedere, non si accontenta di offrire a Dio la lode per la nostra salvezza, ma ci nega anche espressamente qualsiasi partecipazione ad essa, come se volesse dire: non c’è più nulla di cui l’uomo possa vantarsi – è tutto da parte di Dio!

II,3,7 Ora ci sono probabilmente persone che ammettono prontamente che la volontà, alienata dal bene nella sua propria essenza, viene trasformata dalla sola potenza del Signore – ma in modo tale che, una volta preparata, ha comunque la sua parte nell’opera! Così Agostino insegna che ogni opera buona è preceduta dalla grazia, e che la volontà l’accompagna ma non la conduce, la segue ma non la precede (Lettera 186). Questo non è un cattivo detto dell’uomo pio, ma Pietro Lombardo l’ha poi mal interpretato (Sent. II,26,3). Sono convinto che le suddette parole dei profeti e altri passi mostrano due cose: primo, il Signore corregge la nostra cattiva volontà, addirittura la abolisce, e secondo, Egli stesso mette al suo posto una buona volontà. Nella misura in cui la grazia precede la volontà, la si può chiamare "successiva"; ma poiché la volontà rinnovata è opera di Dio, è sbagliato attribuire all’uomo che si arrenda alla grazia precedente con la sua volontà successiva. Non è quindi corretto quando il Crisostomo scrive che la grazia non può operare nulla senza la volontà e la volontà nulla senza la grazia. Come se la grazia stessa non operasse anche la volontà, come abbiamo appena visto con Paolo! (cfr. Fil 2,13). E quando Agostino dice che la volontà "segue" la grazia, non era sua intenzione attribuirle una certa parte subordinata nell’opera buona. Al contrario, voleva confutare l’orribile insegnamento di Pelagio, che credeva che l’origine effettiva della salvezza potesse essere trovata nel merito dell’uomo. D’altra parte, ha mostrato – e questo era sufficiente in questa materia! D’altra parte, ha mostrato – e questo era sufficiente in questa materia – che la grazia c’era prima di ogni merito; l’ulteriore questione, cioè quale fosse l’effetto duraturo della grazia, l’ha omesso per il momento – ma ne parla in modo eccellente in altri passi! Infatti, così come dice che il Signore precede chi non vuole, perché voglia, e che aiuta chi vuole, perché non voglia invano, chiaramente lascia che Dio sia l’autore di ogni opera buona! Ma le affermazioni di Agostino su questa questione sono troppo chiare per richiedere un’argomentazione più lunga. Così dice anche: "Gli uomini si sforzano di trovare nella nostra volontà ciò che è nostro e non viene da Dio – ma io non so come trovarlo! (Della colpa e del perdono dei peccati II,5). Ma nel primo libro contro Pelagio e Celeste spiega la parola di Cristo: "Chiunque dunque ascolta il Padre mio viene a me", e poi dice: "La volontà è così aiutata, che non solo impara ciò che deve essere fatto, ma (poi) fa ciò che ha imparato. Ma quando Dio dà un tale insegnamento – non per la lettera della legge, ma per la grazia dello Spirito Santo – lo fa in modo tale che ognuno ora non solo riconosce e vede ciò che ha imparato, ma anche vuole esigere e agisce per realizzarlo!"

II,3,8 abbiamo raggiunto il punto principale della discussione. Dimostriamo dunque al lettore questa dottrina nei suoi punti essenziali con poche ma chiarissime testimonianze scritturali. E poi vogliamo mostrare – in modo che nessuno ci accusi di dare un significato sbagliato alle Scritture! – che la testimonianza di quest’uomo pio – voglio dire Agostino – non sminuisce la verità come noi la prendiamo dalla Scrittura e la rappresentiamo! Da un lato, infatti, non ritengo utile elencare uno per uno tutti i passi scritturali che potrebbero essere citati a sostegno della nostra convinzione; piuttosto, con l’aiuto dei passi più squisiti, si dovrebbe aprire la strada alla comprensione di tutti gli altri che si trovano sparsi. E d’altra parte, non mi sembra di aver agito imprudentemente se chiarisco che non sono in cattiva compagnia con quell’uomo al quale il giudizio unanime dei pii attribuisce giustamente la massima autorità. Ora è evidente da ragioni facilmente comprensibili e certe che l’origine della bontà risiede unicamente in Dio stesso. Perché una volontà rivolta al bene si trova solo negli eletti. La ragione dell’elezione, tuttavia, si trova al di fuori dell’uomo, e da questo ne consegue che l’uomo non ha una volontà giusta di sua iniziativa, ma che essa scaturisce a noi dallo stesso buon piacere in cui siamo stati scelti prima della fondazione del mondo. Inoltre, c’è un’altra ragione simile: se l’origine del volere e del fare giusto sta nella fede, allora dobbiamo vedere da dove viene la fede. Ma tutta la Scrittura dà la risposta ad alta voce: è il dono di Dio; e da questo segue che viene dalla pura grazia di Dio quando noi, che siamo per natura interamente inclini al male, cominciamo a volere qualcosa di buono. Quando il Signore converte il Suo popolo, questo significa due cose (Ez 36:26 ss.): Egli toglie il loro cuore di pietra e dà loro un cuore di carne. In questo modo egli stesso testimonia che tutto ciò che viene da noi stessi deve essere messo via per poterci convertire alla giustizia, e che tutto ciò che prende il suo posto viene da lui stesso. Non lo dice solo in questo passo, ma anche in Geremia: "Darò loro un solo cuore e una sola via, perché mi temano per tutti i loro giorni" (Ger 32:39). O ancora in Ezechiele: "Io vi darò un cuore d’accordo e metterò in voi uno spirito nuovo; toglierò dal vostro corpo il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne" (Ez 11,19). Non può ascrivere più chiaramente a sé e negare a noi tutto ciò che è buono e giusto nella nostra volontà che dichiarando in questa testimonianza che la nostra conversione è la creazione di uno spirito nuovo e di un cuore nuovo. Perché la conclusione è sempre che nulla di buono viene dalla nostra volontà prima che sia rinnovata, e che dopo che è rinnovata, se è buona, è da Dio e non da noi!

II,3,9 A questo corrisponde anche la forma delle preghiere dei santi, come le leggiamo (nella Scrittura). "Che il Signore inclini i nostri cuori a lui, affinché possiamo osservare i suoi comandamenti", prega Salomone (1 Re 8:58; non il testo di Lutero). Con questo egli indica la testardaggine del nostro cuore, che è naturalmente incline alla ribellione contro la legge di Dio se non viene trasformata. Così è detto anche nel 119° Salmo: "Inclinare il mio cuore alle tue testimonianze" (Sal 119:36). Perché dobbiamo sempre considerare il contrasto tra l’impulso sbagliato del nostro cuore, che porta al disprezzo e alla sfida, e il rinnovamento che invita all’obbedienza. Davide, che, come egli stesso sentiva, era stato per un certo tempo privo della guida della grazia, chiede a Dio di creare in lui "un cuore nuovo" e di dargli uno "spirito nuovo e certo" (Sal 51,12). Non riconosce così che tutto il suo cuore è pieno di impurità e che il suo spirito è contorto da ogni falsità? E quando chiama la purezza che prega la creazione di Dio, non attribuisce forse a Lui solo tutto ciò che ha ricevuto? Ora qualcuno potrebbe obiettare che questa preghiera è essa stessa un segno di un impulso pio e santo. A questo dobbiamo dire: Davide era già rinsavito in una certa misura, ma ancora confrontava il suo stato precedente con la terribile caduta che aveva vissuto. Si considera quindi un uomo separato e alienato da Dio e quindi chiede giustamente che gli venga concesso ciò che Dio dona ai suoi eletti nella rigenerazione. Così, come uno che è quasi morto, chiede di essere creato di nuovo, affinché uno schiavo di Satana diventi uno strumento dello Spirito Santo! L’avidità del nostro orgoglio è veramente strana e mostruosa. Nulla è più ardentemente richiesto dal Signore che mantenere il suo giorno di sabato nella massima riverenza, cioè che ci riposiamo da tutte le nostre opere. Eppure non c’è niente di così difficile per noi da realizzare come abbandonare tutte le nostre opere e dare alle opere di Dio il loro giusto posto! Se la nostra follia non ci ostacolasse, la testimonianza stessa di Cristo della sua grazia sarebbe così chiara per noi che non potremmo oscurare questa grazia nella nostra malvagità: poiché egli dice: "Io sono la vite, voi siete i tralci; il Padre mio è il vignaiolo. Come un tralcio non può portare frutto da sé, se non rimane nella vite, così nemmeno voi potete, se non rimanete in me. Perché senza di me non potete far nulla" (Giov 15,1.4 ss.). Quindi non portiamo più frutto da parte nostra di quanto possa portare frutto un ramo strappato dalla terra e privato di ogni vitalità! Quindi non dovremmo più chiedere quale attitudine abbia la nostra natura al bene! La conclusione è tanto più inequivocabile: "Senza di me non potete fare nulla!". Non dice che siamo troppo deboli per poterci bastare da soli, ma ci rende nullatenenti e toglie il fondamento a ogni opinione che abbiamo anche la minima capacità! Noi portiamo frutto solo quando siamo inseriti in Cristo; allora siamo come una vite che trae la sua forza per crescere dall’umidità della terra, dalla rugiada del cielo, dal calore del sole; ma anche allora non ci rimane nulla nelle opere buone che facciamo; offriamo a Dio solo ciò che è suo! È anche inutile fare l’obiezione sofistica che la vite stessa ha anche la linfa e il potere di portare frutto, e che quindi non prende tutto dalla terra e dalla radice originale, poiché aggiunge qualcosa di suo. Ma Cristo vuole solo mostrare che siamo un legno sterile e inutile finché siamo separati da Lui, perché siamo incapaci di fare bene da soli. Egli dice anche in un altro luogo: "Ogni albero che il Padre mio non ha piantato sarà sradicato" (Mat 15,13). Ecco perché l’apostolo gli attribuisce tutto nel passo già citato: "È Dio che opera in voi sia nel volere che nel fare" (Fil 2,13). Un’opera giusta richiede due cose: la volontà e la potenza giusta per compierla – ed entrambe vengono da Dio! Quello che ci arroghiamo nella volontà o nella realizzazione, lo rubiamo al Signore! Se Dio dicesse che verrebbe in aiuto della nostra debole volontà, allora ci resterebbero certamente alcune cose. Ma, come si dice, egli stesso opera la volontà – e quindi tutto ciò che c’è di buono è al di là di noi! Inoltre, anche la buona volontà è così schiacciata dal peso della nostra carne che non può alzarsi. Ecco perché l’apostolo aggiunge che la costanza della lotta in una lotta così dura ci viene offerta fino al vero "compimento". Altrimenti la parola che egli scrive in un altro luogo non potrebbe stare in piedi: "C’è un solo Dio che opera tutte le cose in tutti" (1Cor 12:6). Perché abbiamo già visto che questo copre tutto il corso della vita spirituale. Davide chiede anche che gli siano rivelate le vie di Dio, in modo che possa camminare nella sua verità, e poi aggiunge: "Custodisci il mio cuore in uno, perché io possa temere il tuo nome" (Sal 66:11). Con questo vuole mostrare come anche i benpensanti sono così lacerati che sono facilmente rovinati e confusi se non ricevono la forza di resistere. Anche in un altro luogo, prima prega: "Fa’ che la mia via sia sicura secondo la tua parola", e allo stesso tempo chiede la forza di combattere: "e che nessuna ingiustizia regni su di me" (Sal 119,133). Così il Signore dimostra di essere il principio e il compimento dell’opera buona in noi: è opera sua quando la volontà arriva ad amare ciò che è giusto, quando è incline a lottare per esso, quando è provocata e stimolata ad andare per esso. Ma è anche opera Sua quando la decisione, lo zelo e la lotta non si affievoliscono, ma continuano fino al successo, quando l’uomo continua in esse con costanza e persevera fino alla fine.

II,3,10 Dio muove la volontà. Ma questo non avviene, come si è insegnato e creduto per secoli, in modo tale che spetti poi a noi obbedire o resistere a questo movimento; ma Egli lo muove così potentemente che deve seguire. Così, quando il Crisostomo continua a ripetere: "Dio attira solo quelli che vogliono", questo deve essere respinto. Perché implica che Dio ci tende semplicemente la mano e poi aspetta di vedere se ci piace lasciarci aiutare! Ammettiamo che l’uomo che non era ancora caduto era in grado di scegliere l’uno o l’altro. Ma ha mostrato con il suo esempio quanto sia miserabile il libero arbitrio, se Dio non è disposto e capace in noi, cosa ne sarebbe di noi se Dio ci desse la sua grazia in quel modo? Sì, lo oscuriamo e lo sminuiamo con la nostra ingratitudine! Perché l’apostolo non insegna che la grazia della buona volontà ci viene offerta se l’accettiamo, ma piuttosto che fa nascere in noi la volontà: Egli fa nascere la volontà in noi! E questo non significa altro che il Signore dirige, guida e governa il nostro cuore attraverso il Suo Spirito e governa in esso come in suo possesso. Né la promessa in Ezechiele si limita a leggere così: Dio avrebbe dato ai suoi eletti lo spirito nuovo per camminare nei suoi comandamenti, ma che essi camminassero effettivamente in essi! (Ez 11:19 s. 36:27). E la parola di Gesù: "Chi ascolta il Padre mio viene a me" (Giov 6,45) può essere intesa solo in modo tale da insegnare la grazia che opera attraverso se stesso, come afferma anche Agostino (Sulla predestinazione 3,13). Il Signore non mostra questa grazia a tutti allo stesso modo, come significa il detto comune di Occam – se ricordo bene -: non è negata a nessuno che faccia quello che può. Certamente si dovrebbe insegnare alla gente che la bontà di Dio è offerta a tutti coloro che la chiedono – senza eccezione. Ma solo coloro che cominciano a desiderarla in cui la grazia, la grazia celeste, è diventata efficace – e quindi questa parte della sua gloria non può essere tagliata! Questo è veramente il vantaggio degli eletti, che, essendo nati di nuovo dallo Spirito di Dio, ora sono anche condotti e governati dalla Sua guida. Così ha ragione anche Agostino quando ridicolizza coloro che si arrogano una qualsiasi parte nella volontà stessa, e anche quando resiste ad altri che pensano che ciò che è in fondo la speciale testimonianza della graziosa elezione sia concessa a tutti senza distinzione. "Ciò che è comune a tutti noi è la natura, ma non la grazia", dice, e la chiama un bagliore insignificante, che solo per la sua vanità dà una parvenza, quando è generalmente esteso a tutti, ciò che in fondo Dio dà a chi vuole (Ecclesiaste 26:7). Oppure dice anche: "Come sei arrivato qui? – Nella fede. – Allora fate in modo di non immaginare di aver trovato da soli la strada giusta, e di perderla di nuovo! Oppure dite: sono venuto di mia spontanea volontà, di mia spontanea volontà sono qui. – Perché vi gonfiate? Volete sapere che questo è dato anche a voi? Ascoltate dunque la parola del Signore stesso, che dice: Nessuno può venire a me, se il Padre mio non lo attira. (Giov 6:44)" (Sermone 30). Che Dio diriga i cuori dei pii con una tale potenza che essi ora seguono con un’inclinazione che non può più essere mossa avanti e indietro, è senza dubbio chiaro dalle parole di Giovanni: "Chiunque è nato da Dio non può peccare, perché il suo seme rimane in lui" (1 Giov 3:9). Se, dunque, Dio ci dà una perseveranza efficace e duratura, l’impulso indeciso ("motus medius") che i sofisti fantasticano, un impulso che si potrebbe seguire e anche resistere, è ovviamente escluso.

II,3,11 Che la costanza sia da considerarsi un dono grazioso di Dio, sarebbe anche rimasto senza dubbio, se non fosse sorto quel malvagio errore, che è distribuito secondo il merito degli uomini, anche dopo che ognuno si è dimostrato grato alla "prima" grazia. Ma questa proposizione errata è nata dall’opinione che sia nelle nostre mani rifiutare o accettare la grazia offerta. Ma poiché quest’ultima opinione è già stata sufficientemente confutata, anche questo errore cade da solo. Tuttavia, qui c’è un doppio errore, cioè, da un lato, l’insegnamento che la nostra gratitudine verso la "prima" grazia e la sua giusta applicazione sarà ricompensata da ciò che segue, e poi, dall’altro lato, l’aggiunta che la grazia non è solo all’opera in noi, ma che lavora solo insieme a noi. Per quanto riguarda il primo, si può dire quanto segue. Il Signore riempie quotidianamente i suoi servitori con i doni della sua grazia e li inonda di nuovi. Egli trova anche in loro ciò che ritiene degno di doni di grazia ancora più grandi, perché l’opera che egli stesso ha iniziato in loro gli è gradita e accettabile. Questo include passaggi come: "A chi ha sarà dato" o "O servo devoto e fedele, tu sei stato fedele a poche cose, io ti metterò sopra molte cose" (Mat 25:21, 23, 29; Luca 19:17, 26). Ma qui dobbiamo guardarci da due false affermazioni: da un lato, che i successivi doni della grazia appaiono come una ricompensa per il giusto uso della prima grazia – come se l’uomo rendesse efficace la grazia di Dio solo con il proprio sforzo! – e dall’altro lato, che si parla di questa "ricompensa" come se fosse qualcosa di diverso da un dono della grazia gratuita. Ammetto, quindi, che i credenti possono aspettarsi una tale benedizione, e che meglio hanno applicato i precedenti doni della grazia, maggiori saranno i doni che riceveranno in seguito. Ma io dico: anche quell’applicazione (dei doni precedenti) viene dal Signore, e questa ricompensa procede dalla sua benevolenza graziosa; quindi la distinzione molto usata tra una grazia "operativa" e una "cooperativa" (gratia operans e gratia cooperans) è goffa e infelice. Tuttavia, anche Agostino lo usava; ma lo ammorbidiva con un’abile descrizione: Dio compie con la cooperazione ciò che ha iniziato con la cooperazione; è anche la stessa grazia, che però riceve il suo nome secondo la diversa natura del suo effetto. Da ciò risulta che non divide tra Dio e noi, come se ci fosse una cooperazione da entrambe le parti di propria iniziativa, ma vuole solo esprimere la molteplicità della grazia. Questo include anche la sua affermazione che molti dei doni di Dio precedono la buona volontà dell’uomo – e che questa stessa volontà appartiene anche a questo! Non lascia quindi nulla alla volontà che possa arrogarsi. Questa è anche l’affermazione esplicita di Paolo. Perché prima dice: "È Dio che opera in voi sia nel volere che nel fare" (Fili 2,13), e poi aggiunge immediatamente che fa entrambe le cose "secondo il suo buon volere". Questa parola dovrebbe significare che è una questione di grazia gratuita. – Si dice poi anche che se abbiamo dato spazio alla "prima" grazia, il nostro sforzo collaborerà immediatamente con la grazia che segue. A questo rispondo: se si intende che quando siamo stati portati una volta al servizio della giustizia dalla potenza del Signore, ora andiamo avanti di nostra iniziativa e siamo inclini a seguire l’impulso della grazia, non ho nulla in contrario. Perché dove regna la grazia di Dio, c’è certamente una tale disposizione all’obbedienza. Ma da dove viene questo se non dal fatto che lo Spirito di Dio, che rimane lo stesso ovunque, ora rafforza e fortifica anche l’impulso all’obbedienza che ha prodotto all’inizio in una ferma perseveranza? Ma dire con questa frase che l’uomo prende da sé la capacità di cooperare con la grazia è un errore fatale.

II,3,12 In quest’ultimo modo viene distorta la parola dell’apostolo: "Io ho faticato più di tutti loro, ma non io, bensì la grazia di Dio che è con me" (1Cor 15,10). Questo passo deve essere inteso come segue: l’apostolo potrebbe aver dato in precedenza l’apparenza di una certa presunzione quando si è messo a capo di tutti; ma dimostra che questa apparenza è falsa attribuendo la lode alla grazia di Dio; ma questo è poi fatto in modo tale che egli si definisce un collaboratore della grazia. È sorprendente quante persone altrimenti non malvagie si siano offese per questa scheggia. Infatti, quando l’apostolo scrive che la grazia del Signore ha lavorato con lui, non lo fa per rendersi complice dell’opera, ma dà tutto il merito della sua opera alla sola grazia quando dichiara: Non sono io che avrei lavorato, ma la grazia di Dio che è rimasta al mio fianco! Così si è stati ingannati dall’ambiguità dell’espressione, ma ancor più dall’errata traduzione (in latino), che non ha tenuto conto del significato dell’articolo greco. Se si traduce letteralmente, non dice che la grazia lavorava insieme a lui, ma piuttosto che la grazia, che era al suo fianco, lavorava tutto! Anche Agostino lo insegna abbastanza chiaramente, anche se un po’ brevemente, quando dice: "La buona volontà dell’uomo precede molti doni di Dio, ma non tutti. Tra coloro che precede, si trova anche lui stesso". Come prova cita poi: "La sua misericordia mi precede" e poi ancora: "La bontà e la misericordia mi seguiranno" (Sal 59,11 – non testo di Lutero; 23,6). "Perché la misericordia di Dio precede colui che non vuole, perché voglia, e segue colui che vuole, perché non voglia invano". Anche Bernardo è d’accordo con questo quando fa dire alla Chiesa: "O Signore, attirami contro la mia volontà per rendermi disponibile, attirami che sono lassista e fammi correre" (Omelie sul Cantico dei Cantici, 21).

II,3,13 Ora, affinché i pelagiani del nostro tempo, cioè i furbetti della Sorbona, non ci rimproverino, alla loro maniera, di avere tutta la Chiesa primitiva contro di noi, ascoltiamo ora Agostino stesso. I nostri attuali pelagiani stanno imitando il loro Padre della Chiesa, che una volta chiamò Agostino sul campo di battaglia per un argomento simile. Ciò che egli descrive più dettagliatamente nel suo scritto "Del castigo e della grazia a Valentinus" (De correptione et gratia ad Valentinum), io ne riprodurrò brevemente una parte, ma con le sue stesse parole. Spiega che la grazia di perseverare nel bene sarebbe stata concessa ad Adamo se lo avesse voluto. Ma ci è dato perché possiamo volere e vincere la concupiscenza con la volontà. Così Adamo era capace se avesse voluto, ma non aveva la volontà di essere capace. A noi, invece, è data la volontà e la capacità. La libertà originale consisteva nel fatto che l’uomo era in grado di non peccare (posse non peccare). Ma la nostra libertà è molto più grande: non abbiamo la capacità di peccare (non posse peccare) (cap. 12). Ma perché nessuno si faccia l’idea che stia parlando della futura perfezione della vita eterna – che è il modo in cui Pietro Lombardo si riferiva erroneamente ad essa! Elimina immediatamente ogni dubbio: "La volontà dei fedeli è così infiammata dallo Spirito Santo che possono perché vogliono, e che vogliono perché Dio fa sì che lo vogliano! Sono davvero in una grande debolezza, nella quale la Sua potenza si perfeziona per la sottomissione di tutta la loro propria gloria! (2Cor 12:9). Ma se la loro volontà rimanesse in questa debolezza, in modo da poter fare ciò che vogliono con l’aiuto di Dio – e se Dio stesso non operasse la volontà in loro, allora in mezzo a tante tentazioni la loro volontà dovrebbe soccombere ed essi non sarebbero in grado di perseverare! Perciò Dio ha aiutato così tanto la debolezza della volontà umana che ora è inevitabilmente e incessantemente guidata dalla Sua grazia e in questo modo non fallisce – per quanto debole sia!" Poi parla a lungo di come il nostro cuore segue necessariamente l’impulso di Dio che opera in esso, e poi dice: certamente il Signore attira l’uomo con la sua propria volontà – ma quella stessa volontà l’ha creata lui stesso! (14) Così abbiamo dalla stessa bocca di Agostino la prova di ciò che era essenziale per noi: il Signore non si limita ad offrirci la sua grazia, in modo che ciascuno possa accettarla o rifiutarla a sua discrezione; ma la grazia di Dio stessa opera la decisione e la volontà nel cuore. Quindi, qualsiasi opera buona ne esca è il suo proprio frutto ed effetto! E l’uomo ha la sua volontà obbediente solo perché Dio stesso lo crea. Agostino dice letteralmente in un altro passaggio: "Tutte le opere buone in noi sono create dalla sola grazia" (Lettera 194).

II,3,14 Ma Agostino dice altrove che la grazia non abolisce la volontà, ma la trasforma dal male al bene e la assiste quando è diventata buona! Ma questo significa solo che l’uomo non è guidato (dallo Spirito di Dio) in modo tale da lasciarsi spingere da una pressione esterna senza alcuna agitazione del cuore, ma che è afferrato interiormente in modo tale da obbedire dal cuore. Secondo Agostino, tale grazia è concessa in modo speciale agli eletti e per grazia gratuita. Così scrive a Bonifacio: "Noi sappiamo che la grazia di Dio non è data a tutti gli uomini; e a chi la riceve, non è data secondo il merito delle opere, né secondo il merito della volontà, ma per pura grazia (gratuita gratia); a chi non è data, rimane, come sappiamo, negata secondo il giusto giudizio di Dio" (Lettera 217). Nella stessa lettera, egli affronta debitamente l’opinione che la grazia "successiva" è data all’uomo come ricompensa per i suoi meriti, nella misura in cui egli si è dimostrato degno non rifiutando la "prima" grazia! È proprio l’intenzione di Pelagio di farci ammettere che abbiamo bisogno della grazia per tutte le azioni individuali, e che essa non significa un castigo per il lavoro fatto: dovrebbe davvero apparire come grazia! Tuttavia, tutta questa connessione non può essere riassunta più brevemente di quanto non lo sia nell’ottavo capitolo della Scrittura di Valentino, "Sul castigo e la grazia". Lì insegna prima: la volontà umana non raggiunge la grazia in virtù della sua libertà, ma la libertà in virtù della grazia. E ancora: Per la stessa grazia l’uomo è anche trasformato e in questo modo reso stabile; perché questa grazia lo determina ad amare il bene con gioia. Terzo: Così riceve la forza per un coraggio inespugnabile. In quarto luogo, se la grazia regna in lui, egli sta in piedi senza scosse; se lo lascia, cade a terra. In quinto luogo, attraverso la compassione misericordiosa del Signore, egli è rivolto al bene, e la stessa compassione lo fa perseverare in esso. Infine, il fatto che la volontà umana si rivolga al bene e poi perseveri nel bene dipende unicamente dalla volontà di Dio e in nessun modo da un suo merito. Che cosa è il "libero arbitrio" – se lo si vuole chiamare così! – Agostino mostra in un altro passo come si presenta il "libero arbitrio" – se così si può chiamare – che è rimasto all’uomo: non può né rivolgersi a Dio né perseverare in Dio senza la grazia; anzi, può fare tutto solo attraverso la grazia! (Lettera 214).


Capitolo quattro

Come Dio lavora nel cuore dell’uomo.

II,4,1 Se non mi sbaglio, è ormai sufficientemente provato che l’uomo è sotto il giogo del peccato in modo tale che da solo, per sua natura, non può cercare il bene né lottare per esso. Inoltre, abbiamo fatto una distinzione tra "costrizione" e "necessità", da cui dovrebbe seguire che l’uomo pecca necessariamente, ma comunque volontariamente. Ma l’uomo è soggetto alla schiavitù del diavolo e, come appare, è governato più dalla sua volontà che dalla sua. Perciò dobbiamo (1.) considerare ora come si presenta questo doppio governo. Poi (2.) dobbiamo rispondere alla domanda se si deve attribuire a Dio una parte nelle opere malvagie, poiché la Scrittura implica, dopo tutto, una certa attività da parte di Dio. Da qualche parte Agostino paragona la volontà umana a un cavallo che segue la direzione del suo cavaliere; Dio e il diavolo sono i cavalieri in questa parabola. "In Dio ha un cavaliere calmo e abile, che lo dirige con saggezza, dà lo sprone alla sua lentezza e modera la velocità troppo grande, frena la sua voluttà e la sua sfrenatezza, doma la sua sfida e lo guida sul giusto cammino. Ma quando il diavolo se ne è impossessato, lo guida come un cavaliere pazzo e sfrenato attraverso un paese senza piste, lo fa correre nelle paludi, lo getta giù dai precipizi, e lo incita alla testardaggine e alla ferocia". Per il momento ci accontentiamo di questa parabola, perché non possiamo pensare ad una migliore. Ma quando si dice che la volontà dell’uomo naturale è soggetta al comando del diavolo ed è governata da lui, ciò non significa: la volontà è costretta all’obbedienza a malincuore e con resistenza – proprio come noi costringiamo un servo a obbedire al nostro comando contro la sua volontà in virtù del diritto di dominio – ma piuttosto: egli si lascia abbindolare dal discorso lusinghiero di Satana e ora obbedisce necessariamente a tutta la sua guida. Per chi il Signore non fa grazia con la guida del suo Spirito, egli consegna nel giusto giudizio all’effetto di Satana. Ecco perché l’apostolo dice che il dio di questo mondo ha accecato le menti degli increduli, cioè di coloro che sono destinati alla distruzione, in modo che non vedano la luce del vangelo (2Cor 4:4). In un altro passo sentiamo che il diavolo opera nei figli dell’incredulità (Efes 2,2). La cecità dei malvagi e tutti i vizi che ne derivano sono chiamati opera del diavolo, e tuttavia la loro causa non va cercata al di fuori della volontà umana, dalla quale cresce la radice di ogni male e nella quale ha sede il fondamento del regno di Satana, cioè il peccato.

II,4,2 In questi casi è molto diverso con l’attività divina. Per vedere più chiaramente questo, consideriamo le difficoltà che colpirono il santo uomo Giobbe da parte dei Caldei. I Caldei uccisero i suoi pastori e lo derubarono del suo gregge con la forza. La loro azione malvagia è rivelata apertamente. Ma anche Satana non è inattivo in questo lavoro, anzi, secondo la storia, tutto viene da lui. Lo stesso Giobbe, però, riconosce l’opera del Signore in questo e dice che gli ha tolto ciò che era stato rubato dai Caldei! Come possiamo considerare Dio, Satana e l’uomo come l’autore della stessa azione, senza scusare Satana dicendo che anche Dio era coinvolto, o dichiarare Dio autore del male? Questo è facile se guardiamo prima l’intenzione dell’atto e poi il modo della sua esecuzione. Il consiglio del Signore è di addestrare il Suo servo alla pazienza attraverso le avversità. Satana cerca di portarlo alla disperazione. E i caldei vogliono impadronirsi della proprietà altrui contro ogni diritto agli occhi di Dio e degli uomini. Una così grande diversità di intenzioni porta anche profonde differenze nel lavoro stesso. Pertanto, le differenze nel modo in cui viene effettuata non sono da meno. Il Signore consegna il suo servo a Satana perché lo tormenti; consegna anche a Satana i Caldei che aveva designato come servi per tale lavoro, perché li spinga a farlo. Satana, invece, con il suo pungiglione velenoso, fa sì che la natura malvagia dei Caldei compia questa atrocità. E i Caldei corrono selvaggiamente nell’ingiustizia, impigliandosi e macchiandosi anima e corpo con la malvagità. Si può quindi effettivamente dire: Satana opera nei respinti; perché in essi esercita il suo dominio, cioè il reggimento della malvagità. Ma possiamo anche dire che Dio agisce qui, perché Satana stesso è lo strumento della sua ira, e, secondo la sua direzione e il suo comando, si rivolge qua e là per eseguire i suoi giusti giudizi. Qui non mi riferisco al governo generale di Dio, che solleva e sostiene tutte le creature e dà loro il potere di operare. Parlo solo dell’efficacia particolare che si manifesta in ogni singolo atto. Non è affatto assurdo, quindi, come abbiamo osservato, che lo stesso atto sia attribuito a Dio, a Satana e all’uomo; ma la differenza di intenzione e di esecuzione ha l’effetto che qui la giustizia di Dio rimane irreprensibilmente onorata, e dall’altra parte la depravazione di Satana e dell’uomo si manifesta a loro vergogna.


II,4,3 Gli antichi maestri della Chiesa, con troppa moderazione, hanno talvolta paura di confessare la verità semplicemente in questo pezzo; non vogliono dare spazio all’empietà, per parlare con riverenza delle opere di Dio. Tengo questa modestia in tutto onore; ma sono comunque convinto che non c’è pericolo se ci atteniamo semplicemente a ciò che ci dicono le Scritture. Anche Agostino non è talvolta libero da questo timore superstizioso; per esempio, dice che l’indurimento e la cecità dell’uomo non appartengono all’opera attiva di Dio, ma alla sua prescienza (Sulla predestinazione e la grazia, 5). Ma questo sofisma è contrastato da molti passaggi della Scrittura che mostrano che Dio è attivo qui in un modo diverso dalla sua semplice prescienza! Anche Agostino stesso, nel quinto libro della Scrittura contro Giuliano, sostiene a lungo che il peccato non avviene solo con il permesso di Dio e sotto la sua pazienza, ma sotto il suo potere, cioè come punizione per i peccati precedenti. Ciò che poi viene detto con la stessa intenzione sul "permesso" di Dio è troppo inconsistente per stare in piedi. Perché molto spesso sentiamo che Dio acceca e indurisce i rifiutati, che trasforma, guida e guida i loro cuori – come ho spiegato più dettagliatamente sopra. Ma non saremo mai in grado di chiarire con cosa abbiamo a che fare se ricorriamo a parole come "prescienza" o "permesso". Rispondiamo, quindi, che questo (l’accecamento e l’indurimento dei respinti) avviene in due modi. In primo luogo, se Dio toglie la sua luce, non rimane altro che l’oscurità intorno a noi e solo la cecità in noi! Se lui ritira il suo Spirito, i nostri cuori diventano duri come la pietra. Se la sua guida cessa, si confonde e si perde. Così, quando toglie ad una persona la capacità di vedere, di obbedire e di fare ciò che è giusto, si può giustamente dire che acceca, la rende testarda, la porta fuori strada! La seconda si avvicina ancora di più al significato reale delle parole menzionate: Dio, per eseguire i suoi giudizi, dirige i consigli dei respinti secondo il suo piacere attraverso Satana, il servo della sua ira, risveglia le loro risoluzioni e le conferma nei fatti. Così Mosè riferisce anche che il re Sihon non avrebbe lasciato passare il popolo nella sua terra perché Dio aveva indurito il suo spirito e indurito il suo cuore; poi aggiunge come intenzione di questo consiglio: "Per consegnarlo nelle vostre mani" (Deut 2:30). Così Dio voleva distruggerlo, e quindi la testardaggine del suo cuore era la preparazione di Dio per la sua caduta.

II,4,4 Alla prima linea di pensiero corrisponde la parola: "Egli toglie la parola ai provati e toglie la comprensione ai vecchi" (Giobbe 12,20; Ez 7,26). Oppure: "Egli toglie la saggezza ai governanti dei popoli del paese, e li svia attraverso la terra senza via d’uscita" (Sal 107:40; non testo di Lutero). Inoltre, "Perché ci hai fatto sbagliare, o Signore, dalle tue vie e hai indurito i nostri cuori, perché non ti temiamo? (Isa 63:17). Perché questi passaggi mostrano piuttosto ciò che Dio fa dell’uomo quando lo lascia, piuttosto che come fa (attivamente) la sua opera in loro. Ma altre testimonianze scritturali vanno oltre. Soprattutto quelli che parlano dell’indurimento del faraone: "Io indurirò il suo cuore, affinché non lasci andare il popolo" (Es 4:21; 7:3). In seguito dice di aver reso il suo cuore rigido e duro (Es 10:1). Questo indurimento significava semplicemente l’omissione del rammollimento? Certamente: anche questo. Ma fece qualcosa di più: incaricò Satana di indurire il suo cuore, come aveva detto prima: "Io custodirò il suo cuore". Poi il popolo uscì dall’Egitto. Ma gli abitanti ostili della terra li ostacolavano. Chi li aveva incitati? Mosè in ogni caso afferma al popolo che è stato il Signore ad aver indurito i loro cuori (Deut 2:30). E il profeta, toccando lo stesso evento, dice che Dio aveva trasformato i loro cuori, così che si arrabbiarono con il suo popolo (Sal 105:25). Ora, quindi, non si può dire che erano solo afflitti perché mancava loro il consiglio del Signore. Perché se sono diventati induriti e perversi, significa che sono stati deliberatamente condotti in questa direzione! E inoltre, il Signore si compiaceva abbastanza spesso di punire il popolo per la sua trasgressione – come faceva allora la sua opera negli empi? In ogni caso, in modo tale che si possa vedere: l’opera era con lui, e quelli gli facevano solo servizio. Così egli minaccia di chiamare i nemici con il suo sibilo (Isa 5,26; 7,18), di usarli come una rete per prendervi Israele (Ez 12,13; 17,20), di brandirli come un martello per colpire il suo popolo (Ger 50,23). Ma che egli non è inattivo nei nemici stessi, lo ha reso noto soprattutto chiamando Sanherib un’ascia (Isa 10:15), che brandiva e roteava con la mano per abbattere il popolo con essa. Non male Agostino da qualche parte dà la descrizione: Ciò che peccano è affare loro; ma che compiano effettivamente questo o quello con il loro peccare, questo viene dalla potenza di Dio, che divide le tenebre come gli piace (Della predestinazione dei santi, 16).

II,4,5 Ora Satana serve a incitare gli empi, tutte le volte che il Signore nella sua provvidenza li ordina a questa o quell’opera. Questo può essere sufficientemente visto da un solo passaggio. In 1 Samuele si dice spesso che lo "spirito malvagio del Signore" o uno "spirito malvagio del Signore" si era impossessato di Saul o lo aveva lasciato di nuovo (1Sam 16:14; 18:10; 19:9). Riferirlo allo Spirito Santo sarebbe sacrilego. Così uno spirito malvagio è chiamato spirito di Dio, perché è soggetto alla sua volontà e al suo potere ed è quindi lo strumento di Dio piuttosto che il proprio padrone nel suo lavoro! Allo stesso tempo dobbiamo aggiungere ciò che Paolo insegna: Dio manda potenti errori e ogni tipo di seduzione (all’ingiustizia), in modo che tutti coloro che non hanno obbedito alla verità ora credano alla menzogna (2Tess 2,11). Eppure, nella stessa opera, c’è una profonda differenza tra ciò che fa il Signore e ciò che Satana e i malvagi mettono in moto. Lascia che gli strumenti malvagi, che ha in mano e che può dirigere dove vuole, servano la sua giustizia. Essi, invece, sono malvagi e con le loro azioni non fanno altro che portare alla luce la malvagità della loro natura, che hanno covato nella loro depravazione. Cos’altro si potrebbe dire per difendere la maestà di Dio contro ogni bestemmia e per tagliare fuori gli empi da ogni evasione è già stato spiegato nel capitolo "Sulla Provvidenza". Qui volevo solo mostrare brevemente come Satana regna in un uomo rifiutato – e tuttavia come il Signore stesso è all’opera in entrambi.

II,4,6 Ma non abbiamo ancora trattato di quale libertà l’uomo possiede in tali azioni, che di per sé non sono né giuste né cattive, e quindi riguardano più la vita corporea che quella spirituale; questa questione l’abbiamo solo sfiorata brevemente. Alcuni hanno attribuito all’uomo la libera decisione in tali questioni. Secondo me, l’hanno fatto più perché non volevano avere una grande disputa su questa piccola questione importante che perché volevano mantenere con certezza la concessione che avevano fatto. Confesso che colui che riconosce di non avere capacità di giustizia sa cosa è necessario per la salvezza. Ma credo ancora che questa lezione non debba essere trascurata. Dobbiamo riconoscere che quando ci viene in mente di decidere a favore di ciò che ci giova, quando la volontà si volge verso di esso, e quando, d’altra parte, l’intelletto e la mente evitano ciò che dovrebbe essere dannoso, allora questa è una grazia speciale del Signore! La potenza della divina provvidenza arriva al punto che le cose si realizzano come Dio ha visto bene, e che anche la volontà degli uomini deve essere diretta secondo questo piano! Se pensiamo alla direzione degli eventi esterni secondo il nostro senso, diremo senza esitazione che questo è sotto la volontà umana. Ma se ascoltiamo le numerose testimonianze scritturali che indicano chiaramente che il Signore governa il cuore degli uomini anche in queste questioni, esse ci obbligano a sottomettere la nostra volontà alla speciale guida divina. Chi, per esempio, si suppone che abbia fatto inclinare la volontà degli Egiziani verso gli Israeliti, in modo che prestassero loro tutti gli utensili più preziosi? (Es 11:2 s.). Loro stessi non ci avevano mai pensato! Quindi i loro cuori erano sotto la guida del Signore e non sotto la loro guida! Così Giacobbe dice di suo figlio Giuseppe, che prende per un egiziano: "Dio ti faccia trovare misericordia davanti a quest’uomo" (Gen 43:14). Non l’avrebbe fatto se non fosse stato convinto che Dio, secondo il suo buon volere, risveglia negli uomini i vari sentimenti. Così tutta la Chiesa confessa nel Sal (106,46) che il Signore ha voluto avere misericordia di loro e quindi ha cambiato il cuore delle nazioni feroci in dolcezza. Inoltre, è detto di Saul che la sua rabbia si accese così che si preparò alla guerra – e la causa è data come l’impulso dello Spirito di Dio! (1Sam 11:6). Chi allontanò il cuore di Absalom dal consiglio di Ahithophel, che era considerato una sentenza divina? (2 Sam 17:14). Chi ha pervertito la mente di Rehoboam per farsi persuadere dai consigli dei giovani? (1Re 12:10; 11:15). Chi ha terrorizzato nazioni che prima erano state di grande valore davanti agli israeliti? La prostituta Rahab, in ogni caso, dichiara che è un’opera del Signore! (Gios 2:9). E chi altro fece sprofondare il cuore d’Israele nella paura e nel terrore se non Colui che aveva minacciato nella Legge di dare al popolo un cuore terrorizzato se avesse disobbedito? (Lev 26:36; Deut 28:65).

II,4,7 Ora forse qualcuno obietterà che questi sono esempi individuali da cui non si dovrebbe trarre una regola generale. Rispondo: questi esempi sono la piena prova della mia affermazione che Dio, quando vuole fare spazio alla sua provvidenza, guida e trasforma la volontà degli uomini anche nelle questioni esterne, così che anche nei loro confronti non c’è libera decisione nel senso che la volontà di Dio perde il dominio sulla nostra libertà! Che la nostra volontà dipenda dalla guida di Dio e non dalla nostra libertà di decisione è insegnato, che ci piaccia o no, anche dall’esperienza quotidiana: spesso ci manca il potere di giudizio e di comprensione in questioni abbastanza comprensibili, o il nostro coraggio si stanca in compiti semplici, o, al contrario, un piano risolutivo ci appare improvvisamente in questioni abbastanza intricate, o il nostro coraggio ha il sopravvento su tutte le difficoltà anche in un grande pericolo. In questo modo capisco le parole di Salomone: "Un orecchio che ascolta e un occhio che vede – il Signore fa entrambi" (Prov 20:12). Mi sembra che non stia parlando della creazione, ma della grazia di usare i nostri talenti in un caso particolare. Quando poi scrive: "Il cuore del re è nella mano del Signore come ruscelli d’acqua; ed egli lo inclina dove vuole" (Prov 21:1), egli certamente include l’intera razza umana sotto l’unica persona del re. Perché se la volontà di un uomo fosse libera da ogni dipendenza, questo varrebbe sicuramente per il re, che, per così dire, governa la volontà degli altri uomini. Quindi, se la volontà del re è guidata da Dio, questo vale certamente a maggior ragione per la nostra! C’è un’eccellente frase di Agostino su questo: "Se si ricercano attentamente le Scritture, esse non solo mostrano che la buona volontà dell’uomo, che prima era malvagia ed è stata resa buona da Dio e ora è diretta da lui ad azioni buone e alla vita eterna, è sotto il controllo di Dio. Dimostra che ogni volontà appartenente alla creatura presente è anche nella mano di Dio, così che Egli può dirigerla dove vuole e quando vuole, per fare del bene o anche per eseguire dei castighi secondo il suo nascosto, eppure così giusto, giudizio!" (Della grazia e del libero arbitrio, 20).

II,4,8 Ora il lettore consideri che la potenza della nostra volontà umana non deve essere giudicata dal risultato visibile, come fanno alcuni ignoranti nella loro follia. Pensano di poter dimostrare finemente e ad arte la dipendenza della volontà umana dicendo che nemmeno i più alti governanti hanno tutto secondo i loro desideri. Ma la capacità di cui abbiamo parlato va vista nell’uomo stesso, e non va misurata dal successo esterno. La disputa sul libero arbitrio non ruota intorno alla questione se l’uomo possa eseguire e far rispettare ciò che ha deciso interiormente in se stesso, anche attraverso tutti gli ostacoli esterni. Si tratta piuttosto di sapere se l’uomo ha la libera decisione nel suo giudizio e la libera forza motrice della sua volontà in qualsiasi questione. Se a questa domanda si deve rispondere in modo affermativo, allora Attilio Regolo ha tanta libertà nella sua botte stretta e inchiodata quanto Giulio Cesare, il cui occhiolino governava una buona parte del globo!


Capitolo cinque

Difesa contro le obiezioni che si è soliti sollevare in difesa del libero arbitrio.

II,5,1 Sembrerebbe che sia stato detto abbastanza sulla non-libertà della volontà umana, se non ci fossero persone che cercano di far sprofondare l’uomo nella catastrofe con la credenza superstiziosa nella sua libertà, e a questo scopo portano alcune contro-ragioni per resistere alla nostra opinione. Prima di tutto raccolgono alcune (presunte) assurdità che dovrebbero screditare questa dottrina, come se fosse contraria al senso comune. Poi, però, portano nella mischia anche testimonianze scritturali. Confuteremo entrambi i tentativi a turno. Prima di tutto, dicono che se il peccato è necessario, cessa di essere tale, ma se è volontario, può essere evitato. Ora queste erano anche le armi con cui Pelagio attaccò una volta Agostino. Ma non vogliamo caricare i nostri avversari fin dall’inizio della sua autorità prima che noi stessi abbiamo giustificato la nostra affermazione. Quindi nego che il peccato sia meno da imputare perché è necessario. E allo stesso modo contesto la loro conclusione che il peccato è evitabile perché è volontario. Perché se qualcuno vuole essere giusto con Dio e nascondersi dietro la scusa che non avrebbe potuto fare altrimenti, riceverà la risposta che abbiamo già dato: Che gli uomini siano schiavi del peccato e possano solo volere il male non è colpa della creazione, ma della corruzione della creazione! Da dove viene allora quell’incapacità, che gli empi pretendono così prontamente, se non dal fatto che Adamo si sottomise di sua spontanea volontà alla tirannia del diavolo! La peccaminosità di cui siamo incatenati deriva dal fatto che il primo uomo si è allontanato dal suo Creatore. Tutti gli esseri umani sono quindi giustamente dichiarati colpevoli di questa apostasia – e quindi non dobbiamo pensare di poterci scusare con la necessità, che è proprio la chiara ragione della nostra dannazione. Ho persino preso il diavolo stesso come esempio e ho dimostrato che chi pecca necessariamente non pecca meno volentieri per questo. Anche nel caso degli angeli eletti, c’è una volontà che è costantemente rivolta verso il bene, ma non cessa di essere una volontà! Così, come abbiamo già detto, Bernardo insegna anche abbastanza bene che siamo tanto più miserabili perché questa necessità è volontaria – e tuttavia ci tiene così saldamente sotto controllo che siamo servi del peccato (Omelie sul Cantico dei Cantici, 81). – La seconda parte della conclusione opposta è sbagliata, perché si conclude immediatamente da "volontà" a "libertà", il che non è il caso. Al contrario, abbiamo già mostrato che qualcosa può accadere volontariamente senza essere soggetto alla libera decisione.

II,5,2 Poi fanno l’obiezione: se la virtù e il vizio non nascono dalla decisione del libero arbitrio, non è giusto che vengano inflitte punizioni o date ricompense. Questa è una prova di Aristotele; ma è stata usata, lo ammetto, anche dal Crisostomo e da Girolamo qua e là. Tuttavia, era perfettamente familiare anche ai pelagiani; Girolamo non lo nega, e riporta persino le loro espressioni: "Se la grazia di Dio agisce in noi, è proprio lei che sarà incoronata, ma non noi che non creiamo nulla" (Lettera a Ctesifonte, 135 e Dialogo 1). Per quanto riguarda le punizioni, rispondo: sono giustamente imposte a noi, perché la colpa del peccato viene anche da noi. Perché cosa importa se pecchiamo con un giudizio libero o sottomesso – è fatto con il desiderio! Tanto più che l’uomo si dimostra peccatore proprio perché è sotto la schiavitù del peccato! – Per quanto riguarda la ricompensa della giustizia, dicono che è assurdo che noi confessiamo che dipende dalla bontà di Dio e non dal nostro merito. Ma quante volte Agostino ripete l’espressione che Dio non corona i nostri meriti, ma i suoi doni; ricompensa, cioè, non perché sia dovuta al nostro merito, ma perché elargisce un compenso ai doni di grazia che egli stesso ci ha elargito! Essi osservano astutamente che non ci sarebbe spazio per il merito se non scaturisse dalla fonte del libero arbitrio. Ma si sbagliano profondamente se vedono qui una così grande contraddizione. Infatti Agostino stesso insegna in tanti passi senza esitazione ciò che, secondo la loro visione, dovrebbe dichiarare indegno di merito; per esempio, dice: "Che cosa sono dunque i meriti degli uomini? Gesù non è venuto a noi con una ricompensa meritata, ma con la grazia gratuita, e così lui solo, che era libero dal peccato e reso libero, ha trovato tutti gli uomini peccatori" (Lettera 155). Oppure: "Se ricevi secondo il merito, allora devi soffrire il castigo". Quindi cosa succede? Dio non ti impone il castigo che meriti, ma ti dà la grazia immeritata. Ma se vuoi essere senza pietà, invoca i tuoi meriti!". (Sul Sal 31). O infine: "Di te stesso non sei niente. I tuoi peccati ti appartengono. Il merito è di Dio. Ciò che è giustamente tuo è una punizione. Ma se la ricompensa viene a te, Dio corona i suoi doni, ma non i tuoi meriti" (sul Sal 70). In questo senso insegna anche che la grazia non viene dal merito, ma il merito dalla grazia! E subito dopo conclude che Dio precede ogni merito con i suoi doni, per poi trarne merito; poiché non trova nulla di meritorio, dà la sua salvezza interamente per grazia (Sermone 169). Ma perché dovremmo compilare una lunga lista di queste, visto che ci imbattiamo continuamente in frasi del genere negli scritti di Agostino? Ma l’apostolo libererà molto meglio i nostri avversari dal loro errore quando sentiranno da quale fonte egli trae l’onore dei santi. "Coloro che ha scelto, li ha anche chiamati; coloro che ha chiamato, li ha anche giustificati; coloro che ha giustificato, li ha anche glorificati" (Rom 8:29 s.). Allora perché i credenti sono incoronati secondo la testimonianza dell’apostolo? (2 Tim. 4:8). Perché sono scelti, chiamati e glorificati dalla misericordia di Dio senza alcuno sforzo da parte loro! Via, quindi, con quella paura infondata che non ci sarebbe più merito se il libero arbitrio fosse liquidato. Perché è la più grande follia fuggire in preda al terrore da ciò a cui le Scritture ci chiamano! "Ma se l’hai ricevuto, cosa ti vanti, come se non l’avessi ricevuto?" dice l’apostolo (1Cor 4:7). Ovviamente, tutto è negato al nostro libero arbitrio affinché non ci sia più spazio per il merito. Ma la beneficenza e la generosità di Dio è così inesauribile e molteplice che Egli ricompensa i doni di grazia che ci concede, proprio perché li fa nostri, come le nostre stesse virtù!

II,5,3 I nostri avversari apparentemente prendono la terza obiezione dal Crisostomo: Se non è nella capacità della nostra volontà di decidere per il bene o per il male, allora o tutti gli uomini, in quanto partecipi dello stesso genere naturale, devono essere malvagi, oppure tutti devono essere buoni (23. Omelia sulla Genesi). L’autore dello scritto "Sulla chiamata dei gentili", che circola sotto il nome di Ambrogio, non è lontano da questa visione. Conclude: "Nessun essere umano si sarebbe mai allontanato dalla fede se la grazia di Dio non ci avesse lasciati mutevoli. Eppure è sorprendente che tali uomini possano dimenticare se stessi in questo modo! Perché il Crisostomo non pensava che fosse l’elezione di Dio a fare la differenza tra gli uomini (che gli mancava)? In ogni caso, vogliamo ammettere senza paura ciò che Paolo ha dimostrato con un argomento così duro, cioè che siamo tutti peccatori e soggetti alla malvagità. Ma aggiungiamo anche con lui: che sia opera della misericordia di Dio che non tutti rimangano nella corruzione! Per natura, quindi, soffriamo tutti della stessa infermità, e così solo coloro che arrivano alla salute a cui il Signore, secondo il suo buon volere, stende la sua mano guaritrice. Gli altri, che egli ha superato nel giusto giudizio, si tormentano nella loro malattia fino alla fine. Che alcuni perseverino fino alla fine, mentre altri iniziano il corso e poi cadono, deriva dalla stessa causa. Perché la perseveranza è essa stessa un dono di Dio, che egli non concede a tutti allo stesso modo, ma distribuisce a chi vuole. Se, dunque, cerchiamo la ragione di questa differenza, e chiediamo perché alcuni perseverano fermamente, e altri vacillano nell’incostanza, rimane solo una cosa: il Signore rafforza alcuni con la sua potenza, e così dà loro costanza, in modo che non periscano; gli altri sono detti esempi di incostanza, e quindi il Signore non dà loro la stessa potenza..

II,5,4 In quarto luogo, si arriva alla replica: Se il peccatore non avesse la possibilità di obbedire, tutte le esortazioni sarebbero vane, tutti gli incoraggiamenti superflui, tutti i rimproveri ridicoli! Tali obiezioni furono sollevate una volta contro Agostino, ed egli fu costretto da esse a scrivere il suo piccolo libro "Sul castigo e la grazia". Lì dà una confutazione molto estesa e poi si rivolge ai suoi avversari in sintesi così: "O uomo, vedi per il comandamento ciò che devi fare, per il castigo vedi che per la tua colpa non hai ciò che dovresti avere – e vedi con la preghiera dove ottieni ciò che vorresti avere!" L’intenzione della prova nel libro "Dello Spirito e della Lettera" è simile. Lì insegna: Dio non misura i suoi comandamenti secondo i poteri umani; ma comanda ciò che è giusto, e poi nella libera grazia dà ai suoi eletti la capacità di compierlo. Questa obiezione non richiede una lunga discussione. Perché qui non siamo solo noi ad essere attaccati, ma Cristo e tutti gli apostoli allo stesso tempo. E i nostri avversari dovrebbero vedere come prevalgono in una disputa in cui hanno a che fare con tali avversari! Cristo dice: "Senza di me non potete fare nulla" (Giov 15:5). Rimprovera dunque meno coloro che fanno il male senza di lui? Omette dunque l’esortazione che tutti facciano opere buone? Con quanta acutezza Paolo va contro i Corinzi che hanno trascurato l’amore! Eppure alla fine chiede al Signore di mettere l’amore nei loro cuori! Nella Lettera ai Romani testimonia: "Non dipende dunque dalla volontà o dalla corsa di qualcuno, ma dalla misericordia di Dio" (Rom 9,16). Ma non si astiene dall’incoraggiare, ammonire e punire! Perché allora i nostri avversari non dicono al Signore di non fare sforzi inutili esigendo dall’uomo ciò che può dare solo se stesso, o rimproverandolo, cosa che può avvenire solo in assenza della sua grazia? Perché non si rivolgono a Paolo e gli chiedono di risparmiare loro ammonizioni e rimproveri, dato che non spetta a loro "volere" o "correre" a meno che la misericordia di Dio non li preceda – cosa che a loro manca? Come se il Signore non avesse un motivo chiaro per il suo insegnamento, che è chiaro anche a chi lo chiede con pietà! Ciò che l’esortazione e la punizione di per sé possono fare per cambiare il cuore è descritto da Paolo stesso: "Non è lui che pianta, né lui che innaffia, ma il Signore che dà l’incremento…" (1Cor 3:7) Anche Mosè inculca con enfasi i comandamenti della legge, e i profeti affrontano i trasgressori con zelo e minaccia. E tuttavia confessano che l’uomo viene in sé solo quando gli viene dato un cuore comprensivo, che è opera di Dio stesso circoncidere il cuore e dare un cuore di carne invece di uno di pietra, iscrivere la Sua legge nell’uomo interiore, infine rinnovare l’anima e così dare effetto all’insegnamento!

II,5,5 Perché allora le esortazioni? Essi testimonieranno un giorno contro i malvagi, che ora li disprezzano ostinatamente, quando si tratterà del giudizio del Signore; anzi, stanno già flagellando e tormentando le loro coscienze – perché uno sciocco audace può deriderli, ma non può respingerli! Ma ci si chiede: cosa può fare un uomo così povero se l’accessibilità del cuore, indispensabile per l’obbedienza, gli rimane negata? – Certo, ma cosa farà l’uomo per trovare una via d’uscita, visto che deve incolpare se stesso per la sua durezza di cuore? Così gli empi, che per quanto possibile tengono in ridicolo tali esortazioni, che lo vogliano o no, sono gettati a terra con la loro forza. Ma la cosa più essenziale è il beneficio di tali esortazioni per i fedeli. In loro il Signore opera ogni cosa per mezzo del Suo Spirito, ma usa anche lo strumento della Sua Parola, e non senza effetto. È dunque una verità incontrovertibile che tutta la giustizia dei fedeli consiste nella sola grazia di Dio, secondo la parola del profeta: "Darò loro un cuore nuovo e cammineranno nei miei comandamenti" (Ez 11:19, 20). Ma ora qualcuno potrebbe obiettare: perché allora si ricorda ai credenti il loro dovere e non si lascia semplicemente alla guida dello Spirito? Perché sono incoraggiati dalle esortazioni quando non sono in grado di affrettarsi più di quanto lo Spirito Santo dia loro l’impulso? Perché sono puniti quando si sono smarriti, quando questa caduta è solo il risultato della necessaria debolezza della loro carne? O uomo, chi sei tu per dettare una legge a Dio? Se Dio vuole prepararci alla ricezione della grazia stessa, che ci permette di obbedire all’ammonizione, per mezzo di questa stessa ammonizione, cosa c’è da biasimare o da deridere in questo ordine? E se le esortazioni non ottenessero altro presso i pii che condannarli al peccato, non per questo sarebbero considerate del tutto inutili! Ma ora, in virtù dell’efficacia interiore dello Spirito, essi servono in modo eccellente ad accendere il desiderio del bene, a porre rimedio all’accidia, a corrompere il piacere della malvagità e la sua dolcezza avvelenata, e d’altra parte a produrre odio e disgusto contro di essa; chi li dichiarerebbe ancora superflui? Se qualcuno vuole una risposta più chiara, mi esprimo così: Dio agisce sempre nei suoi eletti in un duplice modo: interiormente attraverso il suo Spirito, esteriormente attraverso la sua Parola. Attraverso lo Spirito egli illumina la mente, porta il cuore all’amore e al rispetto della giustizia, e in questo modo fa dell’uomo una nuova creatura. Attraverso la Parola lo incita a desiderare, a cercare e a raggiungere questo rinnovamento. In entrambi egli esercita l’opera della sua mano secondo la misura che mantiene nella distribuzione dei suoi doni. Egli dà la stessa parola agli empi; qui non porta a un miglioramento, ma ha un altro effetto: è la testimonianza che già ora pesa sulle loro coscienze e li rende ancora più inescusabili nel giorno del giudizio. Cristo insegna certamente che nessuno può venire a Lui se il Padre non lo attira, e che gli eletti vengono a Lui dopo averlo ascoltato e imparato dal Padre (Giov 6,44.45). Ma Egli è giusto nella sua autorità di insegnamento e invita tutti a sé con la sua voce, anche se tutti hanno bisogno dell’insegnamento interiore dello Spirito Santo per fare qualsiasi progresso! E Paolo mostra che l’insegnamento non è inefficace nemmeno con gli empi, perché per loro è "un fetore di morte fino alla morte", "ma un buon fetore fino a Dio" (2Cor 2:16).

II,5,6 Nell’enumerazione delle testimonianze della Scrittura i nostri avversari sviluppano una vivace attività, che è così grande soprattutto perché, essendo questi passi privi di forza probatoria, essi vorrebbero perlomeno sopraffarci con il loro gran numero. Ma proprio come in battaglia, quando si arriva a una zuffa, una moltitudine numerosa ma non bellicosa, per quanto ostentata e vanagloriosa possa apparire, viene completamente gettata nella confusione e messa in fuga con pochi colpi, così sarà anche facile per noi scacciare i nostri avversari e il loro grande esercito. Ora, tutti i passi della Scrittura che essi adducono abusivamente contro di noi possono in realtà essere riassunti in pochi punti principali, e quindi, avendoli divisi in gruppi, possiamo rendere giustizia a molti di essi con una sola risposta. Non sarà quindi necessario confutarli singolarmente. Si riferiscono soprattutto ai comandamenti. Pensano che questi siano così adeguati alle nostre capacità che dobbiamo essere in grado di fare ciò che è dimostrabilmente comandato da essi. Quindi passano in rassegna i comandamenti uno per uno e poi misurano l’entità dei nostri poteri. Così facendo, dicono: o Dio si è preso gioco di noi quando esige la santità, la pietà, l’obbedienza, la castità, l’amore e la dolcezza e proibisce l’impurità, l’idolatria, la castità, l’ira, il furto, l’orgoglio e simili – oppure ha preteso solo ciò che è in nostro potere! Ora tutti i comandamenti che ammassano si possono dividere in tre gruppi. Il primo gruppo richiede la conversione a Dio, il secondo parla semplicemente di osservare la legge, il terzo ci dice di perseverare nella grazia di Dio che abbiamo ricevuto. Parleremo prima di tutti e tre i tipi insieme e poi passeremo attraverso le tre elaborazioni individualmente. Il tentativo di determinare le capacità dell’uomo nella loro misura secondo i comandamenti della legge divina è in uso da molto tempo, e ha anche una parvenza di verità, ma tuttavia deriva da una grossolana ignoranza della legge. I nostri avversari considerano un terribile sacrilegio dire che l’adempimento della legge è impossibile; mirano alla prova "eclatante": in questo caso la legge sarebbe data invano! Parlano come se Paolo non avesse mai detto nulla sulla Legge! Qual è il significato di affermazioni come: la legge è stata aggiunta a causa della trasgressione (Gal 3,19), attraverso la legge viene la conoscenza del peccato (Rom 3,20), la legge suscita il peccato (Rom 7,7 ss.), è stata aggiunta perché il peccato diventasse più potente (Rom 5,20)? Possiamo dire che Dio ha dovuto adattare la legge alle nostre forze perché non fosse data invano? No, va ben oltre i nostri poteri, proprio per renderci consapevoli della nostra impotenza! Certamente, secondo la descrizione di Paolo, il fine e il compimento della legge è l’amore (1Tim 1:5). Ma esprime anche la preghiera che i cuori dei Tessalonicesi siano pieni di amore (1Ti 3:12), rendendo chiaro che la legge suona nelle nostre orecchie senza effetto se Dio non rende vivo tutto il suo contenuto nei nostri cuori.

II,5,7 Se le Scritture non insegnassero altro che la legge è la guida della nostra vita, secondo la quale dobbiamo dirigere tutto il nostro zelo, anch’io sottoscriverei senza esitazione l’opinione dei miei avversari. Ma le Scritture ci spiegano in modo completo e chiaro un’applicazione multipla della legge, e quindi dobbiamo riconoscere dalla loro interpretazione ciò che la legge fa nell’uomo. Per quanto riguarda la nostra domanda, da un lato la Scrittura ci dice cosa dobbiamo fare, e dall’altro ci insegna allo stesso tempo che il potere di obbedire viene dalla bontà di Dio, e ci chiama alla preghiera, attraverso la quale dobbiamo chiedere tale dono. Se ci fosse solo il comando e nessuna promessa, dovremmo mettere alla prova le nostre forze per vedere se sono sufficienti per eseguire il comando. Ma i comandamenti sono effettivamente connessi con le promesse che ci chiamano che l’aiuto della grazia divina non solo ci darà sostegno, ma tutta la forza; e queste stesse promesse quindi ci testimoniano più che abbastanza che siamo troppo deboli, anzi del tutto incapaci, per osservare la legge. Perciò, che nessuno ora pretenda che la nostra forza sia secondo la misura dell’esigenza della legge, come se il Signore avesse misurato lo standard di giustizia che voleva dare nella legge secondo la misura della nostra debolezza! Piuttosto, dobbiamo imparare dalle promesse quanto siamo incapaci di noi stessi, poiché siamo così bisognosi della grazia di Dio sotto ogni aspetto! Ma uno ribatte: chi può supporre che il Signore abbia ordinato la sua legge per tronchi e pietre? Infatti, nessuno vuole crederci! Perché né gli empi sono pietre o tronchi – la legge, del resto, li condanna che i loro desideri sono diretti contro Dio, e quindi sono colpevoli secondo la loro stessa testimonianza – né lo sono i pii, quando, consci della loro impotenza, si rifugiano nella grazia! Qui appartengono anche alcuni detti pesanti di Agostino. "Dio comanda ciò che noi non possiamo, affinché possiamo sapere cosa dobbiamo chiedergli" (Della grazia e del libero arbitrio, 116). "Grande è l’uso dei comandamenti, quando si dà così tanto al libero arbitrio che la grazia di Dio sia più onorata" (Lettera 167). "La fede ottiene ciò che la legge richiede" (Manuale, 117), "sì, quindi la legge richiede, che la fede ottenga ciò che era richiesto dalla legge; la fede stessa Dio la richiede da noi, e non troverà ciò che cerca se non dà egli stesso ciò che vuole trovare" (Sermoni su Giovanni, 32). "Dio dà ciò che comanda, e poi può comandare ciò che vuole" (Confessioni, 10).

II,5,8 Tutto questo può essere visto più chiaramente considerando i tre tipi di comandamenti che abbiamo brevemente toccato sopra. (1.) Il Signore comanda spesso nella Legge come nei Profeti di rivolgersi a Lui (Gioele 2:12; Ez 13:30-32; Os 14:2 s.). Ma dall’altra parte, il profeta sospira: "Convertimi, o Signore, e mi convertirò; quando mi sono convertito, mi sono pentito…" (Ger 31:18 s.). Egli ci comanda anche di circoncidere il prepuzio del nostro cuore (Deut 10:16); ma attraverso Mosè proclama che tale circoncisione è fatta dalla sua mano! (Deut 30:6). Spesso esige il rinnovamento del cuore – ma in un luogo testimonia che ce lo darà lui stesso! (Ez 36:26). "Ma ciò che Dio ha promesso", dice Agostino, "non lo facciamo noi stessi della nostra volontà o natura, ma lo fa Lui stesso con la sua grazia!". (Della grazia di Cristo e del peccato originale, I,30 s.). E tra le regole di Ticonio, egli elenca anche al quinto posto l’osservazione che dovremmo fare una sottile distinzione tra legge e promessa, comandamento e grazia (Of Christian Instruction, III,33). Via, dunque, coloro che vogliono concludere dai comandamenti che l’uomo è in qualche modo qualificato per l’obbedienza; lo fanno solo per annullare la grazia di Dio, che compie i comandamenti stessi! (2.) Al secondo tipo appartengono i comandamenti ordinari, in cui ci viene comandato di adorare Dio, di essere servili alla sua volontà e di aderirvi, di osservare ciò che gli è gradito e di seguire il suo insegnamento. Ma innumerevoli passaggi testimoniano anche che qualsiasi rettitudine, santità, pietà e purezza si possa avere è un Suo dono! (3.) Al terzo gruppo appartengono le esortazioni che Paolo e Barnaba, secondo il racconto di Luca, danno ai credenti, cioè che devono perseverare nella grazia di Dio (Atti 13:43). Ma lo stesso Paolo mostra anche in un altro luogo da dove si dovrebbe chiedere la forza per tale costanza. "Infine, fratelli miei, siate forti nel Signore e nella potenza della sua forza…" (Efes 6,10) E in un altro luogo ci proibisce di rattristare lo Spirito del Signore, con il quale siamo "sigillati per il giorno della nostra redenzione" (Efes 4,30). Ma ciò che esige non può essere fatto dagli uomini, e così chiede al Signore a nome dei Tessalonicesi di "renderli degni della loro santa chiamata e di compiere in loro ogni buon proposito della sua bontà e l’opera della fede" (2 Tess 1:11). Allo stesso modo, nella seconda lettera ai Corinzi, dove parla dei doni dell’amore, loda spesso la pietà e la buona volontà della congregazione, ma poi ringrazia subito Dio che aveva messo nel cuore di Tito di ammonirli (2Cor 8:11, 16). Se Tito non poteva nemmeno mettere la sua bocca in servizio per esortare gli altri senza che Dio lo spingesse a farlo, come avrebbero potuto gli altri diventare disposti ad agire senza che Dio stesso inclinasse i loro cuori?

II,5,9 Ma tutte queste testimonianze della Scrittura i nostri avversari nella loro falsità dichiarano che sono insufficienti; pensano che non c’è nulla che ci impedisca di metterci i nostri sforzi e che Dio poi presti sostegno ai nostri deboli tentativi. Portano persino dei passi dei profeti, dove l’avvento della nostra conversione sembra essere diviso tra Dio e noi. Per esempio, "Volgiti a me e io mi volgerò a te" (Zac 1:3). Il tipo di aiuto che il Signore ci dà è già stato discusso sopra e non ha bisogno di essere ripetuto qui. Solo una cosa deve essere concessa: che è vano cercare di trovare nell’uomo la capacità di adempiere la legge perché il Signore esige da noi l’obbedienza. Perché è certo che la grazia del Legislatore stesso è necessaria per l’adempimento di tutti i comandamenti di Dio – e che questa stessa grazia è promessa a noi! Se questo è ammesso, è almeno chiaro che ci viene richiesto più di quanto siamo in grado di fare. Per quanto astutamente si possa fingere, le parole di Geremia non possono essere sciolte, secondo le quali il patto che era stato fatto una volta con il vecchio popolo è diventato nullo, perché esisteva solo in lettere – mentre il nuovo patto entra in vigore solo quando viene aggiunto lo Spirito che porta i cuori all’obbedienza (Ger 31,32 ss.). Anche il detto: "Volgiti a me e io mi volgerò a te" non può sostenere il punto di vista dei miei avversari. Perché non parla del rivolgersi di Dio a noi, in cui rinnova i nostri cuori al giusto pentimento, ma dell’altro, in cui si mostra benevolo e disponibile mandandoci tempi felici, così come a volte mostra il suo dispiacere attraverso la sventura. Poiché il popolo, afflitto da ogni tipo di miseria e di angoscia, si lamenta che Dio si è allontanato da loro, egli risponde che la sua bontà non mancherà se si rivolgeranno alla giustizia della vita e a colui che è l’archetipo della giustizia. È quindi una cattiva distorsione del testo interpretarlo in modo tale che l’opera di conversione sembra essere fatta per metà da Dio e per metà dall’uomo! Abbiamo potuto toccarlo più brevemente perché questa indagine in realtà appartiene più alla dottrina della Legge e quindi dovrebbe essere trattata anche lì.

II,5,10 Strettamente legato a questa prima prova degli avversari è il secondo gruppo di prove scritturali. Sono promesse in cui il Signore fa un contratto con la nostra volontà. Per esempio, "Cercate il bene e non il male, e vivrete" (Am. 5:14). "Se mi obbedirete, godrete del bene del paese; ma se vi rifiutate e disobbedite, sarete divorati dalla spada; poiché la bocca del Signore lo dice" (Isa 1:19, 20). "Se allontani le tue abominazioni dalla mia presenza, non sarai scacciato" (Ger 4:1). "Se obbedirai alla voce del Signore tuo Dio, per osservare e mettere in pratica tutti i suoi comandamenti, il Signore tuo Dio ti farà supremo su tutte le nazioni della terra" (Deut 28:1). Ci sono anche altri passaggi, come Lev 26:3f s. Uno ora pensa: tutti questi benefici che Dio offre nelle sue promesse sono solo attaccati alla nostra volontà in uno strano scherno e derisione, se non abbiamo la capacità di appropriarcene o di respingerli da noi! E questo può certamente essere esteso alle lamentele loquaci che siamo crudelmente ingannati dal Signore quando proclama che i suoi benefici dipendono dalla nostra volontà, – quando la nostra volontà non è affatto in nostro potere! Sarebbe davvero una gloriosa generosità da parte di Dio, se ci offrisse i suoi benefici in modo tale che non potessimo goderne affatto! Sarebbe una strana certezza delle sue promesse se dipendessero da una condizione irrealizzabile, per cui non si realizzerebbero mai! Dovremo parlare di tali promesse, a cui è legata una condizione, in un altro luogo. Lì diventerà anche chiaro che non c’è nulla di assurdo nell’impossibilità di soddisfare queste condizioni. In questo caso nego che Dio si prenda crudelmente gioco di noi quando ci chiede di guadagnare i suoi doni, quando sa quanto siamo totalmente incapaci. Perché queste promesse sono date ai credenti nello stesso momento in cui sono date ai non credenti, e hanno un effetto del tutto diverso sui due. Perché, come Dio scuote le coscienze degli empi con i suoi comandamenti, in modo che non si sentano troppo a loro agio nei loro peccati – e senza il ricordo del giudizio di Dio lo farebbero dopo tutto! – Egli testimonia loro con le sue promesse quanto siano indegni della sua bontà! Perché chi non riterrebbe più giusto e appropriato al mondo che il Signore sia gentile con coloro che lo venerano, e che si vendichi con tutta la severità contro i disprezzatori della sua maestà? Perciò Dio agisce in modo giusto e ordinato quando fa conoscere nelle sue promesse ai malvagi, che giacciono legati nelle catene del peccato, la condizione che riceveranno i suoi benefici solo quando si asterranno dalla malvagità; se non altro perché si rendano conto: sono giustamente separati da ciò che appartiene ai veri adoratori di Dio! D’altra parte, usa molti mezzi per far sì che i fedeli chiedano la sua grazia; e lì non è affatto insensato se cerca di fare con le sue promesse ciò che evidentemente fa con i suoi comandamenti con molto buon effetto su di noi. Attraverso i comandamenti impariamo la volontà di Dio e ci viene così ricordata la nostra miseria, poiché ci opponiamo con tutto il cuore a questa volontà. Allo stesso tempo, siamo anche spinti ad invocare il suo Spirito perché ci guidi sulla strada giusta. Ma i comandamenti non sono ancora sufficienti a turbarci nella nostra comodità, e allora si aggiungono le promesse, che in un certo senso ci fanno desiderare i comandamenti per la loro dolcezza! Ma più forte è il nostro desiderio di giustizia, più cerchiamo la grazia di Dio. Con tali richieste: "Se vuoi" o "Se senti", il Signore non ci attribuisce la libera capacità di volere o di sentire, ma nemmeno ci rende ridicoli di fronte alla nostra impotenza!

II,5,11 Anche il terzo gruppo (di presunte prove scritturali degli avversari) ha molto in comune con i primi due. Portano dei passi in cui Dio rimprovera il suo popolo ingrato, dicendo che solo loro sono da biasimare se non hanno ricevuto ogni tipo di bene dalla sua bontà. Questi includono i seguenti passaggi. "Gli Amaleciti e i Cananei sono là davanti a voi, e voi cadrete di spada, perché vi siete allontanati dal Signore" (Num 14:43). "Poiché vi ho chiamato e non avete risposto, farò a questa casa come ho fatto a Shiloh" (Ger 7,13 s.). "Questo è il popolo che non ha voluto ascoltare il Signore, il suo Dio, né emendarsi, … per questo è stato respinto dal Signore" (Ger 7,28 s.). "Poiché avete indurito i vostri cuori e non avete voluto obbedire al Signore, tutti questi mali sono venuti su di voi" (Ger 5:3; Vulgata). Ora gli oppositori dicono: come possono essere appropriati tali rimproveri nei confronti di un popolo che potrebbe immediatamente rispondere: "Il nostro benessere ci era davvero molto caro, e temevamo la sventura; ma il fatto che noi, per diventare felici ed evitare la catastrofe, non abbiamo obbedito al Signore né ascoltato la sua voce – questo è perché siamo soggetti al dominio del peccato e non eravamo liberi di fare ciò che era stato comandato! Perciò il male ci viene rimproverato senza motivo, perché non era in nostro potere evitarlo". Ma passerò sopra a questa evasione, che invoca la necessità del peccato, perché è solo una scusa inutile e superficiale. Voglio solo chiedere se queste persone possono davvero spostare la colpa da se stesse. Perché se sono colpevoli, il Signore li rimprovera, non senza motivo, che è il risultato della loro cattiva condotta se non hanno gustato il frutto della sua bontà. Mi rispondano dunque se possono negare che la causa della loro ostinazione è stata la loro stessa cattiva volontà! Ma se trovano la fonte del male in se stessi, perché cercano così diligentemente le cause esterne, per non apparire essi stessi come l’autore della propria rovina? Se è vero che il peccatore perde i doni divini per sua colpa, non per colpa di altri, e cade sotto il castigo di Dio, allora c’è davvero una ragione sufficiente per sentire tali rimproveri dalla bocca di Dio. Perché se gli uomini vanno ostinatamente avanti per la loro strada, dovrebbero imparare nell’avversità ad accusare e biasimare la propria cattiveria, invece di accusare calunniosamente Dio di ingiusta severità. Se, tuttavia, sono ancora ragionevolmente trattabili, lasciate che il dispiacere del peccato, dal quale si vedono sprofondare nella miseria e nella rovina, si abbatta su di loro, e così ritornino sulla retta via e in tal modo riconoscano da soli in seria confessione ciò che il Signore richiama alla mente nei suoi rimproveri! Le suddette parole di rimprovero dei profeti servivano effettivamente a questo scopo per i pii, come è evidente dalla gloriosa preghiera che ci viene tramandata nel nono capitolo del Libro di Daniele. L’effetto descritto per primo lo vediamo nell’esempio degli ebrei, ai quali Geremia, per ordine di Dio, doveva indicare la causa di tutte le loro disgrazie, anche se gli eventi non dovevano avvenire diversamente da come il Signore aveva predetto! "Direte loro tutte queste cose e non vi ascolteranno; li chiamerete e non vi risponderanno!". (Ger 7:27; non il testo di Lutero). Per cosa si canta qui il sordo? Devono rendersi conto, senza e contro la loro volontà, che ciò che hanno sentito è vero dopo tutto, che è una bestemmia sacrilega se attribuiscono a Dio la colpa della loro cattiveria, che in fondo sta in loro stessi! Con queste poche confutazioni, si può allontanare tutta la moltitudine di testimonianze scritturali che i nemici della grazia di Dio ammassano così assiduamente per l’erezione di un idolo del libero arbitrio dai comandamenti così come dalle minacce contro i trasgressori della legge. In modo riprovevole si dice degli ebrei nel Sal 78: "Una specie apostata e disobbediente, alla quale il loro cuore non era saldo…" (Sal 78,8) E in un altro Sal il profeta ammonisce la gente del suo tempo a non indurire i loro cuori (Sal 95,8) – perché l’uomo stesso è da biasimare per tutta la testardaggine nella sua malvagità! Ma sarebbe sciocco concludere che il cuore possa girare da entrambe le parti, quando solo Dio lo prepara! Il profeta dice: "Io inclino il mio cuore a fare secondo i tuoi giudizi" (Sal 119:112), perché si è dato volentieri e con gioia al servizio di Dio. Ma con questo non pretende di essere lui stesso l’autore della sua volontà, ma confessa nello stesso Sal che questo è un dono di Dio (Sal 119,36). Perciò dobbiamo seguire le parole di Paolo, che esorta i credenti: "Operate la salvezza con timore e tremore, perché è Dio che opera sia il volere che il fare" (Fili 2:12, 13). Qui attribuisce loro una parte nell’opera, in modo che non cedano il posto alla carne nella sua pigrizia; ma allo stesso tempo comanda loro di temere e tremare e li umilia in modo tale che si ricordino: questa, che essi stessi sono comandati a fare, è in realtà l’opera propria di Dio. Egli dichiara così espressamente che i credenti sono, per così dire, passivamente attivi, poiché la capacità di agire è data loro dal cielo, in modo che non presumano nulla per se stessi! Quando Pietro ci esorta a "presentare la virtù nella fede" (2 Pt. 1,5), non ci attribuisce la capacità di assumere il secondo ruolo nell’azione a fianco di Dio, ma vuole solo disturbarci dalla comodità della carne, in cui anche la fede è spesso soffocata. Le parole di Paolo, "Non smorzare lo spirito" (1 Tess 5:19), hanno la stessa intenzione, perché spesso la pigrizia arriva anche sui credenti quando non viene respinta. Ma se qualcuno vuole trarre la conclusione che spetta al libero arbitrio dei credenti mantenere la luce che viene offerta, allora questo modo ignorante di parlare può essere facilmente respinto: perché questo zelo che Paolo richiede viene solo da Dio! (2Cor 7:1). Ci viene anche spesso detto di purificarci da ogni impurità, sebbene lo Spirito abbia riservato per sé l’ufficio della santificazione! Infine, le parole di Giovanni: "Chi è nato da Dio conserva se stesso" (1Gio 5:18) mostrano chiaramente che qualcosa che appartiene a Dio di per sé è trasferito a noi per una concessione speciale (da parte di Dio). La parola di Giov è usata dagli araldi del libero arbitrio – come se tale conservazione fosse in parte del potere di Dio e in parte del nostro, come se non avessimo questa stessa conservazione menzionata dall’apostolo dal cielo! Ecco perché Cristo chiede anche al Padre di preservarci dal male (Giov 17:15); e i pii, come sappiamo, non ottengono la vittoria nella loro guerra contro Satana in altro modo che con le armi di Dio! Anche Pietro comanda: "Purificate le vostre anime nell’obbedienza alla verità" (1Piet 1,22) – ma poi, per evitare ogni malinteso, aggiunge: "Per mezzo dello Spirito"! Giov mostra brevemente come tutti i poteri umani non sono niente nella battaglia spirituale quando dice che tutto ciò che è nato da Dio non può peccare perché il seme di Dio rimane in esso (1Gio 3:9)! Più tardi ne darà la ragione: "Perché la nostra fede è la vittoria che ha vinto il mondo" (1Gio 5,4).

II,5,12 Ma ora viene data una testimonianza dalla Legge di Mosè che sembra contraddire fortemente la mia affermazione. Infatti Mosè, dopo aver dato la legge, dichiara al popolo: "Il comandamento che oggi ti comando non ti è nascosto, non è lontano, non è in cielo; ma è vicino a te, nella tua bocca e nel tuo cuore, affinché tu lo faccia". (Deut 30:11, 12, 14). Se dobbiamo supporre che stiamo parlando qui dei semplici comandamenti, ammetto che il passaggio è di non poca importanza per la nostra questione. Non sarebbe difficile mettere da parte il passo, perché non parla della capacità e dell’inclinazione ad obbedire ai comandamenti, ma solo della conoscenza di essi. Anche allora, naturalmente, potrebbero sorgere dei dubbi. Ma l’apostolo mette chiaramente fine a tutti i dubbi: afferma che Mosè sta parlando dell’insegnamento del vangelo! (Rom 10,8). Ora, naturalmente, una testa recalcitrante potrebbe sostenere che Paolo ha raggiunto questo rapporto con il vangelo solo trattando il testo con violenza. Sebbene sia un segno di empietà quando qualcuno fa un’affermazione così audace, c’è anche la possibilità di confutarlo senza appellarsi all’autorità dell’apostolo. Se Mosè parlasse solo dei comandamenti, dovrebbe ispirare al popolo una vana fiducia in se stesso! Perché sarebbero certamente caduti nell’abisso se si fossero impegnati a osservare la legge con le proprie forze, come se fosse un’inezia! Ma dov’è la presunta facilità di adempiere la Legge se non c’è alcun accesso senza una caduta rovinosa? Quindi, è assolutamente certo che Mosè si riferisce all’alleanza di misericordia, che aveva annunciato insieme alla proclamazione della Legge! Egli aveva anche insegnato pochi versi prima che è necessaria la circoncisione dei nostri cuori per mano di Dio per poterLo amare (Deut 30:6). Egli ha quindi basato la facilità di cui ha parlato subito dopo, non sul potere dell’uomo, ma sull’aiuto e la protezione dello Spirito Santo, che fa la sua opera con potenza nella nostra debolezza! Tuttavia, il passaggio non deve essere inteso come se parlasse semplicemente dei comandamenti, ma piuttosto come se parlasse delle promesse del vangelo, che non stabiliscono una tale capacità di raggiungere la giustizia in noi, ma piuttosto la rovesciano dal basso! Paolo ora sottolinea che la salvezza non ci viene offerta nel vangelo in condizioni così dure e difficili come ci impone la legge, secondo la quale solo chi ha adempiuto tutti i comandamenti ottiene la salvezza, ma piuttosto facilmente e liberamente e su una via lastricata – e lo afferma con quella parola (in Rom 10). Questa testimonianza non può essere usata per difendere la libertà della volontà umana.

II,5,13 In quarto luogo, ci vengono proposte alcune parole, secondo le quali Dio talvolta ritira il suo aiuto di grazia agli uomini, per metterli alla prova e vedere dove dirigeranno i loro sforzi. Così sentiamo in Osea: "Tornerò al mio posto finché non riconosceranno la loro colpa e cercheranno il mio volto" (Os 5:15). Si dice: "Sarebbe ridicolo se il Signore volesse vedere se Israele cercherà il suo volto, quando il cuore non può voltarsi e quindi non può inclinarsi da nessuna parte per propria decisione! Come se Dio non apparisse sempre nei profeti per disprezzare e rifiutare il suo popolo fino a che non migliorasse la sua vita! Ma quali conclusioni vogliono trarre i nostri avversari di tutto il mondo da queste minacce? Se vogliono dire che il popolo abbandonato da Dio può pensare al pentimento di propria iniziativa, hanno tutta la Scrittura contro di loro! Ma se ammettono che la grazia di Dio è necessaria per il pentimento, perché discutono con noi? Ma da una parte ammettono che la grazia è necessaria – e tuttavia dall’altra vogliono preservare la libertà dell’uomo! Ma come lo dimostrano? Certamente non da questo passaggio, né da altri simili del loro genere! Perché è ben diverso se Dio si ritira dall’uomo e poi osserva ciò che egli, lasciato a se stesso, crea effettivamente, o se gli presta il suo "aiuto" per "sostenere" le sue deboli forze! Ma ora qualcuno potrebbe chiedere: ma che senso hanno queste frasi? Rispondo: significano la stessa cosa che se Dio dicesse: ora non ho ottenuto nulla con questo popolo nella sua testardaggine ammonendolo, incoraggiandolo e rimproverandolo, quindi mi ritiro un po’, lascio che sia sfidato – e taccio su questo! Osserverò e vedrò se un giorno, dopo un lungo travaglio, si ricorderanno di me e cercheranno il mio volto. Perché questo lasciare da parte il Signore significa togliere la profezia. E questo "guardare cosa faranno gli uomini" significa che egli mette alla prova il popolo silenziosamente e, per così dire, mascherandosi con molte tribolazioni. Entrambe queste cose le fa per umiliarci di più; perché sotto i colpi dell’avversità siamo molto più propensi ad essere schiacciati che sistemati, a meno che Dio non ci insegni per mezzo del suo Spirito. Se poi il Signore, offeso dalla nostra ininterrotta ostinazione e, per così dire, stanco di lui, ci lascia andare per un po’ di tempo togliendoci la sua parola, nella quale egli è, per così dire, solito starci vicino, e ci mette alla prova su ciò che faremmo senza la sua presenza, – è del tutto errato dedurre da qui qualsiasi potere di libero arbitrio che si suppone egli possa accertare o testare. Perché lui fa tutto questo solo per portarci alla conoscenza del nostro nulla!!

II,5,14 In quinto luogo, viene portato contro di noi un modo di parlare costante, che può essere osservato nella Scrittura così come nella conversazione umana ordinaria: le buone opere sono chiamate "nostre" opere, e se qualcosa è santo e gradito agli occhi del Signore, siamo considerati come i "facitori" tanto quanto sembriamo essere i "facitori" del peccato. Ma se le opere peccaminose sono giustamente imputate a noi, perché sono fatte da noi, dobbiamo anche avere una parte nelle opere buone per la stessa ragione. Perché non sarebbe ragionevole attribuirci il compimento di opere che non saremmo in grado di fare di nostra iniziativa, ma alle quali dovremmo essere messi in moto come pietre da Dio. Certamente, dobbiamo attribuire la prima parte alla grazia di Dio, ma l’uso stesso del linguaggio di cui sopra mostra che anche noi facciamo la nostra parte almeno al secondo posto. (Alla faccia dell’obiezione avversaria!) Se ai nostri avversari interessasse solo che le buone opere siano chiamate "nostre" opere, risponderei che anche il pane che chiediamo a Dio è chiamato "nostro" pane! Cos’altro si deve dedurre dalla parola "nostro" se non che qualcosa a cui non abbiamo alcun diritto diventa "nostro" attraverso la bontà e il dono gratuito di Dio? Perciò, o si deve ridere di questa richiesta ("il nostro" pane quotidiano dacci oggi) nella preghiera del Signore come assurda – oppure non trovare nulla di sgradevole nel fatto che le buone opere, in cui abbiamo qualcosa solo attraverso la gentile concessione di Dio, sono chiamate "nostre" opere! Più conclusiva è l’osservazione che la Scrittura spesso afferma che noi adoriamo Dio, manteniamo la giustizia, obbediamo alla legge e ci sforziamo di fare buone opere. (Questi sono i doveri propri della mente e della volontà, e come potrebbe essere possibile che essi siano riferiti allo Spirito Santo da una parte e siano attribuiti a noi dall’altra – se non ci fosse un terreno comune tra il nostro sforzo e la potenza di Dio? Ma possiamo facilmente evitare queste obiezioni se prestiamo attenzione al modo in cui lo Spirito del Signore fa la sua opera nei credenti. La somiglianza che ci viene rinfacciata è solo esteriore: chi sarebbe così sciocco da non riconoscere la differenza tra l’impulso di un uomo e il lancio di una pietra? Una cosa del genere non può in alcun modo essere dedotta dal nostro insegnamento. Tra le facoltà naturali dell’uomo contiamo: Riconoscere, rifiutare, volere e non volere, lottare e resistere – cioè riconoscere la vanità, rifiutare ciò che è giusto e buono, volere il male, non volere il bene, lottare per la malvagità, resistere alla giustizia! Come agisce il Signore? Se usa tale depravazione come strumento della sua ira, la guida e la dirige dove vuole, per compiere la sua opera buona con una mano malvagia! Vogliamo ora paragonare un tale uomo vizioso, che in questo modo diventa utile al potere di Dio, anche se durante questo tempo egli stesso cerca solo di soddisfare la propria lussuria, con una pietra che è messa in movimento dal lancio di qualcun altro, ma è essa stessa portata senza movimento, senza movimento, senza volontà? Possiamo vedere quanto sia grande la differenza! Ma che dire dei buoni, di cui stiamo parlando qui in particolare? Quando Dio ha stabilito il Suo regno in un uomo, Egli trattiene la nostra volontà per mezzo del Suo Spirito, in modo che egli non sia stravolto dai suoi desideri secondo la sua inclinazione naturale; e affinché egli possa raggiungere la santità e la rettitudine, Egli lo dirige, lo conforma, lo forma e lo giudica secondo la guida della Sua giustizia; e affinché egli non possa infine vacillare e cadere, Egli lo rafforza e lo fortifica con la potenza del Suo Spirito! Per questo Agostino dice: "Vuoi dire: siamo così lavorati e non lavoriamo noi stessi! Sì, si lavora e si è lavorati, e si lavora bene quando si è lavorati dal bene! Lo Spirito di Dio, che ti spinge, è un aiutante in colui che lavora; ma il nome ’aiutante’ implica che anche tu lavori qualcosa!". (Sermone 156). Nella prima parte, ci ricorda che l’attività dell’uomo non è annullata dall’impulso dello Spirito, perché l’uomo ha per natura la volontà che è diretta a cercare il bene (quia a natura est voluntas, quae regitur, ut ad bonum aspiret). Quando poi aggiunge che il termine "aiuto" implica che anche noi lavoriamo qualcosa, questo non significa che ci attribuisca qualcosa in noi stessi; solo non vuole sostenere la nostra comodità e mette insieme l’opera di Dio con la nostra in modo tale che la nostra volontà è per natura, ma la nostra giusta volontà viene dalla grazia. In questo senso aveva detto poco prima che senza l’aiuto di Dio non solo non potremmo conquistare, ma non potremmo nemmeno combattere.

II,5,15 La grazia di Dio – nel senso in cui l’espressione è usata nella dottrina della rigenerazione – serve evidentemente allo Spirito come guida per la direzione e il governo della volontà umana. Ma può regnare solo se rettifica, rifà, rinnova – ecco perché diciamo che l’inizio della rinascita si vede nel mettere via ciò che è nostro! – e se allo stesso tempo si muove, lavora, guida, porta e tiene! Perciò diciamo giustamente che tutti gli effetti che ne derivano sono davvero suoi. Tuttavia, non neghiamo la correttezza dell’affermazione di Agostino che la volontà non è distrutta dalla grazia, ma piuttosto restaurata. Perché le due cose sono abbastanza compatibili: da un lato, si dice che la volontà è restaurata, in quanto la sua corruzione e la sua perversità sono rimosse ed essa è così condotta alla giusta norma di giustizia. Eppure, dall’altra parte, si deve dire: la volontà si ricrea, perché è così corrotta e perversa che deve assumere una natura completamente nuova. Quindi non c’è nessun ostacolo a dire che noi facciamo realmente (rito) ciò che lo Spirito Santo opera in noi, anche se la nostra volontà non fa nulla di per sé che possa essere separato dalla grazia dello Spirito Santo. Per questo non dobbiamo mai dimenticare ciò che abbiamo già citato sopra da Agostino: che è uno sforzo vano se alcune persone si tormentano sempre per trovare nell’uomo qualcosa di buono che gli è proprio. Perché tutte le misture che gli uomini cercano di mettere sulla grazia di Dio con la forza del loro libero arbitrio non sono che adulterazioni di essa, proprio come se qualcuno volesse mescolare acqua sporca e amara con il vino! Ciò che è buono nella nostra volontà viene puramente dall’impulso dello Spirito; ma poiché la volontà è innata in noi per natura, non è improprio dire che noi stessi facciamo l’opera, anche se Dio giustamente si riserva la lode per questo. Perché, in primo luogo, ciò che egli opera in noi è nostro per la sua bontà, solo che non dobbiamo considerarlo nostro. E in secondo luogo, è il nostro intelletto, la nostra volontà e le nostre aspirazioni che sono guidate da Lui per il bene!

II,5,16 Ciò che i nostri oppositori ora racimolano qua e là a titolo di testimonianza non deve quasi disturbare anche le persone meno abili, se hanno solo assorbito le confutazioni date sopra. Così citano la frase della Genesi: "La loro lussuria ti sarà sottomessa e tu dominerai su di loro" (Gen 4:7; non è il testo di Lutero). Poi riferiscono questo passaggio al peccato, come se il Signore avesse promesso a Caino che il peccato non avrebbe regnato nel suo cuore se solo si fosse sforzato di domarlo. Tuttavia, secondo il contesto, pensiamo che sia più appropriato riferire il passaggio ad Abele. L’intenzione di Dio qui è di rimproverare l’ingiusta invidia di Caino verso suo fratello. Lo fa in due modi. In primo luogo, gli dice che sarebbe vano per lui pensare di stare più in alto di suo fratello davanti a Dio facendo un’azione malvagia, perché davanti a Dio non c’è onore se non quello che viene dalla giustizia. E in secondo luogo, gli mostra quanto sia ingrato verso Dio, visti i benefici già ricevuti, se non riesce a sopportare il fratello anche quando è soggetto al suo dominio. Ma non deve sembrare che applichiamo questa interpretazione solo perché quella opposta non si adattava alla nostra prova. Ammettiamo allora che Dio ha effettivamente parlato di peccato qui. Se è così, allora ciò che il Signore dice è una promessa o un comando. Se si tratta di un comandamento, allora è già chiaro dal nostro ragionamento precedente che non ne consegue alcuna prova della capacità dell’uomo. Se si tratta di una promessa, dove si è adempiuta, dal momento che Caino, che doveva regnare sul peccato, ne è effettivamente soggetto? Ma si dirà che la promessa includeva una condizione tacita, come se volesse dire: Avrai la vittoria – se combatti! Ma chi approverà queste scuse? Perché se questo "comandare" si riferisce al peccato, allora è senza dubbio da prendere come un comando; questo, naturalmente, non dice ciò che siamo effettivamente in grado di fare, ma ciò che dobbiamo effettivamente fare – anche se va oltre le nostre forze. Qui, tuttavia, il racconto stesso e anche la regola grammaticale richiedono l’assunzione di un confronto tra Caino e Abele, in quanto il fratello maggiore non sarebbe mai stato subordinato al minore se non si fosse posto sotto di lui con il proprio misfatto.

II,5,17 Ci si riferisce anche alla testimonianza dell’apostolo (Paolo) che dice: "Non dipende dunque dalla volontà o dall’azione di nessuno, ma dalla misericordia di Dio" (Rom 9,16). Da questo si deduce che c’è qualcosa nella nostra volontà e nei nostri sforzi che è debole di per sé, ma che può giungere a un buon fine con l’aiuto della misericordia di Dio. Tuttavia, se uno avesse considerato sobriamente che tipo di questione Paolo sta trattando in questo passaggio, non avrebbe usato il passaggio in modo così disinvolto. So bene che gli avversari possono riferirsi a Origene (Commento all’Epistola ai Romani, Libro VII) e a Girolamo (Dialoghi contro i Pelagiani, 1) come aiuti alla prova. D’altra parte, potrei poi citare Agostino contro di loro. Tuttavia, non importa cosa volevano dire questi uomini, se l’intenzione di Paolo è chiara! Egli insegna qui che la salvezza è preparata solo per coloro che il Signore ha scelto per essere degni della sua misericordia, ma per coloro che non ha scelto rimane solo il crollo e la rovina. Il destino dei rifiutati è stato reso chiaro dall’esempio del Faraone. Ha anche confermato la certezza dell’elezione benevola con la testimonianza di Mosè: "Su chi ho misericordia, ho misericordia" (Rom 9,15; Es 33,19). Poi conclude: "Allora, non dipende dalla volontà o dalla corsa di qualcuno, ma dalla misericordia di Dio!". Se questo viene preso per significare che la volontà e lo sforzo sono insufficienti perché non sono in grado di far fronte a un tale peso, allora Paolo si sarebbe espresso in modo molto poco appropriato. Quindi, continua con il sofisma: "Non dipende dalla volontà o dalla corsa di qualcuno – quindi ci deve essere una volontà, una corsa!" Paolo pensa molto più semplicemente: non è la volontà, non la corsa che ci dà accesso alla salvezza, ma solo qui regna la misericordia del Signore! Qui non dice niente di diverso che nella lettera a Tito: "La bontà e lo splendore di Dio nostro salvatore sono apparsi – non a causa delle opere di giustizia che avevamo fatto, ma secondo la sua misericordia …" (Tit. 3:4, 5). Gli avversari, nei loro sofismi, pensano che Paolo stia almeno implicando l’esistenza di un volere o di un correre quando nega che si tratti di volere e correre. Ma anche loro non mi permetterebbero di trarre la conclusione che abbiamo fatto delle opere buone – poiché Paolo nega espressamente che diventiamo partecipi della bontà di Dio attraverso le opere che abbiamo fatto. Ma se dichiarano che questa conclusione è sbagliata, che aprano gli occhi – e vedranno che la loro ha lo stesso errore! Anche l’argomentazione di Agostino è molto ben fondata: "Se la frase ’Così non è dovuto alla volontà o alla corsa di qualcuno’ avesse il suo significato nel fatto che la volontà e la corsa sono insufficienti, allora si potrebbe affermare dall’altra parte: ’Così non è dovuto alla misericordia di Dio’ – perché questo non sarebbe efficace da solo! Ma questo secondo è assurdo, e quindi Augustin conclude giustamente che la parola di Paolo è detta perché l’uomo non ha affatto una buona volontà se il Signore non lo prepara, non come se non avessimo affatto bisogno di volere o di correre, ma perché Dio opera entrambi in noi! (Lettera 217). Alcuni dei nostri avversari fanno anche un’assurdità delle parole di Paolo: "Noi siamo collaboratori di Dio" (1Cor 3:9). Questa parola si riferisce senza dubbio esclusivamente ai servi (del Signore). Non sono chiamati "collaboratori" perché contribuiscono di propria iniziativa, ma perché Dio si serve del loro lavoro, avendoli resi idonei e fornendo loro i doni necessari.

II,5,18 Poi citano anche il libro del Siracide, che è noto per essere di dubbia autorità. Ebbene, non vogliamo rifiutarlo immediatamente – anche se potremmo legittimamente farlo! Che tipo di testimonianza porta al libero arbitrio? Dice che l’uomo fu lasciato alla sua propria decisione subito dopo la sua creazione, che gli furono dati dei comandamenti per mantenerlo se li avesse mantenuti…, che la vita e la morte furono poste davanti all’uomo, il bene e il male, e che egli poteva ricevere qualsiasi cosa volesse… (Isa Sir. 15:14-17). Quindi ammettiamo che nella sua creazione all’uomo è stata data la capacità di ricevere la vita o la morte. Ma cosa succede se ora sostengo che ha perso questa capacità? Non ho intenzione di contraddire Salomone quando dice: "Ho scoperto che Dio ha fatto l’uomo retto, ma essi cercano molte arti" (Eccl. 7:30). Ma l’uomo si è allontanato dalla sua origine ed è naufragato con se stesso e con tutti i suoi beni. Quindi, se qualcosa è dovuto alla prima creazione (prima creatio), non ne consegue che sia vero anche per la natura corrotta e degenerata. Perciò rispondo ai miei avversari e anche a Sirach – chiunque egli sia – che se tu istruisci l’uomo a cercare in se stesso i mezzi per raggiungere la salvezza, la tua reputazione è troppo piccola perché io possa giustificare qualsiasi pregiudizio contro l’indubbia Parola di Dio. Ma se vuoi solo tenere sotto controllo l’inclinazione malvagia della carne, che attribuisce così facilmente la sua malvagità a Dio e vorrebbe farne una vana difesa, e se quindi dici che l’uomo è per natura creato "onesto" e che lui stesso è da biasimare per la sua caduta, allora sono d’accordo con te. Ma allora dobbiamo anche essere d’accordo tra di noi sul fatto che l’uomo ha ormai perso completamente quell’ornamento glorioso di cui il Signore lo ha dotato all’inizio, e questo per sua colpa – e allora confessiamo insieme: ciò di cui c’è bisogno ora è un medico, ma non un avvocato (che reclami la nostra innocenza)!


II,5,19 Ma soprattutto parlano della parabola di Cristo sull’uomo che cadde tra i briganti che lo lasciarono mezzo morto sulla strada (Luca 10,30). So bene che quasi tutti i maestri della Chiesa vedono l’intero genere umano nella sua angoscia nell’immagine di questo vagabondo. Da questo i nostri avversari prendono una "prova": l’uomo non è stato così derubato dal peccato e dal diavolo da non avere almeno un residuo dei suoi antichi beni – perché si direbbe in questa parabola che il viandante è rimasto "mezzo morto"! Perché dove – (continuano) – sarebbe questo mezzo se non ci fosse rimasto anche un pezzo di retta ragione e di retta volontà? Ma se non voglio dare spazio alla loro interpretazione allegorica – cosa vogliono fare allora? Perché questa interpretazione è stata indubbiamente escogitata dai Padri della Chiesa senza alcuna giustificazione nel chiaro senso del discorso del Signore! Le interpretazioni figurative non devono andare oltre la guida della Scrittura che le precede; quindi sono di per sé del tutto inadeguate a sostanziare le dottrine. Né mancano le ragioni con cui potrei distruggere volentieri tutta questa fantasia. Perché la Parola di Dio non lascia l’uomo "mezzo" vivo, ma insegna che è completamente perito rispetto alla beatitudine. Quando Paolo parla della nostra salvezza, non dice che eravamo mezzi vivi e guariti, ma che eravamo morti e risorti! (Efes 2,5). Non chiama i mezzi morti a ricevere l’illuminazione attraverso Cristo, ma coloro che si sono addormentati e coloro che sono stati sepolti! (Efes 5,14). E il Signore stesso fa lo stesso quando dice che è giunta l’ora in cui i morti risorgeranno alla sua parola (Giov 5:25). Dove si trova la sfacciataggine di opporre a tanti detti chiari un’insignificante "interpretazione segreta"? Ma anche se accettiamo l’interpretazione allegorica come testimonianza certa, quale concessione ci viene fatta? L’uomo è ancora mezzo vivo – quindi ha ancora un po’ di vita in sé; per essere sicuri, ha ancora una "mente" capace di conoscenza, sebbene non sia in grado di penetrare nella saggezza celeste, spirituale; ha un certo giudizio di giusto e sbagliato; ha un sentore del divino (sensus divinitatis), sebbene non raggiunga la vera conoscenza di Dio. Ma cosa ne consegue? Tutto ciò non farà certo vacillare tra noi l’affermazione di Agostino, riconosciuta anche nel giudizio generale della teologia scolastica, secondo la quale i beni della grazia, dai quali dipende la salvezza, sono stati tolti all’uomo dopo la caduta, e nello stesso tempo i doni naturali sono caduti in corruzione e contaminazione. Ma la verità, che nessun approccio può scuotere, rimarrà senza dubbio: lo spirito dell’uomo si è così completamente allontanato dalla giustizia di Dio che tutto il suo volere, desiderare e fare è solo empio, malvagio, contaminato, impuro e blasfemo; il suo cuore è così permeato dal veleno del peccato che può solo emettere un fetore corrotto. E anche se a volte un barlume di bontà è visibile, la "mente" rimane avvolta nell’ipocrisia e nell’inganno, e lo spirito giace interiormente nella schiavitù della corruzione.


Capitolo sei

L’uomo perduto deve cercare la sua redenzione in Cristo.

II,6,1 Così l’intera razza umana perì in Adamo. E tutta quella preminenza e nobiltà originale che abbiamo menzionato non ci sarebbe servita a nulla, e avrebbe solo reso la nostra vergogna più terribilmente manifesta, se Dio, che non riconosce gli uomini macchiati dal peccato e corrotti come sua opera, non fosse apparso come Redentore nella forma del suo unico Figlio generato. Poiché siamo passati dalla vita alla morte, tutta la conoscenza di Dio come nostro Creatore, di cui abbiamo parlato, non ci sarebbe assolutamente utile se non fosse integrata dalla fede, che ci presenta Dio in Cristo come nostro Padre! L’ordine originale era che l’edificio del mondo fosse la scuola per noi, in cui imparavamo il giusto timore di Dio, per passare da lì alla vita eterna e alla perfetta beatitudine. Ma dopo l’apostasia è diverso: ovunque guardiamo, la maledizione di Dio ci affronta; attraverso la nostra colpa colpisce anche la creatura innocente e la trascina con sé nella rovina; così deve necessariamente precipitare la nostra anima nella disperazione! Infatti, sebbene Dio mostri ancora la sua bontà paterna verso di noi in molti modi, non è possibile capire che egli è il Padre guardando il mondo, perché la nostra coscienza ci tormenta interiormente e ci rimprovera che il peccato è la giusta causa del fatto che Dio ci respinge e non ci considera e rispetta più come figli. A questo si aggiunge la nostra pigrizia e ingratitudine; perché la nostra "mente" è accecata e incapace di discernere ciò che è vero, e tutti i nostri sensi sono corrotti, e quindi priviamo malvagiamente Dio del suo onore. Dobbiamo quindi arrivare all’affermazione di Paolo: "Poiché il mondo nella sua sapienza non ha riconosciuto Dio nella sua sapienza, è piaciuto a Dio per mezzo di una predicazione stolta salvare coloro che credono" (1Cor 1:21). Con la sapienza di Dio Paolo intende l’immagine gloriosa del cielo e della terra, come è piena di innumerevoli meraviglie, un’immagine dalla cui vista Dio avrebbe dovuto essere sapientemente discernuto; ma poiché lo abbiamo discernuto così poco da essa, l’apostolo ci chiama alla fede in Cristo. Questa fede, naturalmente, è ridicola per i non credenti, poiché ha l’aspetto della follia. Così, anche se la predicazione della croce non corrisponde all’orgoglio umano, dobbiamo tuttavia accettarla in umiltà se vogliamo ritornare a Dio, nostro Creatore e Operaio, dal quale ci siamo allontanati, affinché sia di nuovo nostro Padre! Perché dopo la caduta del primo uomo, certamente nessuna conoscenza di Dio aveva alcun valore per la salvezza senza il Mediatore. Cristo non parla solo del suo tempo, ma di tutti i secoli, quando dice: "Questa è la vita eterna, che conoscano te, che solo sei vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo" (Giov 17:3). Così tanto più bassa è l’ignoranza di tali persone che aprono il cielo a tutti gli infedeli e gli increduli, a parte la grazia di Cristo, che, secondo l’insegnamento della Scrittura, è l’unica porta attraverso la quale possiamo raggiungere la salvezza. Ma se qualcuno volesse riferire questa parola di Gesù solo alla propagazione del vangelo, può essere immediatamente confutato; perché il principio era noto a tutte le epoche e nazioni, che noi uomini, essendo allontanati da Dio, e quindi chiamati maledetti e figli dell’ira, non possiamo piacere a Dio senza riconciliazione. A questo proposito, dobbiamo anche considerare le parole di Gesù alla Samaritana: "Tu adori ciò che non conosci, ma noi sappiamo ciò che adoriamo; perché la salvezza viene dai Giudei" (Giov 4:22). Con queste parole dichiara false le religioni di tutte le nazioni, e ne dà anche il motivo: solo al popolo eletto è stato promesso il Redentore nella Legge. Ne consegue che Dio non è mai stato contento di un culto di Dio che non fosse diretto a Cristo. Ecco perché Paolo afferma che tutte le nazioni erano senza Dio e senza speranza di vita (Efes 2,12). E quando Giov insegna come la vita era in Cristo all’inizio e tuttavia tutto il mondo se ne è allontanato, dobbiamo tornare a questa fonte. Cristo chiama se stesso "vita" (Giov 11:25, 14:6) perché è il riconciliatore. E infatti l’eredità del cielo appartiene solo ai figli di Dio. Ma è impossibile concedere a tali persone la posizione e lo status di figli che non sono incorporati nel corpo del Figlio unigenito. Anche Giov lo testimonia chiaramente: coloro che credono nel suo nome diventano figli di Dio! (Giov 1:12). Ma non ho ancora intenzione di parlare della fede in Cristo, e quindi questo tocco di sfuggita deve bastare per il momento.


II,6,2 Perciò Dio non ha mai mostrato misericordia al popolo dell’Antica Alleanza e non ha mai dato loro la speranza di salvezza senza il Mediatore. Non mi addentrerò nei sacrifici richiesti dalla legge: ai credenti fu chiaramente insegnato che la salvezza non poteva essere cercata altrove se non nell’espiazione, che si è compiuta solo in Cristo! Dirò solo questo: la beatitudine e la felicità della Chiesa si sono sempre basate sulla persona di Cristo. Dio ha certamente incluso l’intera discendenza di Abramo nella sua alleanza, e tuttavia Paolo saggiamente trae la conclusione che nel vero senso della parola Cristo è questo "seme in cui tutte le nazioni devono essere benedette" (Gal 3:16). Sappiamo infatti che non tutti coloro che discendono da Abramo secondo la carne sono stati contati tra i suoi discendenti. Tacerò su Ishmael e sugli altri. Ma come avvenne che dei due figli di Isacco, cioè i fratelli gemelli Giacobbe ed Esaù, mentre erano ancora insieme nel grembo della madre, uno fu scelto e l’altro respinto? Come avvenne che dopo che il primogenito fu respinto, solo il più giovane entrò a pieno titolo? Come è successo che la maggior parte (del popolo) è stata respinta? È chiaro che il seme di Abramo non riceve la sua alta dignità che in un solo capo, e che la salvezza promessa non poteva essere realizzata che all’apparire di Cristo, il cui compito è quello di riunire ciò che è disperso! Così l’accettazione del popolo eletto dipendeva fin dall’inizio dalla grazia del Mediatore. Questo non è espresso chiaramente in Mosè, ma è evidente che era comunemente noto a tutti i pii. Infatti, prima ancora che fosse nominato un re tra il popolo, Hannah, la madre di Samuele, per descrivere la benedizione dei pii, cantava nel suo canto: "Dio darà potere al suo re, ed esalterà il corno del suo unto" (1Sam 2:10). Con questo intende dire che Dio benedirà la sua chiesa. Anche la promessa menzionata poco dopo corrisponde a questo: "Io mi susciterò un sacerdote fedele, ed egli camminerà per sempre davanti al mio unto" (1Sam 2:35). Questo è senza dubbio il modo in cui il Padre celeste ha voluto rendere visibile l’immagine vivente di Cristo in Davide e nei suoi seguaci. Comanda anche ai pii di temere Dio: "Bacia il Figlio" (Sal 2,12) – e il passo del Vangelo si adatta a questo: "Chi non onora il Figlio non onora il Padre" (Giov 5,23). Così, anche se il regno (di Davide) poteva crollare attraverso l’apostasia delle dieci tribù, l’alleanza che Dio aveva fatto con Davide e i suoi successori doveva rimanere. Ecco perché il profeta dice: "Non distruggerò tutto il regno per amore di Davide, mio servo, né per amore di Gerusalemme, che ho scelto; ma resterà una tribù per tuo figlio" - una promessa che viene ripetuta due e tre volte (1Re 11:13, 34). Esplicitamente si aggiunge: "Umilierò la stirpe di Davide, ma non per sempre" (1Kn 11,39). Dopo un po’ di tempo, sentiamo: "Per il bene del suo servo Davide, Dio gli diede una lampada a Gerusalemme, per far sorgere suo figlio dopo di lui e preservare Gerusalemme" (1Re 15:4). Anche quando gli eventi si stavano già avvicinando alla loro fine, fu detto di nuovo: "Dio non avrebbe distrutto Giuda per amore di Davide suo servo, come aveva promesso di dargli una lampada tra i suoi figli per sempre" (2 Re 8:19). E così tutto si riassume in questo: Dio ha scelto solo Davide al di sopra di tutti gli altri, perché il suo beneplacito si posasse su di lui. Così è detto: "Egli mandò via il tabernacolo di Shiloh, e rigettò il tabernacolo di Giuseppe, e non scelse la tribù di Efraim (Sal 78:60, 67), ma scelse la tribù di Giuda, il monte Sion, che amava (v. 68); scelse il suo servo Davide, perché nutrisse il suo popolo e la sua eredità Israele" (v. 70 s.). In breve, Dio ha voluto conservare la sua Chiesa in modo tale che la sua esistenza e la sua salvezza dipendessero unicamente da quel Capo. Così Davide esclama: "Il Signore è la protezione del suo popolo; egli è l’elmo di salvezza per il suo unto" (Sal 28:8; non testo di Lutero). E poi chiede: "Aiuta il tuo popolo e benedici la tua eredità" (Sal 28,9), per mostrare come l’esistenza della Chiesa sia legata da un legame indissolubile al regno di Cristo (l’Unto). Nello stesso senso dice in un altro luogo: "Aiutaci, Signore, il Re ci ascolta nel giorno in cui chiamiamo" (Sal 20,10; testo di Lutero diverso). Lì insegna chiaramente che quando i fedeli si rifugiavano nell’aiuto di Dio, arrivavano a questa fiducia solo sapendo di essere al sicuro sotto la protezione del Re, come mostra anche un altro Salmo: "O Signore, aiuto, … Benedetto colui che viene nel nome del Signore!" (Sal 118:25, 26). Questo mostra chiaramente che i fedeli sono stati chiamati a Cristo per ottenere la speranza di ricevere aiuto dalla mano di Dio. Un’altra preghiera in cui tutta la Chiesa implora la misericordia di Dio porta anche a questo: "Proteggi l’uomo della tua destra, il Figlio dell’uomo, che ti sei preparato" (Sal 80,18; testo di Lutero diverso). Anche se l’autore di questo salmo lamenta la dispersione di tutto il popolo, tuttavia implora la loro restaurazione solo attraverso il suo capo. E poi, quando il popolo era stato condotto in esilio, la terra era stata devastata e tutto era apparentemente finito, Geremia lamentava la miseria della Chiesa e la esprimeva in questo lamento che soprattutto la caduta della regalità tagliava ogni speranza per i fedeli. Così dice: "L’Unto, che era lo spirito della nostra bocca, è stato fatto prigioniero a causa dei nostri peccati, colui al quale abbiamo detto: ’Alla tua ombra vivremo tra le nazioni’" (Lamentazioni 4:20). Qui diventa perfettamente chiaro: Dio non può essere grazioso verso il genere umano senza il Mediatore, ed è per questo che i santi padri sotto la legge erano sempre tenuti al Cristo al quale dovevano dirigere la loro fede..

II,6,3 Ovunque viene promesso conforto nella tribolazione, specialmente dove viene descritta la liberazione della Chiesa, il vessillo della fiducia e della speranza è posto davanti agli occhi dei fedeli in Cristo stesso: "Dio è uscito per aiutare il suo popolo, per soccorrere il suo unto" (Hab. 3,13; non il testo di Lutero). E ogni volta che i profeti parlano della restaurazione della Chiesa, ricordano al popolo la promessa che promise a Davide la durata duratura del suo regno. Non c’è da meravigliarsi, perché altrimenti l’alleanza non sarebbe durata. Questo include soprattutto la gloriosa risposta che Isa diede una volta quando aveva annunciato all’incredulo re Achab che l’assedio di Gerusalemme sarebbe stato tolto e che l’aiuto sarebbe arrivato presto, e tuttavia vide come il re non lo accettò; allora arrivò, per così dire, bruscamente a parlare del Messia: "Ecco, una vergine concepirà…" (Isa 7:14). Lì indica chiaramente: Anche se il re e il popolo, nella loro malvagità, rifiutano la promessa offerta, come se cercassero di indebolire la promessa di Dio con una ferma intenzione, l’alleanza non sarà comunque sciolta e a suo tempo verrà il Redentore! In breve, tutti i profeti volevano mostrare che Dio voleva la riconciliazione, e per questo era sempre importante per loro riferirsi al regno di Davide, da cui dipendeva la redenzione e la salvezza eterna. Così leggiamo in Isaia: "Farò un’alleanza con te e ti darò le misericordie certe di Davide; ecco, l’ho posto come testimone… alle nazioni" (Isa 55:3, 4). Infatti, in una situazione così disperata, il popolo poteva solo credere che Dio si sarebbe lasciato interpellare quando questo testimone fosse entrato nei mezzi. Allo stesso modo, anche Geremia parla per far risorgere i disperati: "Ecco, viene il tempo in cui farò risorgere un giusto ’accrescimento’ a Davide, e allora Giuda sarà aiutato, e Israele abiterà al sicuro" (Ger 23:6 s.). Ed Ezechiele dice: "Io susciterò al mio gregge un solo pastore… il mio servo Davide… Io, il Signore, sarò il loro Dio e Davide, il mio servo, sarà il loro principe… E stringerò con loro un patto di pace" (Ez 34:23-25). O in un altro luogo, dopo aver parlato del rinnovamento del popolo che trascende ogni fede: "Il mio servo Davide sarà il loro re e il pastore di tutti loro… E io stringerò con loro un patto di pace; sarà un patto eterno con loro" (Ez 37:24, 26). Scelgo solo alcuni passaggi tra i tanti; perché voglio solo ricordare ai lettori che da sempre e per sempre la speranza di tutti i credenti è stata basata solo su Cristo. Tutti gli altri profeti sono d’accordo con questo. Così dice Osea: "I figli di Giuda e i figli d’Israele verranno in moltitudine e si uniranno ad una sola testa…". (Os 2:2). Più avanti lo rende ancora più chiaro: "Dopo questo i figli d’Israele si volteranno e cercheranno il Signore loro Dio e il loro re Davide…" (Os 3:5). E Michea, che parla del ritorno del popolo, lo esprime chiaramente così: "Il loro re andrà davanti a loro e il Signore davanti" (Mic 2:13). Così scrive anche Amos per annunciare il rinnovamento del popolo: "Nello stesso tempo farò risorgere il distrutto tabernacolo di Davide e ne ricoprirò i vuoti. e farò risorgere ciò che è distrutto…" (Amos 9:11); cioè, risusciterò la dignità regale della casa di Davide, che dopo tutto era l’unica bandiera di salvezza – che si è adempiuta in Cristo! Il tempo di Zac era già più vicino alla rivelazione di Cristo, e così poteva già dire più chiaramente: "Rallegrati, o figlia di Sion, e o figlia di Gerusalemme, rallegrati; ecco, il tuo Re viene a te, un giusto e un soccorritore" (Zac 9:9). Questo corrisponde al passo del Sal già menzionato: "Il Signore è la sua forza; egli è la forza che aiuta il suo unto". Aiuto, Signore…" (Sal 28,8 s.), dove la salvezza si estende dal capo a tutto il corpo.

II,6,4 Secondo la volontà di Dio, gli ebrei dovevano ricevere queste profezie in modo tale che avrebbero rivolto i loro occhi direttamente a Cristo quando desideravano la liberazione. E anche se erano vergognosamente fuori linea, il ricordo della dottrina principale non poteva essere spento, cioè che Dio, come aveva promesso a Davide, avrebbe liberato la Chiesa per mano di Cristo, e che l’alleanza di grazia, in cui Dio aveva ricevuto i suoi eletti, sarebbe giunta solo in questo modo alla sua giusta esistenza. Così avvenne che quando Gesù entrò a Gerusalemme poco prima della sua morte, i bambini cantarono: "Osanna al Figlio di Davide" (Mat 21,9). Infatti, anche se i bambini lo cantavano, doveva essere generalmente noto e lodato che l’unico pegno della misericordia di Dio doveva essere conservato per la venuta del Salvatore! È per questo che Cristo stesso comandò ai discepoli, per condurli a una fede chiara e perfetta in Dio: "Credete in Dio – e credete in Me!" (Giov 14,1) La fede arriva effettivamente al Padre per mezzo di Cristo, ma Cristo vuole insinuare che anche se la fede si aggrappa a Dio, deve essere gradualmente distrutta se non entra nel mezzo e non lo mantiene nella giusta fermezza. La maestà di Dio è troppo sublime perché gli uomini mortali, che strisciano come vermi sulla terra, possano penetrarla. Accetto il detto generale che la fede si aggrappa a Dio solo, ma in modo tale che ha bisogno di miglioramenti, perché Cristo non è chiamato "immagine del Dio invisibile" per niente (Col 1,15); ce lo ricorda proprio questa lode di Cristo: solo quando Dio ci incontra in Cristo possiamo riconoscerlo per la nostra salvezza. Sebbene gli scribi tra i Giudei avessero oscurato le promesse dei profeti riguardo al Redentore con una falsa finzione, Cristo tuttavia considerava come certo e, per così dire, riconosceva che nella perdizione generale non c’era altro rimedio, né altra via per la liberazione della Chiesa, che l’apparizione del Mediatore. Ciò che Paolo insegna: "Cristo è la fine della legge" (Rom 10:4) non era sufficientemente conosciuto tra il popolo, ma è chiaro dalla legge e dai profeti quanto sia vero e certo. Tuttavia, non discuterò qui la fede in dettaglio, perché sarebbe meglio farlo in un altro luogo. Ma il lettore dovrebbe tenerlo a mente: Il primo passo verso il timore di Dio è riconoscere Dio come nostro Padre, che ci protegge, ci guida e ci sostiene, e infine ci raccoglie all’eredità eterna del suo regno; ma da questo diventa evidente ciò che abbiamo già affermato, cioè: non c’è conoscenza salvifica di Dio senza Cristo, e quindi, fin dall’inizio del mondo, Egli è stato posto davanti agli occhi di tutti gli eletti, in modo che essi guardassero a Lui e mettessero la loro fiducia in Lui. In questo senso, Ireneo scrive: il Padre, che è infinito, si è fatto finito nel Figlio, perché si è adattato alla nostra misura, affinché l’immensità della sua gloria non consumasse completamente il nostro cuore. Gli entusiasti non hanno considerato a sufficienza questo utile detto, e perciò lo forzano nella loro fantasia senza Dio, secondo la quale in Cristo c’è solo una parte della divinità che scende da tutta la perfezione di Dio. Eppure Ireneo non voleva dire altro che Dio può essere compreso solo in Cristo. Le parole di Giov sono sempre state vere: "Chi non ha il Figlio non ha il Padre" (1Gio 2,23). Infatti molti uomini si sono vantati di adorare la Divinità suprema o il Creatore del cielo e della terra, ma poiché mancava loro il Mediatore, non potevano riconoscere giustamente la misericordia di Dio, e quindi non potevano giungere alla certezza che Dio fosse loro Padre. Non avevano il Capo, cioè Cristo – e quindi la conoscenza di Dio era vuota e nulla presso di loro; perciò è che caddero in una grossolana e vergognosa superstizione e portarono così alla luce la loro ignoranza. Così oggi i turchi proclamano a pieni polmoni che il loro Dio è il Creatore del cielo e della terra, e tuttavia erigono un idolo al posto del vero Dio, perché non vogliono avere niente a che fare con Cristo!


Capitolo sette

La Legge non è stata data per mantenere il popolo dell’Antica Alleanza a se stesso, ma per conservare la speranza della salvezza in Cristo fino alla Sua venuta.

II,7,1 La Legge fu aggiunta circa quattrocento anni dopo la morte di Abramo (allusione a Gal 3,17); ma, come si può vedere dalla lunga serie di testimonianze che abbiamo citato, essa non venne per condurre il popolo eletto lontano da Cristo, ma piuttosto per tenere i loro cuori in attesa fino alla Sua venuta, per accendere il loro desiderio sempre di nuovo e per rafforzarli nell’attesa, in modo che non andassero fuori strada nel lungo ritardo! Per "legge" non intendo semplicemente i dieci comandamenti, che formano la linea guida di come si dovrebbe vivere in modo pio e retto, ma l’intera forma del culto di Dio, come Dio l’ha stabilito e insegnato attraverso la mano di Mosè. Né Mosè fu nominato come legislatore per abrogare la promessa di salvezza fatta ad Abramo. Sì, vediamo come egli ricordò ripetutamente agli ebrei il patto di grazia che era stato fatto una volta con i loro padri, e di cui essi erano eredi; così egli fu mandato, per così dire, a rinnovare quel patto. Questo era particolarmente evidente nelle cerimonie. Cosa c’è di più vile e sacrilego del fatto che gli uomini, per riconciliarsi con Dio, gli offrano il cattivo odore del grasso dei loro animali, che, per lavare la sporcizia delle loro anime, ricorrano all’aspersione dell’acqua o addirittura del sangue? In breve, tutto il servizio legale di Dio – se lo si guardasse in sé e non contenesse ombre e immagini a cui la verità corrisponde effettivamente – sarebbe una vera ridicolaggine! Perciò, non senza una ragione fattuale, nel discorso di Stefano (Atti 7,44) e anche nella Lettera agli Ebrei (8,5), viene considerato con tanta speciale attenzione quel passo in cui Dio comanda a Mosè di modellare tutto ciò che appartiene al "tabernacolo" secondo l’archetipo che gli era stato mostrato sulla montagna (Es 25,40). Se gli ebrei non fossero stati presentati con una meta spirituale verso la quale dovevano orientarsi, sarebbero stati altrettanto sciocchi nella loro adorazione quanto lo furono i gentili nelle loro sciocche imprese! Le persone fuori moda che non hanno mai fatto uno sforzo serio per la vera pietà possono solo sentire con dispiacere tante diverse usanze di culto; e non solo si chiedono perché Dio abbia afflitto il popolo dell’Antica Alleanza con una tale moltitudine di cerimonie, ma le disprezzano e le prendono in giro come se fossero giochi infantili! Questo è comprensibile: dopo tutto, non prestano attenzione alla meta, senza la quale le immagini date nella Legge devono necessariamente cadere in preda al giudizio: sono nulle! Ma questo archetipo mostra che Dio non ha comandato i sacrifici per dare ai suoi adoratori qualcosa da fare con compiti terreni, ma per elevare i loro cuori. Questo si vede già chiaramente dalla natura di Dio: è spirituale, e quindi si compiace solo del culto spirituale. Questo è testimoniato da tante parole dei profeti, che rimproverano gli ebrei per la loro follia, perché pensano che qualsiasi sacrificio abbia un valore davanti a Dio. O i profeti volevano privare la legge del suo prestigio? Niente affatto: erano piuttosto i suoi giusti interpreti e in questo modo volevano dirigere gli occhi verso il vero significato e il punto di vista decisivo da cui il popolo si allontanava. Già dalla grazia offerta agli ebrei si può dedurre con sicurezza che la legge non era senza Cristo. Perché Mosè pose davanti a loro come scopo della loro graziosa accettazione proprio questo, che essi fossero "un regno sacerdotale" (Es 19:6), e certamente essi potevano raggiungere questo solo se una riconciliazione più forte e più efficace avveniva che dal sangue degli animali! Perché cosa sarebbe più insensato del fatto che i figli di Adamo, che vengono tutti al mondo nella corruzione ereditaria come servi del peccato, siano elevati alla dignità regale e diventino così partecipi della gloria di Dio – se un tale bene glorioso non venisse loro da una fonte completamente diversa? Come si poteva conferire la dignità sacerdotale a persone che, nella sporcizia dei loro vizi, erano ripugnanti a Dio, se non erano state consacrate nel santo capo? Pietro rovescia quindi sottilmente questo passaggio in Mosè per mostrare come la pienezza della grazia, di cui gli ebrei avevano ricevuto un assaggio sotto la Legge, è stata rivelata in Cristo: "Voi siete la generazione eletta, il sacerdozio regale" (1Piet 2,9). L’inversione delle parole ("regno sacerdotale" – "sacerdozio regale") vuole mostrare che coloro ai quali Cristo è apparso attraverso il Vangelo hanno ricevuto più dei loro padri, perché sono stati resi tutti partecipi della dignità sacerdotale e regale, in modo da poter quindi apparire liberamente davanti al volto di Dio con fiducia nel loro Mediatore!

II,7,2 Va detto di sfuggita che la regalità, che fu infine stabilita nella stirpe di Davide, faceva anch’essa parte della Legge e fu decisa sotto il ministero di Mosè. Così risulta che Cristo fu posto davanti agli occhi degli Antichi in tutta la Legge Levitica e anche tra i discendenti di Davide, come in un doppio specchio. Perché senza di lui, come ho già detto, non avrebbero potuto stare davanti a Dio come re o sacerdoti, poiché erano servi del peccato e della morte, macchiati dalla loro corruzione. Paolo stesso testimonia che questa frase è vera quando dice che gli ebrei erano, per così dire, tenuti sotto la supervisione di un "disciplinare" (Gal 3:24) finché non fosse venuto il "seme" a cui si applicava la promessa. Poiché Cristo non era ancora conosciuto più da vicino dagli uomini del Vecchio Patto, essi erano ancora come bambini che, nella loro debolezza, non potevano ancora sopportare la piena conoscenza delle cose celesti. Ma come furono condotti a Cristo per mezzo delle cerimonie è già stato spiegato e si può vedere ancora meglio da molte testimonianze dei profeti. Il popolo doveva presentarsi davanti a Dio ogni giorno con nuovi sacrifici per fare espiazione per Lui – eppure Isa promette che tutte le loro trasgressioni sarebbero state espiate con un solo sacrificio (Isa 53,5). Anche Daniele è d’accordo con questa promessa (Dan 9,26 s.). I sommi sacerdoti della tribù di Levi, che furono nominati, entrarono nel Santo dei Santi, ma è detto dell’unico sommo sacerdote che fu scelto con un giuramento di Dio per essere un sacerdote per sempre secondo l’ordine di Melchisedec (Sal 110:4). A quel tempo l’unzione era fatta esternamente, con olio – Daniele, tuttavia, profetizza sulla base di un volto che l’unzione futura sarà diversa! Non voglio elencare altro: l’autore della Lettera agli Ebrei porta dal quarto all’undicesimo capitolo della sua Epistola la prova pienamente sviluppata e chiara che le cerimonie erano nulle e vuote prima che uno venisse a Cristo. Per quanto riguarda i dieci comandamenti, dobbiamo notare l’affermazione corrispondente di Paolo qui. Infatti dice: "Cristo è il fine della legge, chi crede in lui è giusto" (Rom 10:4) e "Il Signore è lo Spirito" (2Cor 3:17), che "vivifica" la lettera, che di per sé sarebbe mortale (2Cor 3:6). Nel primo luogo mostra: la giustizia espressa nei comandamenti è insegnata invano finché non ci viene donata da Cristo attraverso l’imputazione di grazia e attraverso lo Spirito di rigenerazione. Questo è il motivo per cui giustamente chiama Cristo il "compimento" o la "fine" della legge, perché non ci servirebbe a nulla sapere cosa Dio richiede da noi se Cristo non venisse in nostro aiuto mentre siamo schiacciati e schiacciati a terra sotto un giogo e un peso insopportabile. Altrove Paolo insegna che la legge fu data "a causa delle trasgressioni" (Gal 3:19), cioè per condannare gli uomini della loro dannazione e per renderli umili. Poiché questa è la vera e unica preparazione per cercare Cristo, le espressioni che Paolo usa sono perfettamente coerenti, nonostante le loro differenze. Ma poiché doveva contendere con maestri perversi, che pretendevano che noi guadagnassimo la giustizia per mezzo delle opere della legge, egli dovette a volte, per contrastare il loro errore, prendere strettamente per sé la mera legge, sebbene non possa essere altrimenti separata dall’alleanza che per grazia di Dio ci dà l’adozione.

II,7,3 Ma ora vale la pena considerare come è proprio perché siamo istruiti nella legge morale (lex moralis) che diventiamo tanto più inescusabili, così che la nostra stessa colpa ci spinge a cercare il perdono. Se è vero che ci viene insegnata la giustizia perfetta nella legge, ne consegue che solo il suo completo adempimento è la giustizia perfetta davanti a Dio, in virtù della quale l’uomo è considerato e trattato come giusto davanti al tribunale celeste. Così Mosè, dopo aver proclamato la Legge, chiama senza esitazione il cielo e la terra a testimoniare che ha presentato a Israele "la vita e la morte, il bene e il male" (Deut 30,19). Né si può negare che la giusta obbedienza alla legge può aspettarsi come ricompensa la beatitudine eterna, proprio come il Signore ha promesso. Ma d’altra parte, dobbiamo anche vedere se possiamo in qualche modo eseguire tale obbedienza, sul merito della quale potrebbe basarsi questa fiducia di una ricompensa. Perché a che serve se vediamo che la ricompensa della vita eterna sta nell’adempimento della legge – se non è anche chiaro se possiamo raggiungere la vita eterna in questo modo! Ma a questo punto la debolezza della legge diventa evidente – perché quel compimento della legge non si trova in nessuno di noi, e quindi siamo esclusi dalle promesse di vita e abbandonati alla maledizione. Non sto dicendo ciò che accade realmente, ma ciò che è necessario, perché ciò che la legge insegna è molto al di là del potere dell’uomo, e così l’uomo può sì vedere da lontano le promesse della legge, ma non può trarne alcun frutto. Quindi non resta che questo, che egli possa riconoscere meglio la propria miseria dalla grandezza di queste promesse, considerando che ogni speranza di beatitudine è tagliata fuori da lui e la morte lo minaccia inevitabilmente. E poi, dall’altra parte, ci sono le terribili minacce che legano e intrappolano non singoli individui ma tutti noi senza salvezza – stanno lì e ci perseguono con implacabile severità, così che nella legge abbiamo la morte direttamente davanti agli occhi!

II,7,4 Se, dunque, guardiamo alla sola legge, dobbiamo inevitabilmente disperare, essere portati alla vergogna e alla disperazione: poiché essa ci condanna e ci maledice tutti, e ci tiene lontani dalla beatitudine che promette a coloro che la osservano correttamente! "Allora", dirà qualcuno, "il Signore si prende gioco di noi in questo modo? Perché cos’è se non una beffa darci la speranza della beatitudine, invitarci e incoraggiarci ad essa, testimoniarla come se fosse preparata per noi – quando nel frattempo l’accesso ad essa è chiuso e inaccessibile?" Rispondo: Certamente le promesse della legge, che sono condizionate, dipendono dalla perfetta obbedienza alla legge, che infatti non si trova da nessuna parte. Ma tuttavia non sono dati senza intenzione. Perché una volta che abbiamo fatto l’esperienza che esse sono senza potere ed effetto su di noi, a meno che Dio stesso, a prescindere da ogni riguardo per le opere, ci accetti per pura bontà nella grazia, e se abbiamo accettato questa grazia, che ci viene offerta nel Vangelo, nella fede – allora queste promesse, insieme alla condizione ad esse collegata, non rimangono inefficaci. Perché allora Dio ci concede tutto per grazia gratuita e dimostra la sua bontà anche nel fatto che non rifiuta la nostra obbedienza imperfetta, ci rimette ciò che ancora manca all’adempimento, e ci lascia, come se noi stessi avessimo adempiuto la condizione posta, partecipare al frutto delle promesse della legge. Ma questa questione deve essere trattata più dettagliatamente nella dottrina della giustificazione per fede, e quindi non la tratteremo ulteriormente per il momento.

II,7,5 Ma abbiamo detto che è impossibile per noi adempiere la legge. Questo deve essere ulteriormente chiarito e allo stesso tempo affermato in poche parole. Infatti è generalmente considerata come una frase abbastanza assurda, tanto che Girolamo le ha dato addirittura l’"anatema" (parola maledetta) senza esitazione. Tuttavia, non voglio soffermarmi sull’opinione di Jerome, ma chiedere la verità. Anche qui, non voglio fare una lunga deviazione con la questione di quanti tipi diversi di "possibilità" ci siano. Chiamo "impossibile" ciò che, secondo l’ordine e il consiglio di Dio, non ha mai potuto essere, né mai sarà. Anche se torniamo al passato più lontano, non troveremo mai un santo che – in questa vita mortale! – nell’amore a un tale grado di perfezione da amare veramente Dio "con tutto il suo cuore, con tutta la sua anima, con tutta la sua mente e con tutte le sue forze", infatti non troveremo mai uno che non abbia dovuto lottare con il suo desiderio! Chi vuole contraddirlo? Certo, so che tipo di santi la sciocca superstizione vorrebbe farci immaginare – sicuramente gli angeli in cielo non sono certo uguali a loro in purezza! Ma questo è in contraddizione con la Scrittura e l’esperienza. Ma io sostengo inoltre: nessuno raggiungerà la meta della perfezione nemmeno in futuro se non si libera dal peso del corpo! Prima di tutto, ci sono chiare testimonianze di questo nella Scrittura. Così Salomone dice: "Non c’è uomo giusto sulla terra, che non pecchi" (1Re 8:46). E Davide confessa: "Davanti a te non c’è nessun vivente che sia giusto" (Sal 143:2). Giobbe conferma lo stesso in molti luoghi (ad esempio Giobbe 9:2; 25:4). Paolo parla molto chiaramente: "La carne concupisce contro lo Spirito e lo Spirito contro la carne" (Gal 5:17). La prova che tutti coloro che sono sotto la legge sono soggetti alla maledizione è data dal fatto che è scritto: "Maledetto chiunque non continui a fare tutte le cose che sono richieste dal libro della legge" (Gal 3:10; Deut 27:26). Con questo, naturalmente, egli implica, anzi lo considera come generalmente ammesso, che nessuno può dimorare in esso. Ma ciò che è detto nella Scrittura deve essere considerato come perpetuo e necessario. I pelagiani tormentavano Agostino con un sofisma simile: Dio si sbagliava se comandava più di quanto il fedele potesse fare in virtù della sua grazia. Agostino, per evitare questo abuso, ammise loro che il Signore poteva certamente, se voleva, elevare l’uomo mortale alla purezza degli angeli, ma che non l’aveva mai fatto e non l’avrebbe mai fatto, perché aveva detto il contrario nella Scrittura. Né nego questo; ma aggiungo che non si ha l’autorità di parlare impropriamente della potenza di Dio, in modo da opporsi alla sua verità. Perciò si parla senza ambiguità quando si dice che impossibile è ciò che secondo la testimonianza della Scrittura non avverrà. Ma se la parola stessa è contestata, considera che il Signore rispose ai Suoi discepoli che gli chiedevano chi potesse essere salvato: "Agli uomini è impossibile, ma a Dio tutto è possibile" (Mat 19:25 s.). Per l’affermazione che in questa carne non mostriamo mai a Dio l’amore che gli dobbiamo, Agostino dà una prova molto fondata: "L’amore segue la conoscenza, così che nessuno può amare perfettamente Dio che non abbia prima riconosciuto pienamente la sua bontà. Ma finché vaghiamo nel mondo, guardiamo ’attraverso uno specchio e in una parola oscura’ – e quindi anche il nostro amore deve rimanere imperfetto!" (Alla fine della scrittura "Dello Spirito e della Lettera" e spesso anche altrove). Non c’è quindi alcun dubbio che l’adempimento della legge è impossibile per noi in questa carne, finché guardiamo l’impotenza della nostra natura. Lo dimostreremo altrove con le parole dell’apostolo Paolo (Rom 8,3).

II,7,6 Ma perché tutto questo venga più chiaramente alla luce, ripercorriamo in breve l’ufficio e l’applicazione della legge, che si chiama "morale". Consiste, per quanto posso capire, in tre pezzi. La prima applicazione della legge è che essa ci mostra la giustizia di Dio, cioè ciò che è gradito agli occhi di Dio, e in questo modo ricorda a ciascuno la sua ingiustizia, gliela rende certa, e infine lo condanna e condanna. Così l’uomo, nella sua cecità e nell’ebbrezza del suo amor proprio, deve essere portato alla realizzazione e allo stesso tempo anche alla confessione della sua debolezza e impurità; perché se non è condannato con la massima chiarezza della sua nullità, si gonfia nella folle fiducia nella propria forza e non può mai essere fatto sentire l’impotenza di questa forza, poiché la valuta secondo la propria discrezione. Ma appena confronta la sua forza con il peso della legge, trova un motivo sufficiente per mettere da parte il suo orgoglio. Per quanto egli possa pensare che la sua forza sia elevata, si accorge che presto si affloscia sotto un tale fardello, poi ondeggia e scivola, e infine sprofonda e si stanca. Quando la legge ha così esercitato il suo insegnamento su di lui, egli mette via quella presunzione che prima lo accecava. Così può essere guarito anche dall’altra infermità con cui, come abbiamo detto, deve lottare, cioè l’arroganza (superbia). Finché gli è permesso di essere giudice di se stesso, prende l’ipocrisia per rettitudine; si accontenta di questo e ora si ribella alla grazia di Dio con chissà quale rettitudine autoprodotta. Ma se è costretto a testare la sua vita sulla scala d’oro della legge, l’illusione della rettitudine sognata si disintegra, ed egli percepisce come sia separato da una distanza incommensurabile dalla vera santità, e d’altra parte è macchiato da innumerevoli vizi dai quali prima sembrava puro. Perché le cattive concupiscenze sono così profondamente nascoste nell’uomo, e così oscure, che facilmente ingannano la sua vista. Così anche l’apostolo dice, non senza ragione, che non avrebbe saputo nulla della concupiscenza se la legge non gli avesse detto: "Non ti permettere di concupire" (Rom 7:7). Perché se la legge non facesse uscire la concupiscenza dal suo nascondiglio, essa distruggerebbe il povero uomo in segreto prima che egli si accorga del suo proiettile mortale.

II,7,7 Così dunque la legge è come uno specchio, in cui dobbiamo vedere la nostra impotenza, e da essa la nostra iniquità, e ancora da queste due la nostra dannazione, come uno specchio tiene davanti ai nostri occhi le macchie e le rughe del nostro corpo. Perché chi non è in grado di percorrere il sentiero della rettitudine deve necessariamente rimanere bloccato nel fango del peccato. Ma il peccato è sempre seguito dalla dannazione. Perciò, quanto più grande è la trasgressione di cui la legge ci accusa e ci condanna, tanto più severo è il giudizio di cui ci fa apparire colpevoli. È a questo che appartengono le parole dell’apostolo: "Attraverso la legge viene la conoscenza del peccato" (Rom 3:20); perché in questo passo egli sta semplicemente descrivendo il primo ufficio della legge, nella misura in cui si manifesta in quei peccatori che non sono ancora nati di nuovo. Inoltre, ci sono passaggi come: "La legge è venuta in mezzo, perché il peccato diventasse più potente" (Rom 5:20), o l’osservazione che è un "ufficio di morte" (2Cor 3:7), che "causa ira" (Rom 4:15) e "uccide". Perché non c’è dubbio che quanto più chiaramente la coscienza conosce l’ingiustizia, tanto più grande essa diventa: perché ora la resistenza cosciente al Legislatore si aggiunge alla trasgressione. Così la legge alla fine suscita l’ira di Dio alla rovina del peccatore, perché in se stessa non può fare altro che accusare, condannare e distruggere. Come scrive Agostino: "In assenza della grazia dello Spirito Santo, la legge esiste solo per accusare e uccidere" (Sul castigo e la grazia 1,2). Quando si dice questo, non si danneggia la legge, né si perde nulla della sua alta dignità. Infatti, se la nostra volontà fosse capace e adatta ad obbedirle completamente, la sua sola conoscenza sarebbe pienamente sufficiente per la salvezza; ma poiché la nostra natura carnale e depravata è in inimicizia e in aperto conflitto con la legge spirituale di Dio, e non è migliorata nemmeno dalla sua disciplina, la legge può diventare solo una causa di peccato e di morte, sebbene – se avesse trovato ascoltatori adatti – sia comunque data per la salvezza (confronta Ambrogio, Di Giacobbe e della vita beata, 1). Perché siamo tutti condannati come trasgressori della legge: quanto più chiaramente la legge presenta la giustizia di Dio davanti ai nostri occhi, tanto più espone la nostra ingiustizia; e quanto più sicuramente promette vita e beatitudine come premio al giusto, tanto più sicuramente rende anche la rovina dell’ingiusto! Questi detti, dunque, non sono minimamente dannosi per la reputazione della legge; anzi, servono in modo eccellente a lodare ed esaltare le buone azioni di Dio. Perché è chiaro da essi che la nostra propria malvagità e depravazione ci impedisce di godere della beatitudine della vita che ci è pubblicamente promessa nella legge! La grazia di Dio, che viene in nostro aiuto senza la cooperazione della legge, diventa tanto più gloriosa per noi, tanto più accattivante per noi la misericordia di Dio, che ci estende la grazia; da essa impariamo che non si stanca mai di farci del bene e di farci di nuovo la sua grazia ogni giorno.

II,7,8 Ora, quando nella testimonianza della legge ci viene assicurata tutta la nostra ingiustizia e condanna, non è – se impariamo ad applicarla correttamente – allo scopo di sprofondare nella disperazione e sprofondare senza comodità nella rovina. Certamente i malvagi sono spaventati in questo modo, ma è a causa del loro indurimento interiore. I figli di Dio devono avere uno scopo educativo diverso. Secondo la testimonianza dell’apostolo, siamo certamente condannati dal giudizio della legge, "affinché ogni bocca sia fermata e tutto il mondo sia colpevole verso Dio" (Rom 3:19). Ma lo stesso apostolo insegna in un altro luogo: "Dio ha rinchiuso tutti sotto l’incredulità" – non per condannare o distruggere tutti, ma – "per avere pietà di tutti" (Rom 11:32). (Rom 11:32) – vale a dire, che tutti abbandonino la sciocca opinione delle proprie forze e si rendano conto che stanno e resistono per la sola mano di Dio – che si rifugiano nudi e crudi nella Sua misericordia, si appoggiano su di essa sola, si rifugiano interamente in essa, la reclamano sola come giustizia e merito per se stessi, poiché essa è offerta in Cristo a tutti coloro che la desiderano nella giusta fede e la cercano nell’attesa. Nei precetti della legge, solo Dio appare come il retributore della giustizia perfetta, di cui tutti siamo privi – e d’altra parte, appare come il giudice severo per tutte le offese. Ma in Cristo il Suo volto è pieno di grazia e di bontà, e brilla sui miseri e indegni peccatori!

II,7,9 Agostino descrive frequentemente il motivo per cui la legge funziona in modo da invocare l’aiuto e la grazia di Dio. Così scrive a Ilario: "La legge ci impone di provare a fare ciò che è comandato, e nella nostra debolezza ci stanchiamo sotto la legge, e poi impariamo a invocare l’aiuto della grazia" (Lettera 157). Continua a scrivere ad Asellicus: "Il beneficio della legge è che condanna l’uomo della sua debolezza e lo spinge a invocare come rimedio la grazia che è in Cristo" (Lettera 196). Analogamente al romano Innocenzo: "La legge comanda – e la grazia estende il potere di operare!" (Lettera 177). O a Valentinus: "Dio comanda ciò che non siamo in grado di fare, affinché possiamo sapere cosa dobbiamo chiedergli" (Del castigo e della grazia – in realtà "Della grazia e del libero arbitrio", 16). Oppure: "La legge è data per renderti colpevole; se sei colpevole, devi temere, ma nella tua paura chiedi perdono – e perdi ogni fiducia nelle tue forze" (Sul Sal 70). Ancora: "La legge è data per rendere piccolo il grande, per mostrarti che non hai da te stesso la forza per la giustizia, così che sei impotente, indegno e povero, prendendo il tuo rifugio nella grazia". Poi si rivolge a Dio stesso: "Sia fatto, Signore, sia fatto, Signore misericordioso: comanda ciò che non può essere adempiuto, sì, comanda ciò che può essere adempiuto solo dalla tua grazia, affinché quando gli uomini non possono adempiere con le loro forze, ogni bocca sia fermata e nessuno sembri grande a se stesso. Allora che tutti diventino molto piccoli, e che tutto il mondo sia colpevole davanti a Dio!". (Sul Sal 118, Sermone 27). Ma in realtà è sbagliato per me elencare così tante testimonianze, quando un uomo pio (sanctus!) (Augustin) ha scritto un libro speciale su queste cose, al quale ha dato il titolo "Dello Spirito e della Lettera". In questo libretto, però, non rende sufficientemente chiara la seconda applicazione della legge, perché forse la riteneva dipendente dalla prima o non la capiva correttamente o non aveva le parole per presentare in modo chiaro e brillante la sua altrimenti visibile giusta comprensione. La legge, tuttavia, svolge la sua prima funzione negli empi. È vero che non arrivano così lontano come i figli di Dio, che umiliano la loro carne, rinascono nell’uomo interiore e fioriscono di nuovo, ma cadono in profonda disperazione al primo orrore; ma la giustizia del giudizio divino si manifesta comunque nel fatto che anche le loro coscienze cadono in così profonda agitazione. Vogliono sempre trovare una via d’uscita dal giudizio di Dio, ma anche ora, quando il giudizio stesso non è ancora visibile, sono terrorizzati dalla testimonianza della legge e dalla propria coscienza, e provano in se stessi ciò che hanno meritato!

II,7,10 La seconda funzione della legge è che le persone che sono costrette a preoccuparsi della giustizia e della rettitudine solo quando sentono le dure minacce in essa contenute, sono finalmente tenute sotto controllo almeno dalla paura della punizione. Ma questo non accade perché i loro cuori sono commossi o toccati interiormente, ma perché viene messo loro un freno, per così dire, in modo che essi trattengano la loro mano dall’esecuzione dell’opera esteriore e chiudano dentro di sé la loro malvagità, che altrimenti lascerebbero volentieri scatenare. Questo non li rende certamente migliori o più giusti davanti a Dio. Infatti, anche se non osano, per paura e vergogna, realizzare ciò che hanno pensato nei loro cuori, o dare libero sfogo ai loro desideri selvaggi, tuttavia i loro cuori non sono pronti a temere e obbedire a Dio; anzi, più si trattengono, più ardentemente bruciano, ardono, bollono dentro, e sarebbero pronti a fare qualsiasi cosa e a compiere qualsiasi azione, se il terrore della legge non li trattenesse. Ma non solo questo: essi odiano anche la legge stessa con grande veemenza, maledicono Dio, il Legislatore, e preferirebbero distruggerlo se potessero – perché non possono sopportare che Egli esiga da noi di fare ciò che è giusto e che Egli ripaghi i disprezzatori della Sua Maestà. Tutti coloro che non sono ancora nati di nuovo, alcuni più segretamente, altri più apertamente, hanno una mentalità tale che non obbediscono volontariamente, ma contro la loro volontà e resistenza, solo per la forza schiacciante della paura, fanno uno sforzo per obbedire alla legge. Eppure questa giustizia forzata ed estorta è necessaria per la conservazione della comunità pubblica degli uomini; qui si provvede alla sua pace impedendo che tutto si mescoli nel tumulto, perché questo accadrebbe se ognuno fosse autorizzato a fare ciò che vuole. Tuttavia, questa educazione è vantaggiosa anche per i figli di Dio finché mancano dello spirito di santificazione prima della loro chiamata e sono a loro agio nella follia della loro carne. Infatti, finché sono trattenuti dalla più grande leggerezza dal timore del castigo divino, sono effettivamente ancora indomiti nel cuore e quindi fanno pochissimi progressi all’inizio, ma tuttavia si abituano, per così dire, a portare il giogo della giustizia, così che quindi, quando sono chiamati, la disciplina non è qualcosa di sconosciuto per loro e non la affrontano ignorantemente come nuovi arrivati. L’apostolo sembra pensare a questo ufficio della legge quando dice che la legge non è data ai giusti, "ma agli ingiusti e ai disobbedienti, agli empi e ai peccatori, agli empi e ai non spirituali, agli assassini di padri e agli assassini di madri, agli omicidi di uomini, ai puttanieri, agli abusatori di bambini, ai ladri di uomini, ai bugiardi, agli spergiuri e così via, che è contrario alla sana dottrina" (1Tim 1:9 s.). Così dimostra che è destinato a frenare le concupiscenze selvagge e altrimenti intemperanti della carne.

II,7,11 La frase di Paolo può essere applicata ai due uffici della legge (descritti finora), che la legge era per gli ebrei "un disciplinare per Cristo" (Gal 3,24). Perché ci sono due tipi di persone che conduce a Cristo attraverso la sua disciplina. Delle persone del primo tipo abbiamo parlato prima: sono traboccanti di fiducia nel proprio potere o nella propria giustizia, e non possono ricevere la grazia di Cristo se prima non vengono distrutte. Così la legge li porta alla conoscenza della loro miseria e quindi all’umiltà, e così sono pronti a chiedere ciò che non mancava loro secondo il loro precedente giudizio di sé. Il secondo tipo di persone ha bisogno di una briglia che le trattenga in modo che non lascino che la concupiscenza della loro carne prenda il sopravvento e quindi abbandonino completamente ogni sforzo per la rettitudine. Perché dove lo Spirito di Dio non regna ancora, i desideri a volte esplodono così violentemente che l’anima che vi è soggetta è in pericolo di sprofondare nella dimenticanza e nel disprezzo di Dio – e questo accadrebbe davvero se il Signore non lo contrastasse con questo rimedio. Se, dunque, non fa nascere di nuovo coloro che ha ordinato di essere eredi del suo regno, tuttavia li preserva fino al tempo della sua graziosa visita attraverso il ministero della legge sotto il timore – che, sebbene non sia così castigante e puro come dovrebbe essere nei suoi figli, tuttavia aiuta a portarli al giusto timore di Dio secondo la misura della loro comprensione. Ci sono così tante prove di questo che non c’è bisogno di esempi. Infatti, tutti coloro che hanno vissuto per un certo tempo senza la conoscenza di Dio confessano di essere stati tenuti in una sorta di pietà e obbedienza dalle briglie della legge, finché, essendo nati di nuovo dallo Spirito, hanno cominciato ad amare Dio dal cuore.

II,7,12 La terza applicazione della legge è ora la più importante e si riferisce più da vicino al suo scopo effettivo: ha luogo nei credenti nei cui cuori lo Spirito di Dio è già venuto ad operare e a governare. La legge è stata scritta, persino cesellata, nei loro cuori dal dito di Dio; questo significa che attraverso la guida dello Spirito essi sono interiormente così animati e disposti a obbedire volentieri a Dio. Ma hanno comunque un doppio beneficio dalla legge. Perché è (1.) lo strumento migliore per loro, con il quale imparano meglio di giorno in giorno qual è la volontà del Signore, che desiderano, e con il quale saranno anche rafforzati in tale conoscenza. Anche se un servo si sforza con tutto il cuore di dimostrare di avere ragione con il suo padrone, ha ancora bisogno di indagare e osservare più da vicino il carattere del suo padrone, al quale vuole adattarsi. È lo stesso per i credenti, nessuno di noi può liberarsi da questa necessità; perché nessuno è già così avanzato nella saggezza da non poter fare nuovi progressi verso la conoscenza più pura della volontà di Dio attraverso il lavoro educativo quotidiano della legge. Ma abbiamo bisogno non solo dell’istruzione, ma anche (2.) dell’esortazione; e il servo di Dio trarrà anche beneficio dalla legge, che con la sua frequente considerazione può essere spinto all’obbedienza, rafforzato in essa, e allontanato dalla via scivolosa del peccato e della disobbedienza. I santi hanno un grande bisogno di un tale slancio, perché anche se si sforzano di perseguire la giustizia di Dio nello Spirito con tanto zelo, sono ancora oppressi dalla pigrizia della carne, così che non vanno per la loro strada con la necessaria volontà gioiosa. Così la legge è come un flagello per la carne, spingendola a lavorare come un asino pigro e lento, e anche per l’uomo spirituale, che non è ancora libero dal peso della carne, è sempre una spina che non gli permette di riposare. Sicuramente Davide pensava a questa (terza) applicazione della legge quando scrisse: "La legge del Signore è perfetta e ristora l’anima; … i comandi del Signore sono giusti e rallegrano il cuore; i comandamenti del Signore sono puri e illuminano gli occhi … (Sal 19,8 s.). O anche: "La tua parola è una lampada per il mio piede e una luce per il mio cammino" (Sal 119:105) e innumerevoli altre parole in tutto questo (119°) Salmo. Queste parole non contraddicono quelle di Paolo. Perché non parlano dell’applicazione della legge al nato, ma della questione di ciò che la legge è in grado di aiutare l’uomo in sé e per sé. Qui, invece, il Profeta canta di quante benedizioni il Signore ci concede quando educa persone in cui ha instillato interiormente la prontezza ad obbedire permettendo loro di leggere la sua legge; e così facendo non ricorda solo i comandamenti ma anche la promessa di grazia che li accompagna, che sola può rendere dolci le cose amare. Perché cosa è meno amabile della legge quando non fa altro che terrorizzare il cuore con richieste e minacce e opprimerlo con la paura? Ma soprattutto, Davide mostra che nella legge ha conosciuto il mediatore, senza il quale non può nascere nessuna gioia e nessun ristoro..

II,7,13 Alcune persone inesperte non conoscono questa differenza, e perciò rifiutano cupamente tutta la legge e abbandonano entrambe le tavole; perché secondo loro non è compatibile con la natura di un cristiano aderire a una dottrina che tuttavia porta in sé il "ministero della morte" (allusione a 2Cor 3,7). Ma una tale empia opinione dovrebbe essere lontana dai nostri cuori; perché Mosè stesso insegna molto chiaramente che sebbene la legge non possa produrre altro che morte nei peccatori, essa deve trovare un’applicazione speciale e più gloriosa nei santi. Così, immediatamente prima della sua morte, comandò al popolo: "Prendete a cuore tutte le parole che oggi vi attesto, affinché le comandiate ai vostri figli, e insegnate loro ad osservare e a mettere in pratica tutte le parole di questa legge; perché essa non è una parola vana per voi, ma è la vostra vita" (Deut 32:46 s.). Se c’è davvero un perfetto archetipo di giustizia nella legge, allora dobbiamo o non avere alcuna linea guida per una vita giusta e retta – o è sbagliato allontanarsi da questa legge. Perché non ci sono diverse norme di questo tipo, ma solo una, che è permanentemente e immutabilmente in vigore. Così, quando Davide mostra come la vita del giusto consista nella costante contemplazione della legge (Sal 1,2), non dobbiamo riferirci a un’epoca particolare, perché questo è molto appropriato in ogni momento fino alla fine del mondo! Pertanto, non dovremmo allontanarci dall’istruzione della Legge o fuggire da essa, per esempio, sulla base del fatto che essa comanda una santità molto più perfetta di quella che siamo mai in grado di raggiungere finché ci portiamo dietro la prigione della nostra carne. Perché non lavora su di noi come un pilota duro che è soddisfatto solo quando la misura piena è raggiunta, ma ci mostra, con tutta l’esortazione alla perfezione, la meta verso la quale tutto il tempo della nostra vita è utile e il nostro ufficio a correre. Non desistiamo in questo corso, ed è bene. Perché tutta questa vita è una corsa sul campo di battaglia; quando avremo completato questa corsa, il Signore ci concederà di raggiungere quella meta a cui ora dirigiamo ancora da lontano i nostri pensieri e le nostre aspirazioni!

II,7,14 Ora la legge ha il potere di ammonire i fedeli, non di vincolare le loro coscienze con la condanna, ma di bandire l’accidia e ricordare loro la loro imperfezione perseverando diligentemente. Perciò, per dimostrare che siamo liberati da quella condanna da parte della legge, molti ora sostengono che la legge – sto ancora parlando della legge morale! – è stato abolito per i credenti, non perché non comandi loro anche ciò che è giusto, ma solo perché non li affronta più come prima, cioè non terrorizza e confonde le loro coscienze, li condanna e li distrugge. Paolo insegna anche l’abolizione della legge molto chiaramente. Ma il Signore stesso deve averla proclamata: lo dimostra il fatto che non si sarebbe opposto all’opinione che avrebbe abolito la legge (Mat 5,17) se non fosse esistita tra gli ebrei. Ma questa opinione (dei giudei) non avrebbe potuto sorgere di propria iniziativa, senza alcuna apparenza, e quindi si deve supporre che provenisse da un’interpretazione errata del suo insegnamento – come quasi tutti gli errori hanno la loro causa nella verità! Ma per non incappare nella stessa pietra, distinguiamo attentamente tra ciò che è stato eliminato nella Legge e ciò che è ancora valido. Il Signore testimonia: "Non sono venuto ad abolire la legge, ma a darle compimento", e "Finché non passino il cielo e la terra, non passerà la più piccola lettera della legge, finché non sia tutto compiuto". (Mat 5,17 s.). Con questo afferma chiaramente che nulla doveva essere tolto all’osservanza della legge con la sua venuta. E giustamente: perché è venuto per impedire la trasgressione! Così l’insegnamento della legge attraverso Cristo rimane illeso, che è quello di prepararci a tutte le opere buone insegnando, ammonendo, rimproverando, castigando e rendendoci abili.

II,7,15 Ma ciò che Paolo dice sulla maledizione della legge non si riferisce ovviamente alla sua autorità didattica, ma solo al suo potere di vincolare le coscienze. Perché la legge non insegna da sola: esige e comanda imperiosamente. Se ciò che è richiesto non è adempiuto, o se non è adempiuto in qualche parte, passa immediatamente una sentenza di condanna sul trasgressore. Per questo l’apostolo dice: "Quelli che fanno le opere della legge sono sotto la maledizione, perché sta scritto: Maledetto chiunque non continua in tutte queste cose… perché le faccia" (Gal 3:10; Deut 27:26). Ma secondo le sue parole, tutti coloro che non basano la loro giustizia sul perdono dei peccati, con il quale siamo sottratti alla severità della legge, sono sotto la legge. Quindi, secondo il suo insegnamento, dobbiamo essere liberati dalle catene della legge se non vogliamo perire miseramente in esse. Ma cosa sono queste pastoie? Ovviamente le richieste dure e ostili che non lasciano nulla a desiderare dalla pretesa perfetta e non lasciano impunita nessuna trasgressione. Affinché Cristo ci riscattasse da questa maledizione, è diventato una maledizione per noi. Perché sta scritto: "Maledetto chiunque si appende al legno" (Gal 3,13; Deut 21,23). Nel capitolo seguente l’apostolo testimonia che Cristo fu "messo sotto la legge" "per riscattare coloro che sono sotto la legge" (Gal 4:4 s.) – ma dice questo nello stesso senso (come sopra), e perciò aggiunge immediatamente: "per ricevere l’adozione" (ibid.). Cosa significa questo? Sicuramente questo: che non rimanessimo mai in tale schiavitù, che teneva sempre la nostra coscienza nella paura della morte. Tuttavia, è ancora irremovibilmente vero che nulla si è allontanato dal prestigio della legge, così che essa deve essere sempre accettata da noi con la stessa riverenza e la stessa obbedienza..

II,7,16 Ma è diverso con le cerimonie: esse non sono state abolite secondo il loro significato, ma solo secondo la loro esecuzione. Ma il fatto che Cristo abbia messo fine a loro con la sua venuta non toglie nulla alla loro santità, ma solo la loda e la glorifica ancora di più! Infatti, come un tempo sarebbero stati un’immagine vana per il popolo del vecchio patto, se la potenza della morte e della risurrezione di Cristo non fosse stata rappresentata in essi – così ora, se non fossero cessati, non sarebbe più possibile vedere perché sono stati effettivamente istituiti. Così Paolo vuole anche dimostrare che la loro osservazione non solo sarebbe superflua per noi, ma anche dannosa, e dice di loro che erano "l’ombra di ciò che doveva venire; ma il corpo stesso è in Cristo" (Col 2:17). Vediamo dunque che con la loro abolizione la verità risplende meglio che se rappresentassero ancora Cristo da lontano e come nascosto dietro una tenda, che tuttavia è apparso pubblicamente! Alla morte di Cristo la cortina del tempio fu squarciata in due (Mat 27,51); perché era già venuta alla luce l’immagine viva e chiara dei beni celesti, che prima, nelle cerimonie, era lì solo in un’ombra indistinta, come dice l’autore della Lettera agli Ebrei (Ebr 10,1). Qui c’è anche la parola di Cristo, che la legge e i profeti c’erano fino a Giovanni, ma da allora hanno cominciato a predicare il vangelo (Luca 16,16). Questo non significa che i Padri fossero privi della predicazione, che porta con sé la speranza della salvezza e della vita eterna; ma essi vedevano solo da lontano e sotto immagini in ombra ciò che noi oggi vediamo brillare in piena luce. La ragione per cui la Chiesa doveva procedere da questi inizi è mostrata da Giov Battista: "Perché la legge fu data da Mosè, ma la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo" (Giov 1:17). Infatti, sebbene nei vecchi sacrifici l’espiazione fosse veramente annunciata, e sebbene l’arca del patto fosse un pegno sicuro del favore paterno di Dio, tuttavia tutto questo sarebbe stato solo un’ombra, se non fosse stato fondato nella grazia di Cristo, che è veramente un fondamento solido ed eterno. Questo, dunque, rimane fermo: Sebbene le forme legali di culto siano cessate, tuttavia dalla loro stessa fine è evidente quanto fossero importanti prima della venuta di Cristo, che abolì la loro applicazione, ma sigillò il loro potere ed effetto con la sua morte.

II,7,17 Un po’ più difficile è la seguente prova di Paolo: "Ed egli vi ha vivificati con lui, quando eravate morti nei peccati e nella vostra carne incirconcisa; e ci ha perdonato tutti i nostri peccati, e ha cancellato la scrittura che era contro di noi, che era stata fatta dalle leggi ed era contraria a noi; e l’ha messa fuori dal rimedio, e l’ha legata sulla croce…" (Col 2:13, 14). Qui Paolo sembra estendere l’abolizione della legge a tal punto che non avremmo nulla a che fare con i suoi precetti. Perché è errato per alcuni riferire il passaggio semplicemente alla legge morale, anche se dichiarano che è la sua inesorabile severità piuttosto che il suo stesso insegnamento ad essere abolito. Altri considerano più attentamente questo detto di Paolo e giungono alla conclusione che il passo si riferisce effettivamente alla legge cerimoniale; essi mostrano anche che l’espressione "statuti" in Paolo significa frequentemente la legge cerimoniale. Infatti Paolo dice agli Efesini: "Egli infatti è la nostra pace, che ha fatto di tutti e due un solo uomo …. togliendo… la legge che era scritta nelle leggi, per fare di due un solo uomo nuovo in se stesso…" (Efes 2:14,15). In questo passo sta indubbiamente parlando delle cerimonie, perché le chiama una divisione che separava gli ebrei dai gentili. Perciò, secondo me, i sostenitori della prima visione del passaggio sono giustamente rimproverati da quelli della seconda; ma anche questi non mi sembrano spiegare bene l’intenzione dell’apostolo. Perché non è affatto corretto dichiarare che questi due passaggi siano completamente uguali. Paolo voleva convincere gli Efesini della loro ammissione nella comunione del popolo d’Israele, e quindi li istruisce che l’ostacolo che una volta li teneva lontani è ora scomparso. Quell’ostacolo erano le cerimonie. La pratica delle abluzioni e dei sacrifici, con cui gli ebrei venivano santificati al Signore, li distingueva dai gentili. Ma chi non nota che nella Lettera ai Colossesi viene toccato un mistero ancora più profondo? Perché lì la controversia riguarda l’osservanza della Legge di Mosè, alla quale i falsi apostoli cercavano di condurre la cristianità; e come Paolo in Galati approfondisce questa questione e la traccia, per così dire, alla sua fonte, così è fatto anche qui. Perché se si vuole intendere per i costumi solo una costrizione a eseguirli, come si può allora parlare di una "scrittura" che è "contro di noi"? E come, a maggior ragione, la nostra quasi intera redenzione dovrebbe essere data dal suo essere messa da parte? La questione stessa testimonia abbastanza forte che qui deve essere coinvolto qualcosa di più profondo. Ma credo di aver compreso il giusto significato delle parole di Paolo, se solo mi si concede la verità di ciò che Augustin ha scritto molto giustamente, anzi di ciò che egli trae da chiare parole dell’apostolo stesso: nelle cerimonie ebraiche si trattava più della confessione dei peccati che della loro redenzione (Ebr 7.9.10). Cos’altro facevano gli ebrei con i loro sacrifici se non confessare che erano colpevoli di morte offrendo gli animali sacrificali al loro posto? Cosa testimoniava la loro purificazione oltre alla loro impurità? Così la "firma" della loro colpa e impurità veniva rinnovata ogni volta; ma questa confessione non offriva la liberazione. Per questo l’apostolo scrive che solo attraverso la morte di Cristo c’è stata la redenzione dalle trasgressioni che rimanevano sotto il Primo Patto (Ebr. 9,15). Paolo chiama giustamente le cerimonie "una scrittura" che era "contraria" agli adoratori della legge, perché con esse certificavano pubblicamente la loro dannazione e impurità. Certamente questo non significa che gli antichi non partecipavano alla stessa grazia con noi. Ma sono arrivati a questo in Cristo, non attraverso le cerimonie, che Paolo distingue da Cristo a questo punto, poiché esse – se fossero ora di nuovo praticate – oscuravano la gloria di Cristo. Così le cerimonie, nella misura in cui sono considerate in sé e per sé, sono molto bene e appropriatamente chiamate "scrittura", che si opponeva alla salvezza degli uomini; perché erano, dopo tutto, atti solenni di prova (solennia instrumenta), che dovevano testimoniare il loro debito. I falsi apostoli volevano asservire di nuovo la Chiesa cristiana a queste cerimonie, e allora Paolo, dopo aver spiegato ancora una volta il loro significato, ricorda ai Colossesi, non senza ragione, dove sarebbero finiti se avessero lasciato che questo giogo fosse messo di nuovo sul loro collo! Perché in questo modo sarebbero stati privati del dono di grazia di Cristo: il compimento una tantum dell’espiazione eterna ha sostituito le cerimonie quotidiane, che erano buone solo per testimoniare pubblicamente il peccato, ma non avevano il potere di cancellarlo.


Capitolo otto

Interpretazione della legge morale (i dieci comandamenti).

II,8,1 Qui, penso, sarà opportuno inserire i Dieci Comandamenti con una breve interpretazione. Da ciò risulterà più chiaro, in primo luogo, che – come ho già indicato – il culto di Dio, che Egli stesso ha prescritto un tempo, è ancora in vigore oggi. In secondo luogo, confermerà anche l’altro punto principale, secondo il quale i Giudei non solo impararono dalla Legge come fosse la giusta pietà, ma anche, poiché si trovarono inadatti a compierla, furono costretti dal terrore del giudizio di Dio a lasciarsi attirare al Mediatore contro la loro volontà. Inoltre, quando ho spiegato cosa appartiene alla vera conoscenza di Dio, ho anche insegnato che Dio nella sua grandezza non può essere afferrato da noi senza che la sua maestà ci affronti immediatamente e ci costringa al suo servizio. E nella conoscenza di noi stessi, sono convinto che la cosa più importante è che impariamo la giusta umiltà e il giusto abbattimento di noi stessi senza ogni fiducia nelle nostre forze, liberi da ogni fiducia nella nostra giustizia, rotti, schiacciati dalla consapevolezza della nostra povertà. Il Signore vuole creare entrambe queste cose con la sua legge. Perché lì egli prima di tutto si appropria di tutto il potere di comando che gli spetta e ci invita a mostrare riverenza alla sua divina maestà, e ci comanda anche come questa riverenza debba essere mostrata. E in secondo luogo, egli proclama la regola della sua giustizia, la giusta esigenza alla quale noi, secondo la nostra natura, che è cattiva e sbagliata, resistiamo sempre, e la cui perfezione la nostra facoltà, che è debole e del tutto incapace di bene, non raggiunge lontanamente; così ci condanna della nostra impotenza e ingiustizia. Precisamente ciò che dobbiamo imparare dalle due tavole della legge è, per così dire, detto a noi da quella legge interiore che, secondo il nostro racconto sopra, è scritta nel cuore di tutti gli uomini e, per così dire, impressa su di loro. Perché la nostra coscienza non ci lascia sempre dormire senza sentire, ma è un testimone e un promemoria dentro di noi di ciò che dobbiamo a Dio, ci tiene davanti la differenza tra il bene e il male e ci accusa quando deviamo dal cammino. L’uomo, però, è avvolto in una tale oscurità di errore che, in virtù di questa legge naturale, a malapena riesce a percepire il culto che è gradito a Dio, ma in ogni caso rimane lontano dal suo vero significato. Allo stesso tempo, però, l’uomo è così gonfio della sua presunzione e della sua arroganza, così accecato nel suo amor proprio, che non può facilmente guardarsi come si deve o entrare in se stesso per imparare l’obbedienza e l’abnegazione e confessare apertamente la sua miseria. Perciò il Signore – e questo era necessario vista la nostra debolezza di visione e la nostra testardaggine! – Questo ci testimonia più precisamente ciò che è rimasto troppo oscuro nella legge naturale, e allontana anche la pigrizia e riempie i nostri cuori e le nostre menti di un movimento più fresco!

II,8,2 Ora possiamo anche vedere subito cosa dobbiamo imparare dalla legge. Solo questo: Dio è il nostro Creatore e quindi ha anche i diritti di Padre e Signore su di noi. Perciò la gloria, la riverenza, l’amore e il timore gli sono dovuti da noi. Quindi non siamo padroni di noi stessi, non dobbiamo seguire i nostri desideri ovunque ci portino, ma dipendere unicamente dalla sua direzione e rimanere in ciò che gli è gradito. Egli ama la rettitudine e la santità dal cuore e odia l’ingiustizia; perciò, se non vogliamo allontanarci dal nostro Creatore con ingratitudine, dobbiamo dirigere i nostri pensieri e le nostre aspirazioni verso la rettitudine per tutta la vita. Perché è solo mettendo la Sua volontà al di sopra della nostra che Gli mostriamo la dovuta riverenza, e quindi c’è solo un modo giusto di adorare Dio, cioè lottare per la giustizia, la santità e la purezza. Non dobbiamo nemmeno accampare la scusa che non abbiamo la capacità di farlo e che siamo come dei debitori insolventi che non sono in grado di farlo. Perché l’onore di Dio non può essere misurato secondo la nostra capacità – possiamo essere chi vogliamo essere, ma lui rimane lo stesso: un amico della giustizia e un nemico dell’ingiustizia! Qualunque cosa ci chieda – perché lui può esigere solo ciò che è giusto! Siamo tenuti per natura ad obbedire; se non siamo in grado di fare qualcosa, è una nostra mancanza. Se siamo tenuti in schiavitù dalla nostra cupidigia, in cui il peccato regna sovrano, così che non possiamo obbedire liberamente a nostro Padre, non possiamo scusarci con la necessità che pesa su di noi – perché il male è in noi ed è imputabile a noi.

II,8,3 Se dunque siamo progrediti attraverso la legge a questa conoscenza, dobbiamo ora ritornare a noi stessi sotto la sua guida; e da questo seguono per noi due cose. In primo luogo, quando confrontiamo la giustizia richiesta dalla legge con la nostra vita, ci rendiamo conto che siamo ben lungi dall’essere conformi alla volontà di Dio, e che siamo quindi indegni di essere annoverati tra le sue creature, per non parlare dei suoi figli. E in secondo luogo, quando guardiamo i nostri poteri, troviamo che non sono troppo deboli, ma completamente incapaci di adempiere la legge. Da tale intuizione segue necessariamente la sfiducia nelle proprie forze, e allo stesso tempo la paura e l’ansia interiore. Perché la coscienza non può sopportare il peso dell’ingiustizia senza vedersi presto portata davanti al giudizio di Dio. Ma questo non è possibile senza la paura della morte che ci assale. Allo stesso modo, però, la coscienza è condannata dall’evidenza della nostra impotenza e quindi cade necessariamente nella completa disperazione dei propri poteri. Ognuna di queste due esperienze (la paura della morte e la disperazione delle proprie forze) ci porta ora all’umiltà e al rifiuto di sé, – e così l’uomo alla fine, sotto la sensazione della morte eterna, che giustamente aspetta per la sua ingiustizia, arriva a questo, rifugiarsi nella misericordia di Dio come unico porto di salvezza, sentire che non è in suo potere soddisfare la richiesta della legge, disperare di se stesso e poi chiedere l’aiuto che deve implorare e aspettare da altrove!

II,8,4 Ma il Signore non si accontenta di dare alla sua giustizia la riverenza che merita; vuole anche mettere nei nostri cuori l’amore per la giustizia e allo stesso tempo l’odio per l’ingiustizia e a questo scopo ha aggiunto alla legge promesse e minacce. Perché il nostro occhio interiore è così oscurato che non è più toccato dalla bellezza del bene; e perciò il Padre, nella sua grande bontà e misericordia, ha voluto provocarci con la dolcezza delle ricompense ad amarlo e a desiderarlo. Egli proclama così che chi fa bene può aspettarsi una ricompensa da Lui e che nessuno che segue i suoi comandamenti avrà faticato invano. Ma d’altra parte fa anche sapere che l’ingiustizia è per lui abominevole e non deve rimanere impunita, anzi che lui stesso agirà come severo castigatore per il disprezzo della sua maestà. E per non tralasciare nessun incoraggiamento, promette a coloro che osservano i suoi comandamenti benedizioni nella vita temporale così come la beatitudine eterna, ma ai trasgressori minaccia anche la miseria presente e anche la pena della morte eterna. La promessa: "Chi fa queste cose vivrà" (Lev 18:5) corrisponde alla minaccia: "Chiunque pecca, morirà" (Ez 18:4, 20), e questi due detti si riferiscono senza dubbio all’immortalità futura ed eterna, rispettivamente alla morte futura e senza fine! Naturalmente, ovunque si parli della benevolenza di Dio o dell’ira di Dio, ci si riferisce anche alla vita eterna o alla morte eterna. Ma per quanto riguarda le benedizioni e le punizioni presenti, temporali, la legge ci dà una lunga lista (Lev 26:3-39; Deut 28:1-68). Così nelle punizioni si dimostra l’infinita santità di Dio, che non è in grado di sopportare l’ingiustizia, ma nelle promesse il suo supremo amore di giustizia, che non manca di ricompense, e ancor più la sua meravigliosa bontà. Perché noi siamo impegnati verso Sua Maestà con tutto ciò che abbiamo, ed Egli ha il pieno diritto di reclamare come debito tutto ciò che esige da noi – ma la restituzione di un debito non vale nessuna ricompensa! Così abbandona il proprio diritto quando offre una ricompensa per la nostra obbedienza, anche se non è volontaria - come se non fossimo obbligati a farlo comunque! Ma quale sia l’utilità delle promesse e delle minacce stesse per noi è già stato detto in parte, e in parte diventerà più chiaro al suo posto. Per il momento, ci basta tenere a mente che la giustizia è lodata soprattutto nelle promesse della Legge, affinché possiamo riconoscere meglio quanto l’obbedienza piaccia a Dio. Inoltre, non dimentichiamo che i castighi hanno lo scopo di far sembrare l’ingiustizia ancora più maledetta, affinché il peccatore non sia ingannato dalle lusinghe del vizio a dimenticare il giudizio del Legislatore preparato per lui!

II,8,5 INel presentarci la regola della giustizia perfetta, il Signore la rimanda sempre alla sua volontà, e testimonia così che nulla gli è più gradito dell’obbedienza. Questo deve essere osservato tanto più attentamente, poiché l’iniquità dello spirito umano sta sempre escogitando ogni tipo di servizio divino per guadagnare qualcosa davanti a Dio. Questa pietà empia, che è inerente allo spirito umano, si è manifestata in tutti i tempi, e lo fa ancora oggi: perché è evidente che gli uomini hanno sempre una tendenza molto speciale a concepire il proprio modo di fare giustizia a prescindere dalla Parola di Dio. Ecco perché i comandamenti della legge hanno poco posto nelle cosiddette "buone opere", perché questo enorme sciame di "comandamenti" umani occupa tutto lo spazio! Mosè, tuttavia, voleva prevenire proprio questa dissolutezza; ed è per questo che si rivolge al popolo dopo la proclamazione della Legge: "Guardate e ascoltate tutte queste parole che vi comando, perché sia bene a voi e ai vostri figli dopo di voi per sempre, perché avete fatto ciò che è giusto e gradito agli occhi del Signore vostro Dio" (Deut 12:28). E: "Tutto ciò che vi comando, lo osserverete… Non vi aggiungerete e non ne toglierete" (Deut 13:1). Prima aveva detto che questa era la saggezza e la comprensione del popolo di fronte a tutte le nazioni, che avevano ricevuto dal Signore i giudizi, i diritti e le cerimonie; quindi aggiunge subito: "Solo bada e conserva bene la tua anima, affinché non dimentichi le storie che i tuoi occhi hanno visto e che non escano dal tuo cuore…" (Deut 4:9). (Deut 4:9). Dio prevedeva che gli israeliti non si sarebbero accontentati di ricevere la legge, e che se non gli si resisteva, avrebbero inventato sempre nuovi modi di servire Dio, e perciò proclamò loro: Ecco la perfetta giustizia decretata! Questo deve essere stato necessariamente un ostacolo molto forte – eppure non si sono lasciati dissuadere da questa presunzione così strettamente proibita! E noi? Questa parola è anche vincolante per noi, perché il fatto che il Signore solo dia alla sua legge il diritto di insegnarci la giustizia perfetta è eternamente valido! Noi, però, non ci accontentiamo di questo e facciamo uno sforzo superstizioso per escogitare e forgiare sempre nuove opere buone! Il miglior mezzo per curare questa infermità è ricordare che Dio ci ha dato la legge per insegnarci la giustizia perfetta, che non ci è richiesta altra giustizia se non quella di agire secondo la volontà di Dio, e che è quindi inutile inventare nuovi tipi di opere per ottenere meriti davanti a Dio, perché egli vuole essere onorato secondo la sua legge solo attraverso l’obbedienza. Sì, uno zelo per le opere buone che va oltre la legge di Dio è addirittura una profanazione intollerabile della divina, vera giustizia. È molto giusto che Agostino chiami l’obbedienza a Dio talvolta la madre e la custode di tutte le virtù, talvolta anche la loro radice (Sullo Stato di Dio, XIV,12 e altri).

II,8,6 Ma quando la legge del Signore ci sarà stata spiegata, ciò che ho detto sopra sull’ufficio e sull’applicazione della legge sarà confermato giustamente e con maggior efficacia. Ma prima di procedere all’interpretazione della legge nelle sue singole parti, bisogna prima dire alcune cose che sono necessarie per la sua comprensione generale. Prima di tutto, bisogna dire che la legge non educa semplicemente la nostra vita umana a una rispettabilità esteriore, ma a una giustizia interiore e spirituale. Nessuno può negarlo, ma pochi vi prestano la dovuta attenzione. Questo perché non guardano al Legislatore, secondo la cui natura e spirito la natura della legge deve essere giudicata. Se un re proibisce la fornicazione, l’omicidio o il furto, e qualcuno ha semplicemente il desiderio nel suo cuore di fornicare, uccidere o rubare, ma non ha effettivamente fatto nessuna di queste cose, certamente non sarà punito. Perché le misure del legislatore terreno sono finalizzate solo alla conservazione dell’ordine civile esterno (civilitas), e quindi le sue ordinanze sono trasgredite solo da veri e propri misfatti. Ma all’occhio di Dio non sfugge nulla, e non si ferma alle apparenze esteriori, ma guarda la vera purezza del cuore; così quando proibisce la fornicazione, l’omicidio e il furto, proibisce anche la lussuria, l’ira, l’odio, il desiderio dei beni altrui, le cattive intenzioni e tutte queste cose! Perché egli è un legislatore spirituale, e quindi la sua parola si applica all’anima come al corpo. Perché anche l’ira e l’odio sono omicidi dell’anima, il cattivo desiderio e l’avidità sono già furti, la cattiva lussuria è già fornicazione! Ora qualcuno obietterà: Le leggi umane si riferiscono anche all’intenzione e alla volontà e non solo al risultato accidentale. Lo ammetto, ma vale solo nella misura in cui questi sono visibili esteriormente! Prendono in considerazione l’intenzione con cui è stato fatto questo o quell’atto, ma non indagano i pensieri più segreti! Pertanto, sono soddisfatti se qualcuno si limita a tenere la mano lontana dalla trasgressione. Ma poiché la legge celeste è data alle nostre anime, la sua giusta osservanza include soprattutto la disciplina interiore. L’uomo comune, invece, anche se nega coraggiosamente di essere un dispregiatore della legge, mette gli occhi, i piedi, le mani e tutte le parti del suo corpo, per così dire, al servizio dell’osservanza della legge – solo il suo cuore rimane lontano dall’obbedienza e pensa di aver già fatto abbastanza se nasconde agli uomini ciò che fa al cospetto di Dio. Queste persone sentono: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare – e inoltre non stendono la spada per uccidere, tengono pulito il loro corpo dal trattare con le prostitute, tengono le mani lontane dalla proprietà altrui. Finora tutto è giusto e buono. Ma nei loro cuori sono pieni di pensieri omicidi, brillano di lussuria, guardano i beni di tutti con occhi storti e li divorano con cupidigia! Mancano proprio di ciò che è la cosa principale della legge. Perché da dove può venire questa grande mancanza di comprensione se non dal fatto che essi ignorano il Legislatore e dispongono la loro giustizia più secondo la loro propria natura? Paolo resiste a questa illusione e afferma: "La legge è spirituale" (Rom 7,14). Cioè, esige non solo l’obbedienza dell’anima, della mente e della volontà, ma una purezza angelica, liberata da tutte le macchie della carne, che non cerca altro che ciò che è spirituale.

II,8,7 Quando dichiariamo che questa è l’intenzione della legge, non stiamo proponendo una nuova interpretazione per conto nostro, ma stiamo seguendo il miglior interprete della legge: Cristo! I farisei avevano insegnato al popolo l’opinione sbagliata che la legge era adempiuta da colui che non aveva fatto nulla contro la legge. Cristo si oppose a questo errore pernicioso e proclamò: "Chi guarda una donna per concupirla ha commesso adulterio con lei", e testimoniò anche: "Chi odia suo fratello è un assassino". Sì, egli dichiara colpevole di giudizio colui che dà luogo all’ira nel suo cuore, e colpevole di consiglio colui che dà segno mormorando e brontolando di essere offeso, e persino colpevole di fuoco infernale colui che sfoga apertamente la sua ira con parole blasfeme e rimproveri (Mat 5,21 s.28.43 ss.). Le persone che non hanno capito questo hanno fatto di Cristo un secondo Mosè che avrebbe dato la "Legge del Vangelo" che avrebbe colmato la mancanza della Legge mosaica. Da qui la nota frase sulla perfezione della "legge evangelica", che si eleva molto al di sopra della vecchia legge – una frase molto pericolosa sotto molti aspetti! Perché dalla stessa Legge di Mosè, quando arriveremo a determinarne il contenuto principale, vedremo quale indegno insulto porta questa frase. Essa porta almeno la santità dei padri sotto il sospetto di ipocrisia, e allo stesso tempo ci allontana da quell’unica e duratura guida di rettitudine. Questo errore, tuttavia, è molto facile da respingere: perché si pensava che Cristo aggiungesse qualcosa alla legge, mentre in realtà la restituiva solo alla sua purezza originale, liberandola e purificandola dall’opera menzognera e dal lievito dei farisei.

II,8,8 In secondo luogo, notiamo che nei comandamenti e nelle proibizioni c’è sempre più di quanto non sia espresso a parole; ma in questo dobbiamo essere moderati e non trattare la legge come una regola lesbica, in base alla quale si potrebbero interpretare le Scritture secondo il proprio arbitrio e fare qualsiasi cosa. Alcuni, nella loro presunzione, vanno così sfrenatamente oltre il contenuto che ora il prestigio della Legge è completamente perso da alcuni, e altri ancora disperano di poterla mai comprendere. Dobbiamo quindi cercare, per quanto possibile, di trovare una via che ci conduca in modo diretto e costante alla conoscenza della volontà di Dio. A mio parere, bisogna esaminare fino a che punto la spiegazione possa andare oltre le parole, in modo che ovviamente la legge divina non riceva un’appendice di osservazioni umane, ma venga riprodotto fedelmente il senso puro e chiaro del Legislatore stesso. Certamente ci sono espressioni in quasi tutti i comandamenti che evidentemente includono molte altre cose (manifestae sunt synekdochae), così che sarebbe ridicolo se qualcuno volesse comprimere il significato della legge nello stretto spazio delle parole. Che si possa quindi andare oltre le parole in un’interpretazione ragionevole della legge è ovvio; ma fino a che punto ciò sia possibile rimane oscuro, a meno che non si stabilisca una misura e una meta. A mio parere, però, il modo migliore per farlo è considerare la causa e lo scopo del comandamento; per ogni comandamento dobbiamo quindi considerare per quale scopo ci è stato dato. Per esempio: ogni comandamento è o un comandamento o un divieto. Il vero contenuto diventa immediatamente evidente in ogni caso quando rivolgiamo la nostra attenzione alla causa o all’intenzione. Per esempio, l’intenzione del quinto comandamento è di dare onore a coloro ai quali Dio lo ha dato. Il contenuto essenziale (summa) di questo comandamento è così: è giusto e gradito a Dio che onoriamo coloro ai quali egli ha in qualche modo conferito una dignità speciale; se mostriamo loro disprezzo o disobbedienza, è un abominio per il Signore. L’intenzione del primo comandamento è: solo Dio deve essere onorato. Pertanto, il contenuto principale di questo comandamento sarà: La vera pietà, cioè l’ossequio alla sua maestà divina è secondo il cuore di Dio; l’empietà è un abominio per Lui. Così, con ogni comandamento, dobbiamo prima vedere di cosa si tratta in realtà, poi cercare l’intenzione – fino a trovare ciò che qui piace o dispiace al Legislatore secondo la sua proclamazione. Infine, dobbiamo concludere il contrario, così: Se questo o quello piace a Dio, il contrario gli dispiace; se questo o quello gli dispiace, il contrario gli piace; se comanda una cosa, proibisce il contrario; se proibisce questo, decreta il contrario!

II,8,9 Ciò che ora è solo sfiorato un po’ vagamente diventerà perfettamente chiaro dalla pratica nella spiegazione dei comandamenti stessi. Perciò, in generale, basterà un breve accenno; solo l’ultima frase, che altrimenti o non sarebbe compresa affatto, o anche allora potrebbe apparire abbastanza contraddittoria all’inizio, deve essere ancora brevemente provata e affermata. La frase: Se il bene è comandato, allora il contrario, cioè il male, è proibito – non ha bisogno di prove; la sua correttezza è ammessa da tutti. Che con la proibizione del male il contrario sia comandato come un dovere è anche generalmente accettato senza contraddizione. Che le virtù siano lodate condannando il loro opposto come vizio è opinione comune. Ma noi abbiamo bisogno di qualcosa di più di quello che queste frasi comunemente implicano. Perché per virtù, che si oppone al vizio, si intende comunemente solo l’astensione dal vizio in questione; ma secondo me si deve intendere di più: cioè l’effettivo svolgimento del compito doveroso (opposto al vizio)! Così il senso comune intende per la richiesta del comandamento: "Non uccidere" solo questo, che ci si deve astenere da ogni oltraggio e anche dal desiderio di farlo. Ma penso che significhi anche che dobbiamo preservare la vita del nostro prossimo con tutti i mezzi a nostra disposizione. Questo non dovrebbe essere detto senza giustificazione. Perché Dio ci proibisce di ferire irragionevolmente il nostro fratello o di fargli violenza, perché secondo la sua volontà la sua vita deve essere cara e preziosa per noi; perciò esige allo stesso tempo il servizio dell’amore per la conservazione di questa vita! E così saremo sempre in grado di discernere dall’intenzione di un comandamento ciò che dobbiamo fare o non fare!

II,8,10 Come è possibile, allora, che in questo modo Dio menzioni effettivamente solo la metà dei comandamenti, e che in questo senso non dichiari tanto espressamente la sua volontà, quanto solo accenni ad essa con la tacita aggiunta di ulteriori requisiti (per synecdochas)? Ci sono molte ragioni addotte per questo, ma una in particolare mi piace: la carne si affanna sempre a sminuire l’atrocità del peccato, se non è palpabile, e ad adornarlo con pretesti apparentemente formidabili; per questa ragione Dio ha chiaramente pronunciato come esempio il tipo più orribile e sacrilego di trasgressione del comandamento in questione; in modo che la nostra sensibilità debba rabbrividire al solo sentirlo, e i nostri cuori debbano essere instillati con tutta la maggiore ripugnanza del peccato in ogni forma. Quando giudichiamo un vizio, siamo spesso ingannati dall’inclinazione a prenderlo più alla leggera quando si mostra meno apertamente. Il Signore impedisce tale inganno abituandoci a ricondurre tutti i vizi insieme a quei vizi principali che rappresentano più chiaramente ciò che è ripugnante a Dio nel particolare rispetto. Per esempio, l’ira e l’odio non sono considerati peccati particolarmente odiosi quando avvengono sotto il loro stesso nome, ma quando sono proibiti come omicidio, vediamo più chiaramente quanto siano ripugnanti a Dio, la cui parola li mette sullo stesso piano di una tale atrocità, e siamo abituati da questo giudizio di Dio a prendere più seriamente la gravità di queste offese che prima disdegnavamo.

II,8,11 Poi, in terzo luogo, dobbiamo considerare cosa significa la divisione della legge divina in due tavole; questo è così spesso menzionato solennemente, e tuttavia ogni uomo ragionevole vede che questo non è fatto senza ragione o nel blu. Ma la ragione è rapidamente a portata di mano, così che non dobbiamo più dubitare. Perché Dio ha diviso la sua legge in due parti – che ora comprendono tutta la giustizia! – che la prima parte comprende i doveri (effettivi) di adorazione di Dio, che quindi si riferiscono in modo speciale all’adorazione della Sua maestà divina, mentre la seconda parte comprende i doveri di amore, che quindi si riferiscono agli esseri umani. Il fondamento più nobile di tutta la rettitudine è certamente il culto di Dio; se questo viene distrutto, tutti gli altri pezzi della rettitudine cadono insieme come i pezzi lacerati e rotti di un edificio. Perché che razza di giustizia è quando un uomo lascia l’uomo rubando e rapinando, ma nel frattempo deruba Dio della sua maestà e del suo onore in un abominevole sacrilegio, quando un uomo non contamina il suo corpo con la fornicazione, ma dissacra il santo nome di Dio con bestemmie – o quando un uomo non uccide un uomo, ma cerca di uccidere e spegnere ogni pensiero di Dio? Senza riverenza per Dio, è vano vantarsi della rettitudine: è altrettanto insensato come se si volesse presentare un torso senza testa come immagine di bellezza! Perché la pietà non è solo la parte più nobile della giustizia, ma la sua stessa anima, che pervade e anima tutte le cose; e senza il timore di Dio gli uomini non possono mantenere la giustizia e l’amore nemmeno tra di loro. Chiamiamo dunque l’adorazione di Dio il principio e il fondamento della giustizia; perché se non c’è più, tutto ciò che gli uomini hanno ancora tra di loro in materia di rettitudine, astinenza, temperanza, è nullo e inutile davanti a Dio! Noi chiamiamo l’adorazione di Dio la fonte e lo spirito della rettitudine; perché gli uomini imparano a vivere nella disciplina e senza errori tra di loro solo quando adorano Dio come giudice del bene e del male. Perciò, nella prima tavola, Dio ci ha istruiti nella pietà e nei doveri propri della religione, con i quali la sua divina maestà deve essere adorata. La seconda tavoletta ci prescrive poi come dobbiamo comportarci nella comunione degli uomini per il timore del Suo nome. Secondo il racconto degli evangelisti, nostro Signore (Cristo) ha riassunto tutta la legge in due parti principali: "Amerai Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze – e il tuo prossimo come te stesso" (Mat 22,37 s s. Luca 10,27). Così lascia la legge in due parti e riferisce la prima a Dio, la seconda agli uomini.

II,8,12 Così tutta la legge consiste in realtà in due parti, ma il nostro Dio ha voluto togliere ogni scusa per l’autoesclusione e ha quindi specificato in dieci comandamenti come dobbiamo onorare, temere e amare Lui e poi anche amare gli uomini, come ci ordina di fare per amor Suo. Non è nemmeno uno sforzo mal applicato pensare alla divisione dei comandamenti; solo dobbiamo considerare che a questo proposito ognuno deve avere il suo libero giudizio e che non si deve entrare subito in conflitto ostile con chi la pensa diversamente! Dobbiamo necessariamente entrare in questa questione, affinché il lettore, in vista della nostra classificazione, che deve ancora seguire, non parli con disprezzo o con stupore di una cosa nuova e appena inventata. Al di là di ogni controversia è il fatto che la legge consiste di dieci "parole"; Dio stesso lo conferma spesso. Pertanto, il disaccordo non riguarda il numero, ma il modo in cui è diviso. Alcuni dividono in modo tale che tre parole sono date alla prima tavoletta e le rimanenti sette alla seconda; coloro che fanno questo eliminano la proibizione delle immagini (2° comandamento) dal numero dei comandamenti o la nascondono sotto il primo, sebbene il Signore l’abbia indubbiamente data come un comandamento speciale; inoltre, il 10° comandamento, cioè "Non desiderare i beni del tuo prossimo…", deve allora essere inappropriatamente diviso in due comandamenti. Inoltre, come vedremo presto, questo metodo di divisione era sconosciuto alla Chiesa nel suo tempo incorrotto. Altri contano con noi quattro comandamenti nella prima tavola, ma invece del 1° comandamento citano solo la promessa (data lì), senza comandamento. Ma io capisco, a meno che non sia convinto da ragioni plausibili del contrario, che le dieci "parole" di Mosè siano dieci comandamenti, e mi sembra anche che siano impeccabilmente divise in tale numero. Lascio quindi gli altri alla loro convinzione, e da parte mia seguo quello che mi sembra il più corretto: quello che alcuni hanno voluto fare del primo comandamento mi sembra essere una prefazione a tutta la legge; seguono poi i primi quattro comandamenti della prima tavola, e poi i sei della seconda, nell’ordine in cui saranno poi enumerati. Di questa divisione Origene riferisce che era generalmente accettata senza controversie al suo tempo (Omelie sull’Esodo, 8). Anche Agostino è d’accordo con questo; egli osserva il seguente ordine nell’enumerazione dei comandamenti: Dobbiamo servire e obbedire solo a Dio, non adorare idoli, non nominare il nome di Dio invano -, mentre prima aveva parlato solo dell’antico comandamento del sabato (A Bonifacio, Libro III). Certo, in un altro luogo dichiara anche il suo gradimento per la prima divisione menzionata, ma solo per la ragione troppo insignificante che il mistero della Trinità è meglio espresso nel numero tre quando la prima tavola è divisa in tre comandamenti. Tuttavia, non nega a questo punto che delle altre divisioni gli piace quella che abbiamo presentato di più (Domande sull’Eptateuco). Anche l’autore dell’"opera incompiuta su Matteo" è d’accordo con noi. Giuseppe, seguendo l’opinione generale dei suoi contemporanei, assegna senza dubbio cinque comandamenti a ciascuna delle due tavole. Ma questo è contrario alla ragione, in quanto il culto di Dio e l’amore del prossimo sono ora lasciati indivisi. Una tale procedura contraddice anche l’autorità del Signore stesso, che include il comandamento "Onorerai tuo padre e tua madre…" nella seconda tavola (Mat 19,19). Ma ora ascoltiamo Dio stesso che ci parla nella Sua Parola: Primo comandamento. Io sono il Signore, il tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù; tu non avrai altri dèi davanti a me.

II,8,13 Che la prima frase sia fatta parte del primo comandamento o che venga letta da sola, è per me una questione indifferente; solo non si neghi che è una specie di prefazione a tutta la legge. Quando si danno delle leggi, la prima cosa da fare è vedere che non cadano presto in disprezzo e siano archiviate. Così anche Dio fa in modo che la dignità della sua legge, così come la dà, non cada in disprezzo; quindi la rende inviolabile con una triplice giustificazione. In primo luogo, egli si attribuisce il potere e il diritto di comandare, per obbligare il popolo eletto all’obbedienza incondizionata. Poi, in secondo luogo, dà la sua promessa di grazia per invogliare il popolo a cercare la santità attraverso la sua dolcezza. E in terzo luogo, ricorda loro le sue buone azioni già compiute per condannare gli ebrei della loro ingratitudine quando non si sono comportati in modo degno della sua bontà. Il nome "Signore" ("Jehovah") denota il suo diritto di governare e il suo potere. Se tutte le cose sono da Lui e tutte le cose hanno il loro essere in Lui, allora tutte le cose devono anche essere riferite a Lui, come dice Paolo (Rom 11:36). Così con questa sola parola siamo portati pienamente sotto il giogo della maestà divina; perché sarebbe mostruoso se ci sottraessimo al potere di Colui da cui non possiamo essere!

II,8,14 Così il Signore si è mostrato come Colui che ha il diritto di comandare e che deve essere obbedito. Ma non vuole che ci sentiamo costretti da soli, e perciò ci attira gentilmente e si chiama il Dio della sua Chiesa. Perché questa frase ("Io sono il Signore vostro Dio…") denota una relazione reciproca come espressa nella promessa: "Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo" (Ger 31:33). Cristo prova l’immortalità di Abramo, Isacco e Giacobbe con il fatto che il Signore ha testimoniato di essere il loro Dio (Mat 22,32). È come se dicesse: "Vi ho scelto come popolo al quale non solo farò del bene in questa vita, ma concederò anche la benedizione della vita eterna. Dove questo deve portare, la legge lo nota in vari punti. Se il Signore ci ha considerati degni di tale misericordia per appartenere al Suo popolo, allora vale anche ciò che dice Mosè: "Egli ci ha scelti per essere un popolo di possesso per Lui, una nazione santa, e per osservare i Suoi comandamenti" (Deut 7:6; 14:2; 26:18 s. riassunto). Da questo segue anche l’ammonizione: "Voi sarete santi, perché io sono santo" (Lev 19:2). Da queste due testimonianze nasce poi anche il rimprovero del profeta Malachia: "Un figlio onorerà suo padre e un servo il suo signore. Sono ora padre, dov’è il mio onore? Sono io signore, dove mi temono?". (Mal 1,6).

II,8,15 Inoltre, Dio si ricorda dei benefici che ha mostrato al popolo. Questo ha un potere ancora maggiore per portarci all’obbedienza, poiché anche tra gli uomini l’ingratitudine è considerata una grave iniquità. È vero che Dio ricordò al popolo d’Israele a questo punto un beneficio che gli era stato concesso di recente, ma a causa della sua meravigliosa grandezza doveva essere ricordato per tutti i tempi e rimanere in vigore anche per i loro discendenti. Ma è anche particolarmente adatto per l’applicazione alla materia in questione. Perché il Signore indica che il Suo popolo è stato liberato dalla sua misera schiavitù e che ora adora con gioia il suo Liberatore. Ma per mantenerci nel giusto culto che appartiene solo a lui, egli usa anche certi nomi per distinguere la sua santa maestà divina (sacrum eius numen) da tutti gli idoli e tutti gli dei immaginari. Perché noi siamo – come ho già mostrato – così inclini alla vanità e alla presunzione che non possiamo nemmeno sentire il nome "Dio" senza necessariamente cadere immediatamente in qualche vuota fantasia. Dio stesso vuole porre rimedio a questo male, e perciò adorna la sua divinità con certi titoli e, per così dire, pone un recinto per noi, affinché non vaghiamo e non inventiamo presuntuosamente qualche nuovo dio, abbandonando così il Dio vivente ed erigendo un idolo per noi stessi! Perciò, quando i profeti vogliono descrivere Dio in modo speciale, lo rivestono, anzi lo racchiudono, per così dire, con le caratteristiche sotto le quali si era rivelato al popolo d’Israele. Quando è chiamato il "Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe" (Es 3:6), quando la Sua dimora è cercata nel tempio di Gerusalemme tra i cherubini (Am. 1:2; Ab. 2:20; Sal 80:2; 99:1; Isa 37:16), allora è chiamato il Dio d’Israele. 37,16), tali espressioni non Lo legano a un luogo o a un popolo; piuttosto, servono solo a dirigere i pensieri dei fedeli in modo inamovibile verso il Dio che, nell’alleanza che ha fatto con Israele, si è presentato in modo tale che non ci si può più allontanare da questa immagine in nessuna circostanza. Questo, tuttavia, deve essere notato: la redenzione (dalla schiavitù) è menzionata affinché gli ebrei siano più disposti ad arrendersi a Dio, che li aveva acquistati secondo il suo proprio diritto. Non dobbiamo però pensare che questa redenzione non ci riguardi; e quindi dobbiamo considerare che la schiavitù egiziana di Israele è un modello della prigionia spirituale in cui tutti noi ci troviamo finché il liberatore celeste, con la potenza del suo braccio, ci libera e ci conduce nel regno della libertà. Come una volta Dio strappò gli israeliti dall’insopportabile dominio del faraone, che li opprimeva, per radunarli dalla loro dispersione al culto del suo nome, così anche oggi protegge tutti coloro di cui testimonia il Dio dalla terribile violenza del diavolo, di cui quella schiavitù corporale era un’immagine. Per questo ogni uomo dovrebbe infiammarsi nel cuore ad ascoltare questa legge, quando sente che è data dal Signore supremo, dal quale tutto ha la sua origine, e nel quale tutto dovrebbe ora vedere anche la sua meta, secondo la quale deve lasciarsi determinare e allineare! Certamente ognuno dovrebbe essere pervaso dall’amore per questo Legislatore quando sente che è stato scelto per osservare i suoi comandamenti, i comandamenti di questo Legislatore dalla cui bontà si aspetta ogni bene in abbondanza, persino la gloria della vita eterna, dal cui meraviglioso potere egli sa di essere strappato dalle fauci della morte!

II,8,16 Dopo che Dio ha stabilito l’autorità della sua legge, dà il primo comandamento: che non dobbiamo avere altri dei "davanti a Lui". Lo scopo di questo comandamento è questo: Dio vuole essere grande nel suo popolo tutto da solo ed esercitare pienamente la sua legge. A questo scopo, secondo il suo comandamento, ogni empietà deve allontanarsi da noi e ogni superstizione che diminuisce o oscura la gloria della sua divina maestà. E per la stessa ragione ci comanda di adorarlo e di adorarlo con vera pietà. Questo segue dal semplice significato della parola, perché non possiamo averlo come nostro Dio senza allo stesso tempo appropriarci di tutto ciò che gli appartiene. Così, quando ci proibisce di avere altri dei, ci fa capire che non dobbiamo trasferire ciò che è nostro a un altro. Ora, ciò che dobbiamo a Dio è di natura molto varia, ma può essere riassunto abbastanza bene in quattro punti principali. Questi sono (1.) l’adorazione, a cui si aggiunge, per così dire, l’obbedienza spirituale in coscienza, poi (2.) la fiducia, (3.) l’invocazione, e infine (4.) il ringraziamento. (1.) Per adorazione intendo l’omaggio e la riverenza che tutti gli rendiamo quando ci sottomettiamo alla sua grandezza. Perciò è ben fondato quando ho fatto della sottomissione della nostra coscienza alla sua legge un pezzo di questo culto. (2.) La fiducia è la sicura sicurezza del nostro cuore nei suoi confronti, come quella che otteniamo quando riconosciamo giustamente lui e le sue gloriose virtù, quando guardiamo a lui solo per la saggezza e la giustizia, la potenza, la verità e la bontà, e vediamo nella comunione con lui solo la nostra beatitudine. (3.) L’invocazione ha luogo quando il nostro cuore, in tutte le angosce che possono assalirci, si rifugia nella sua fedeltà come unica speranza. (4.) Il ringraziamento è l’espressione della nostra gratitudine, che offre a lui solo la lode e la gloria per tutte le sue buone azioni. Perché il Signore non vuole dare tutto questo a nessun altro e perciò ci comanda di offrirlo solo a Lui! Non basta affatto guardarsi da tutti gli dei stranieri, no, bisogna essere veramente devoti a lui; perché ci sono inutili disprezzatori di Dio che riversano il loro ridicolo su tutte e tutte le religioni! Se vogliamo osservare correttamente questo comandamento, la vera riverenza per Dio deve essere già presente in noi, spingendoci ad abbandonarci completamente al Dio vivente. Una volta che abbiamo ottenuto la conoscenza di Dio in questo modo, dovremmo avere solo questo come obiettivo in tutta la nostra vita: rispettare, onorare e riverire la Sua maestà, prendere parte ai Suoi beni, cercare ogni aiuto da Lui, riconoscere e lodare la grandezza delle Sue opere! Allora dovremmo anche evitare tutte le superstizioni malvagie, che allontanano il cuore da Dio e lo trascinano qua e là verso ogni tipo di divinità. Se vogliamo veramente essere soddisfatti dell’unico Dio, dobbiamo, come ho detto, abbandonare tutti gli dei fittizi e fare attenzione a non disturbare il servizio di Dio, che solo lui ha riservato per sé. Perché non deve essere tolta la minima cosa al suo onore, ma deve ricevere veramente ciò che gli è dovuto. L’aggiunta di "davanti a me" (testo di Lutero: "accanto a me") aumenta la riprovevolezza del vizio. Perché noi lo provochiamo allo zelo quando mettiamo divinità immaginarie al suo posto, proprio come una donna svergognata provoca il marito all’ira ancora di più quando si occupa del suo amante davanti ai suoi occhi. Dio ha promesso di essere con il popolo eletto con potenza e grazia presente e di vegliare su di esso per dissuaderlo ancora di più dal sacrilegio dell’apostasia, e così ora gli ricorda: è impossibile passare a dèi stranieri senza che lui veda tale sacrilegio e sia suo testimone! Ma tale presunzione cresce in una terribile empietà quando uno pensa di poter rimanere nascosto a Dio con la sua apostasia. D’altra parte, il Signore ci fa sapere che tutto ciò che pensiamo, facciamo e mettiamo in pratica passa davanti al suo volto. Pertanto, la nostra coscienza deve essere libera anche dal più recondito pensiero apostata se la nostra adorazione deve piacere al Signore. Perché non vuole che la sua gloria sia preservata pura e incorrotta solo dalla nostra confessione esteriore, ma vuole che tale confessione sia fatta davanti ai suoi occhi, che vedono le cose più nascoste del nostro cuore. Secondo comandamento. Non ti farai alcuna immagine scolpita, né alcuna somiglianza, né di colui che è nei cieli sopra, né di colui che è sulla terra sotto, né di colui che è nelle acque sotto la terra. Non venerateli e non serviteli…

II,8,17 Proprio come Dio ha dichiarato nel comandamento precedente che Egli è Colui al di fuori del quale non si deve pensare o adorare nessun altro dio, così Egli ora dichiara chiaramente che tipo di Dio Egli è e quale tipo di servizio gli è gradito per il suo culto, così che non osiamo imputargli nulla di carnale! L’intenzione di questo comandamento è che non vuole che il suo giusto culto sia profanato da usanze superstiziose. Per questo motivo, e questo è essenzialmente il contenuto del comandamento, egli vuole allontanarci completamente e ritirarci da tutte le idee carnali che la nostra mente, se vuole pensare a Dio nel suo modo grossolano, necessariamente tira fuori, e renderci pronti per il giusto culto di Dio, che è spirituale e che lui stesso ha ordinato. Il vizio più abominevole che può verificarsi nella trasgressione di questo comandamento lo chiama per nome: l’idolatria aperta. Il comandamento è diviso in due parti. Nella prima parte, la nostra disattenzione è contenuta in modo da non sottomettere Dio, che è incomprensibile, ai nostri sensi e osare rappresentarlo in una qualsiasi immagine. Nella seconda parte, ci viene proibito di adorare qualsiasi immagine con un’intenzione di culto (religionis causa). Qui Dio nomina brevemente tutti i tipi di immagini sotto le quali era comunemente rappresentato tra i pagani empi e superstiziosi. Con "ciò che è in cielo" egli intende il sole, la luna, altri corpi celesti e probabilmente anche gli uccelli; come infatti egli menziona espressamente gli uccelli oltre ai corpi celesti nella spiegazione della Legge nel quarto capitolo del Deuteronomio (Deut 4:17, 19). Non avrei menzionato quest’ultimo se alcuni, vedo, non avessero riferito questo passaggio agli angeli! Gli altri passaggi possono essere compresi da soli; perciò li passerò qui sopra. Ho già spiegato abbastanza chiaramente nel primo libro che tutte le forme visibili che l’uomo imputa a Dio sono completamente in contrasto con la natura di Dio, e che ogni erezione di idoli corrompe e falsifica la vera religione.

II,8,18 Le parole di minaccia che vengono ora inflitte hanno lo scopo di risvegliarci dalla nostra pigrizia. Dio minaccia: "Perché io, il Signore vostro Dio, sono un Dio zelante, che visita l’iniquità dei padri sui figli fino alla terza e quarta generazione di coloro che mi odiano, e mostra misericordia a molte migliaia di persone che mi amano e osservano i miei comandamenti. Questo significa tanto quanto se dicesse: io sono l’unico a cui devi aggrapparti! Per farcelo fare, ci presenta il suo potere, che non può essere impunemente disprezzato o sminuito. Usa il nome di Dio "El", cioè Dio; tuttavia, questo nome deriva da "forza", e per esprimerlo più chiaramente, ho tradotto questo "forte" senza esitazione e l’ho inserito nel contesto. Inoltre, si definisce "zelante" o geloso, cioè non può tollerare nessun altro al suo fianco! E in terzo luogo, si mostra vendicatore della sua maestà e della sua gloria contro chiunque conferisca questa gloria alla creatura o a un’immagine umana, non in una semplice e breve punizione, ma in modo permanente, fino ai figli e ai nipoti e ai pronipoti che naturalmente imitano l’empietà paterna! Allo stesso modo, Egli promette anche la Sua misericordia e gentilezza a coloro che Lo amano e osservano la Sua legge, anche ai figli dei loro figli! Dio si paragona spesso a noi come uno sposo, perché l’unione che ha stretto con noi attraverso la nostra accoglienza nel seno della Chiesa è simile al santo matrimonio, che si basa sulla fedeltà reciproca. Come egli stesso esercita l’ufficio di vero sposo verso tutti i credenti, così egli a sua volta esige da noi l’amore e la disciplina coniugale. E questo significa che non dobbiamo consegnare le nostre anime a Satana, alla lussuria e alle sozze concupiscenze della carne per adulterio. Quando Dio punisce l’apostasia degli ebrei, li accusa di aver gettato via ogni vergogna e di essersi contaminati con la fornicazione. E come un marito, quanto più retto e disciplinato egli stesso vive, tanto più violentemente si infuria quando vede il cuore di sua moglie inclinato verso un rivale, così anche il Signore, che si è "promesso" a noi in verità (allusione a Os 2:21 s.), ci annuncia la sua ira gelosa quando dimentichiamo la purezza della sua santa alleanza matrimoniale con noi e cadiamo in adulterio in una lussuria sacrilega. E questo accade soprattutto quando diamo il culto della sua maestà divina, che appartiene solo a lui, ad un altro o lo offuschiamo con qualche superstizione. Perché in questo modo non solo violiamo la colpevole fedeltà coniugale, ma contaminiamo l’alleanza stessa nel disonore adultero.

II,8,19 Ma dobbiamo ancora vedere cosa significa quando è detto nella minaccia che Dio visiterà l’iniquità dei padri sui figli fino alla terza e quarta generazione. Perché è lontano dalla giustizia divina punire un innocente per il misfatto di un altro. E Dio stesso ha assicurato: "Il figlio non porterà l’iniquità del padre" (Ez 18,20). Eppure la frase, come si trova nel comandamento, è ripetuta più di una volta, cioè che la punizione per l’iniquità dei padri ricadrà anche sulle generazioni future. Così Mosè si rivolge più volte a Dio in questo modo: "Signore, Signore, tu che visiti l’iniquità dei padri sui figli fino alla terza e quarta generazione" (Num 14:18). E così anche Geremia: "Tu che fai misericordia a migliaia e fai ricadere l’iniquità dei padri sui figli che vengono dopo di loro" (Ger 32:18). Alcuni, che sudano sulla soluzione di questo nodo, vorrebbero vederlo applicato solo alle punizioni temporali; non pensano che sia assurdo che i figli debbano soffrire per le iniquità dei padri, poiché spesso cadono nella tribolazione per la loro stessa salvezza! Questo è vero in sé; perché Isa minacciò Ezechia che i suoi figli avrebbero perso il regno e sarebbero dovuti andare in esilio a causa del peccato che aveva commesso! (Isa 39,6.7). Infatti, anche la casa di Faraone e Abimelech sono messi in difficoltà – a causa del torto fatto ad Abramo (Gen 12:17; 20:3), ecc. Ma se uno vuole usare questi fatti per risolvere la questione, è più un’evasione che una giusta interpretazione. Perché il castigo minacciato qui e in altri passaggi è troppo severo per essere limitato alla vita presente. Dobbiamo quindi supporre che la giusta maledizione del Signore non poggi solo sul capo del colpevole stesso, ma anche su tutta la sua famiglia. Ma dove prevale la maledizione, c’è qualcos’altro da aspettarsi se non che il padre, abbandonato dallo Spirito di Dio, conduca una vita malvagia, che il figlio, ugualmente abbandonato dal Signore a causa della malvagità di suo padre, prenda la stessa strada rovinosa – e che il nipote e il pronipote, seme respinto di persone respinte, cadano anch’essi nel disastro dopo di loro?

II,8,20 Consideriamo innanzitutto se tale castigo è contrario alla giustizia divina. Se tutta la natura umana è degna di condanna, sappiamo che la rovina è necessariamente preparata per coloro che il Signore non degna di ricevere la sua grazia. Tuttavia, essi periscono per la loro ingiustizia, ma non per l’odio ingiusto verso Dio. Né possono lamentarsi perché loro, come altri, non sono condotti alla salvezza dalla grazia di Dio. Se dunque i malvagi e i malfattori, a causa della loro iniquità, sono puniti in modo che la loro casa sia privata della grazia di Dio per molte generazioni a venire, chi chiamerà Dio a rispondere di tale giusta punizione? – "Ma il Signore ha dichiarato che il figlio non porterà l’iniquità del padre" (Ez 18:20)! – Bisogna fare attenzione a ciò di cui stiamo parlando. Gli Israeliti furono afflitti per lungo tempo da ogni tipo di miseria, e sorse tra loro il proverbio: "I nostri padri hanno mangiato erbe, e i denti dei nostri figli ne sono diventati ottusi". Questo significa: i nostri padri hanno peccato – e noi, che siamo giusti e non meritiamo il castigo, dobbiamo subire il castigo – per cui Dio è imperdonabilmente arrabbiato e non esercita la severità con moderazione! A queste persone il profeta proclama: "Non è così! Perché essi sono afflitti per i loro propri peccati, come egli dimostra, e non è secondo la giustizia di Dio che un figlio giusto debba soffrire la punizione per l’azione malvagia di un padre criminale; ma questo non è il caso della minaccia qui in discussione. Infatti questa "visitazione" di cui si parla avviene perché il Signore ritira la sua grazia, la luce della verità e ogni altro aiuto alla salvezza dalla progenie dei malvagi; e proprio perché i figli, nella loro cecità e abbandono, persistono nel seguire le orme dei loro padri, sono soggetti al castigo per le malefatte dei loro padri. Ma che essi siano sottoposti a disgrazie temporali e infine periscano eternamente, questo accade, secondo il giusto giudizio di Dio, non a causa del peccato di altri, ma a causa della loro propria malvagità.

II,8,21 D’altra parte, c’è la promessa di Dio di mostrare misericordia a molte migliaia. Questo si trova anche frequentemente nella Scrittura, ed è persino parte del solenne patto di Dio con la Sua Chiesa: "Io sarò il tuo Dio – e della tua discendenza dopo di te" (Gen 17:7). Anche Salomone si riferisce a questo e scrive che i figli dei giusti prospereranno dopo la loro morte (Prov 20:7). La ragione di questo non è solo la giusta educazione, che naturalmente non è di poca importanza in sé, ma anche la benedizione promessa nel patto di Dio, che la grazia di Dio regnerà sui figli e sui figli dei pii per sempre! Questa è una grande consolazione per i pii, ma un terribile terrore per i malvagi; perché se anche dopo la morte il ricordo di Dio della giustizia e dell’ingiustizia rimane in vigore, così che la sua maledizione così come la sua benedizione colpisce ancora i discendenti, entrambe devono pesare ancora più pesantemente sulla testa di coloro che hanno fatto il bene o il male stessi! Il fatto che i figli dei malvagi a volte prosperano, ma i figli dei pii degenerano, non dice nulla contro ciò che è stato appena detto; perché il Legislatore non ha voluto dare qui una regola infrangibile, che potrebbe essere una voce per la sua libera elezione. È sufficiente per il conforto del giusto e il terrore del peccatore che questa minaccia non sia vuota o inefficace, anche se non è sempre applicata. Perché le punizioni temporali che colpiscono alcuni empi sono, dopo tutto, una testimonianza dell’ira divina contro il peccato, e anche del prossimo giudizio contro tutti i peccatori, anche se molti se la cavano bene fino alla fine della loro vita. E allo stesso modo, quando il Signore dà un esempio di questa benedizione, che perseguirà il Figlio per amore del Padre con la sua misericordia e gentilezza, è una testimonianza della sua costante e duratura misericordia verso i suoi. E quando punisce una volta l’iniquità del Padre nel Figlio, mostra così quale giudizio attende tutti i malvagi a causa delle loro azioni malvagie; questa certezza è ciò che è più importante qui. Allo stesso tempo, però, egli coglie l’occasione per attirare la nostra attenzione sulla grandezza della sua misericordia, che estende a mille generazioni, mentre la sua vendetta è applicata solo a quattro membri! Terzo Comandamento. Non pronuncerai il nome del Signore tuo Dio invano.

II,8,22 L’intento di questo comandamento è questo: Dio vuole che la maestà del suo nome sia santa per noi! Quindi il contenuto principale sarà quello di non disprezzare questa maestà e di non dissacrarla disonorandola. Secondo la regola che abbiamo stabilito, questa proibizione corrisponde al comandamento: dobbiamo fare in modo di trattare la maestà di Dio con pia riverenza. Pertanto, dobbiamo sorvegliare i nostri cuori e le nostre lingue dal pensare o parlare di Dio stesso e dei suoi misteri senza la dovuta riverenza e timidezza, e anche, quando contempliamo le sue opere, dargli l’onore in ogni nostro pensiero. Da ciò derivano tre tipi di doveri, che dobbiamo osservare molto seriamente. In primo luogo, ciò che le nostre menti pensano di lui, le nostre lingue pronunciano, deve testimoniare la sua dignità, essere appropriato alla gloria del suo santo nome, e infine servire ad esaltare la sua gloria. In secondo luogo, non dobbiamo usare la sua santa parola e i suoi adorabili misteri con noncuranza o a torto, per esempio, per soddisfare la nostra ambizione o avidità o anche per uno scherzo; piuttosto, essi portano il suo nome con tutta la sua dignità e devono quindi essere tenuti in tutto onore da noi. E in terzo luogo, non dobbiamo rimproverare o denigrare le sue opere, come fanno alcuni miserabili che non fanno altro che bestemmiare; ma ogni volta che ricordiamo le sue opere e i suoi atti, dobbiamo lodare la sua saggezza, giustizia e bontà! Cioè, "santificare" il nome di Dio; altrimenti sarà contaminato da un abuso vano e malizioso, perché sarà strappato dall’uso ordinato da Dio, per il quale solo è stato santificato, e per questo stesso fatto, anche se non gli fosse fatto altro disonore, cadrà gradualmente nel disprezzo. Ma se questo uso incauto e inutile del nome di Dio è già qualcosa di così malvagio, lo è ancora di più, naturalmente, se si usa il nome di Dio per tutti i tipi di cose vergognose e peccaminose, come la superstiziosa interrogazione dei morti, maledizioni e maledizioni, incantesimi non autorizzati di spiriti e tale stregoneria senza Dio. In particolare, però, questo comandamento si riferisce al giuramento, in cui l’abuso del nome divino è estremamente detestabile; con questo dobbiamo essere dissuasi da qualsiasi altra profanazione di questo nome. Questo, però, è un comandamento che riguarda la venerazione di Dio e il rispetto del suo nome, ma non l’equità che deve esserci tra gli uomini; ciò deriva dal fatto che nella seconda tavola della legge Dio condanna poi lo spergiuro e la falsa testimonianza, che distruggono la comunione umana: ciò sarebbe una ripetizione superflua se questo comandamento trattasse già il dovere dell’amore. La stessa distinzione (delle due tavole) lo richiede; perché Dio, come ho detto, non ci ha dato la legge in due tavole senza motivo. Così risulta che questo terzo comandamento contiene l’intenzione di proteggere il diritto di Dio e di difendere la santità del suo nome, ma non di insegnare agli uomini ciò che devono gli uni agli altri.

II,8,23 Prima dobbiamo parlare della natura del giuramento. È l’invocazione di Dio come testimone, con cui vogliamo confermare la verità del nostro discorso. Perché le imprecazioni contengono un’aperta bestemmia e quindi non possono essere annoverate tra i giuramenti. Dove, invece, tale invocazione di Dio come testimone è fatta correttamente, è, come è evidente in molti passi della Scrittura, una forma di adorazione di Dio. Così Isa profetizza la chiamata degli Assiri e degli Egiziani nella comunione dell’alleanza con Israele. "Parleranno la lingua di Canaan e giureranno nel nome del Signore" (Isa 19,18). Cioè, con questo giuramento nel nome del Signore, queste nazioni confessano che egli è il loro Dio! Allo stesso modo Isa dice anche, per testimoniare la futura espansione del Regno di Dio: "Chiunque chiederà la salvezza lo farà per il Dio dei fedeli, e chi giura sulla terra giurerà per il vero Dio" (Isa 65,16; non testo di Lutero). Similmente Geremia: "Se impareranno dal mio popolo a giurare sul mio nome, come prima insegnavano al mio popolo a giurare su Baal, saranno edificati tra il mio popolo (Ger 12:16). E si può anche giustamente dire che invocando il nome del Signore come testimonianza – noi testimoniamo la nostra adorazione di questo Signore. Perché così noi confessiamo: Lui è la verità eterna e infallibile, noi lo invochiamo non solo come il testimone distinto della verità sopra tutti gli altri, ma anche come il suo unico protettore, che può portare alla luce ciò che è nascosto, in breve, come il messaggero del cuore! Dove manca la testimonianza degli uomini, ci rifugiamo in Dio come testimone, soprattutto quando si tratta di rivelare ciò che giace nascosto nella coscienza. Ecco perché l’ira del Signore brucia così ferocemente contro coloro che giurano su altri dei, e chiama questo tipo di giuramento un segno di manifesta apostasia da lui. "I tuoi figli mi abbandonano e giurano per quelli che non sono dei" (Ger 5:7). La gravità di questa trasgressione davanti a Lui è rivelata nella minaccia di punizione: "Distruggerò quelli che giurano per il Signore e allo stesso tempo per Milcom" (So s. 1:5).

II,8,24 Abbiamo visto come, secondo la volontà del Signore, i nostri giuramenti devono essere considerati come un pezzo della Sua adorazione. Dobbiamo stare tanto più attenti che non servano a vilipendere, disprezzare e profanare il Suo nome invece di adorarLo. Quindi è una bestemmia contro il Suo nome fare un falso giuramento a Lui, ed è per questo che nella Legge si chiama "profanazione" del nome di Dio (Lev 19:12). Perché cosa rimane al Signore se si toglie la sua verità? Egli cessa di essere Dio! Ma gli togliete davvero la verità quando lo rendete testimone e confermatore di bugie! Perciò anche Giosuè, per far confessare ad Achan la verità, dice: "Figlio mio, dai gloria al Signore Dio d’Israele!". (Gios 7:19); così egli indica che il Signore è disonorato più gravemente se si giura falsamente sul suo nome: non c’è da meravigliarsi, perché da noi in questo modo la macchia della falsità è praticamente marchiata sul suo santo nome! L’espressione usata da Giosuè sembra essere stata in uso generale tra gli ebrei quando volevano invitare qualcuno a fare un giuramento; ciò è evidente dal fatto che nel Vangelo di Giov anche i farisei usano questa formula (Giov 9:24). Altre espressioni usate nella Scrittura, come "Come vive il Signore" (1Sam 14:39), o "Il Signore mi faccia questo e quello" (2 Sam. 3:9), o "Che Dio sia testimone sulla mia anima" (2Cor 1:23), ci ricordano di stare attenti. Tutte queste frasi nel giuramento indicano: non possiamo chiamare Dio a testimone della nostra testimonianza senza allo stesso tempo invocarlo per vendicarci dello spergiuro, se giuriamo falsamente.

II,8,25 Il nome di Dio è anche degradato e reso meschino quando lo usiamo per giuramenti superflui, anche se non falsi. Perché anche in questo caso è usato inutilmente. Perciò non è sufficiente evitare i falsi giuramenti; allo stesso tempo dobbiamo ricordare che i giuramenti non sono permessi e istituiti per la lussuria o il piacere, ma per la necessità. Pertanto, chi usa il giuramento inutilmente va oltre l’uso consentito. Ma il giuramento è necessario quando si tratta di servire la religione o l’amore. Questo è un peccato molto imprudente al giorno d’oggi, ed è tanto peggio perché, come risultato di un’abitudine radicata, tali imprecazioni imprudenti non sono più considerate un peccato, anche se non sono certamente tenute in bassa considerazione davanti al seggio del giudizio di Dio. Così il nome di Dio è dappertutto usato con noncuranza per bestemmiare, anche in sciocchi pettegolezzi; e così facendo non si pensa nemmeno di fare qualcosa di male, perché attraverso una presunzione a lungo praticata e impunita si crede di essere giustamente entrati in possesso di questo vizio! Eppure il comandamento del Signore rimane in vigore, anche la minaccia di punizione rimane ferma – e un giorno entrerà in vigore quando tutti coloro che abusano del Suo nome riceveranno la loro speciale punizione. Ma si pecca anche in un altro modo: cioè, se nel giurare si mettono i suoi santi servitori al posto di Dio. Questa è un’empietà manifesta, perché in questo modo si trasferisce l’onore di Dio ai santi! (Es 23,13). Non è senza motivo che il Signore ci comanda di giurare sul Suo nome e ci proibisce di giurare sul nome di altri dei (Deut 6:13; 10:20). E l’apostolo lo testimonia molto chiaramente: scrive che gli uomini giurano per qualcuno più in alto di loro, ma Dio, al di sopra del quale nessuno si erge nella gloria, ha giurato per se stesso (Ebr 6,16 s.).

II,8,26 Tale moderazione nell’uso del giuramento non è sufficiente per gli anabattisti, ma essi rifiutano completamente il giuramento, perché la proibizione di Cristo di giurare è di applicazione generale: "Ma io vi dico: non giurate affatto… Ma il vostro parlare sia: Sì, sì, no, no; tutto ciò che è sopra queste cose è del male" (Mat 5,34-37). Ma in questo modo essi corrono avventatamente contro Cristo, cioè mettendolo contro il Padre – come se fosse venuto sulla terra per abolire i comandamenti del Padre! Perché l’eterno Dio non solo ha permesso il giuramento nella sua legge come qualcosa di lecito – che di per sé sarebbe una prova sufficiente della liceità del giurare – ma lo ha comandato in caso di necessità! (Es 22,10). Cristo, tuttavia, sottolinea la sua unità con il Padre (Giov 10,30), testimonia che non insegna altro che ciò che il Padre lo ha istruito ad insegnare (Giov 10,16), che il suo insegnamento non è suo ma di colui che lo ha mandato (Giov 7,16) ecc. Come adesso? Vogliamo contraddire Dio con se stesso, che una volta ha dato un comandamento e poi ha proibito e condannato quello che aveva comandato prima? Ma c’è effettivamente una certa difficoltà nelle parole di Cristo; perciò spieghiamole brevemente. Tuttavia, non sapremo mai qual è la cosa giusta da fare se non teniamo ben presente l’intenzione principale di Cristo e il contenuto effettivo delle sue parole. Non intendeva ammorbidire o limitare la legge, ma riportarla al suo giusto e puro significato, che gli scribi e i farisei avevano malamente distorto con le loro fantasie. Se teniamo fermamente questo, non cadremo affatto nell’idea che Cristo abbia rifiutato del tutto il giuramento: egli rifiuta solo il giuramento che lascia la guida data nella legge. Dalle sue stesse parole vediamo che la gente di allora aveva solo un po’ paura dello spergiuro, mentre la legge proibisce non solo i giuramenti falsi ma anche quelli frivoli e superflui! Così il Signore, come il più affidabile interprete della legge, dichiara peccaminose non solo le false bestemmie ma tutte le bestemmie. Ma quale? Ovviamente le parolacce frivole! Lascia il giuramento, che è raccomandato dalla legge, intatto e libero. Gli anabattisti, però, per difendere la loro dottrina, si sono fissati sulla parola "tutte le cose"; questa, però, non appartiene affatto a "giurare", ma si riferisce alle seguenti formule di affermazione. Perché uno degli errori diffusi di quel tempo era la tendenza a giurare sul cielo e sulla terra nella convinzione di eludere il nome di Dio. Così il Signore toglie loro tutte le scuse, oltre alla trasgressione principale, perché non pensino di andare liberi quando hanno nascosto il nome di Dio e chiamato il cielo e la terra come testimoni! Perché qui si deve osservare di sfuggita che un uomo giura su Dio anche quando non menziona espressamente il suo nome, ma lo nasconde sotto ogni sorta di formule, come, per esempio, quando un uomo giura sulla luce della vita, sul pane che lo nutre, sul suo battesimo, o su altri pegni di bontà divina. Così, quando Cristo nel Discorso della Montagna proibisce di giurare sul cielo o sulla terra o sulla città di Gerusalemme, non intende, come alcuni suppongono erroneamente, allontanare la superstizione; piuttosto, intende confutare l’ipocrita sofisma degli ebrei, che pensavano che tali frivoli giuramenti non fossero così male se fatti su alcune cose, non sul nome di Dio, come se uno avesse, per così dire, risparmiato il nome di Dio – che è, dopo tutto, impresso su tutti i benefici individuali! Altra cosa è se, nel giurare, un uomo mortale o qualche morto o anche un angelo prende il posto di Dio; così i pagani hanno escogitato l’espressione malvagia e lusinghiera: "Per la vita del re" o anche: "Per il genio del re". Ora questa è una falsa idolatria degli uomini e serve ad oscurare o sminuire l’onore dell’unico Dio! Ma anche quando si ha solo l’intenzione di aspettarsi un’affermazione del proprio discorso dal nome di Dio stesso, tali giuramenti frivoli – anche se fatti senza menzionare esplicitamente il nome di Dio – significano una violazione della Sua maestà. Cristo toglie il futile pretesto per questa frivolezza proibendo di giurare "ogni cosa". Simile è l’intenzione di Giacomo, che riprende le suddette parole di Cristo (Giac 5,12) – perché quella frivolezza è stata grande nel mondo in tutti i tempi, sebbene sia una profanazione del nome di Dio. – Se la parolina "tutte le cose" si riferisse al giuramento in quanto tale, come se ogni giuramento senza eccezione fosse inammissibile – perché allora la spiegazione che segue: "né dal cielo… né dalla terra…"? Da ciò risulta sufficientemente chiaro che Cristo qui contrasta le scuse con le quali i giudei cercavano di banalizzare la loro offesa.

II,8,27 Giudici ragionevoli troveranno quindi abbastanza chiaro che il Signore nel Discorso della Montagna proibisce solo quei giuramenti che erano proibiti anche dalla Legge. Perché lui stesso, sebbene nella sua vita offrisse il giusto esempio della perfezione che insegnava, non rifuggiva dall’imprecare quando la situazione lo richiedeva, e i discepoli, che senza dubbio seguivano il loro maestro in tutte le cose, seguivano questo esempio. Chi direbbe che Paolo avrebbe potuto giurare se il giuramento fosse stato completamente proibito? Eppure, quando le circostanze lo richiedevano, Paolo giurava senza alcuna esitazione, anche aggiungendo talvolta una formula secondo la quale sarebbe stato maledetto se avesse testimoniato il falso (Rom 1:9; 2 Cor. 1:23). Tuttavia, la nostra questione non è ancora completamente risolta. C’è chi vuole escludere dalla proibizione dei giuramenti solo il giuramento pubblico, per esempio, il giuramento che si fa su richiesta delle autorità, o il giuramento che i principi fanno quando fanno alleanze, o che il popolo fa quando giura fedeltà al principe, o che il soldato fa quando giura al signore della guerra, o simili. A questo tipo di giuramenti si conta poi – e giustamente! – Anche i giuramenti di Paolo, che servono a difendere la dignità del Vangelo, appartengono a questo tipo di giuramento. Perché gli apostoli non sono persone private nel loro ufficio, ma servi di Dio pubblicamente certificati! Né nego che tali giuramenti possano essere presi con ferma sicurezza, poiché hanno la testimonianza inequivocabile della Scrittura a loro favore. Nelle questioni dubbie le autorità esaminano il testimone sotto giuramento, ed egli lo giura, per cui il giuramento, secondo la parola dell’apostolo, "pone fine ad ogni contesa" (Ebr 6:16). In questo comandamento, le autorità che esigono il giuramento, così come la persona che lo presta, hanno una ferma conferma delle loro azioni. Così si può vedere presso gli antichi popoli pagani che essi tenevano in grande considerazione il giuramento pubblico e solenne; il giuramento privato, invece, che praticavano ogni giorno, lo consideravano nulla o almeno molto poco, come se tale giuramento non fosse affare di Dio. Tuttavia, sarebbe pericoloso condannare il giuramento extragiudiziale, purché sia fatto con la dovuta modestia, santità e timore di Dio e solo in caso di necessità, perché tali giuramenti possono essere giustificati dalla ragione e anche da esempi di ogni tipo. Se, tuttavia, gli individui possono invocare Dio per giudicare tra loro in questioni importanti e serie, certamente possono invocarlo come testimone! Allora tuo fratello ti rimprovera l’infedeltà; tu vuoi liberarti di questo rimprovero per amore; ma lui non si lascia convincere da nessuna ragione. Se poi la tua buona reputazione soffre a causa dei suoi persistenti sospetti, puoi senza esitare a invocare Dio come giudice, affinché faccia emergere a suo tempo la tua innocenza. Se vogliamo pesare le parole, è qualcosa di meno chiamare Dio come testimone. Non vedo, quindi, cosa dovrebbe essere inammissibile in un tale appello. Ci sono molte testimonianze scritturali in questo senso. Forse si sostiene che il giuramento di Abramo e Isacco con Abimelech era di carattere pubblico (Gen 21:24; 26:31). Ma Giacobbe e Labano erano certamente persone private, e tuttavia fecero un’alleanza tra loro sotto giuramento reciproco! (Gen 31:53 s.). Anche Boaz era un privato cittadino, eppure affermò i suoi voti matrimoniali a Ruth con un giuramento (Ruth 3:13). Anche Abdia, un uomo giusto e pio che fece un giuramento per intenerire il cuore di Elia, era una persona privata (1Re 18:10). Non conosco dunque una regola migliore di questa: i nostri giuramenti devono essere temperati in modo tale da non giurare né con negligenza, né inutilmente, né con cattiva intenzione, né a sproposito. Piuttosto, il nostro giuramento dovrebbe servire al giusto bisogno quando si tratta di difendere l’onore del Signore o di assistere il nostro prossimo, come la legge intende anche con questo comandamento. Quarto comandamento. Ricordati del giorno di sabato e tienilo santo; sei giorni lavorerai e farai tutto il tuo lavoro. Ma il settimo giorno è il sabato del Signore tuo Dio. Lì non farai alcun lavoro …

II,8,28 Lo scopo di questo comandamento è: dobbiamo morire alle nostre concupiscenze e alle nostre opere, cercare il regno di Dio, e praticare questa ricerca secondo le regole che Lui ci ha dato. Ma poiché il comandamento tratta un argomento speciale e separato dagli altri, richiede anche un modo molto speciale di interpretazione. Gli antichi di solito la chiamano "ombra" perché si occupa della santificazione esteriore di un giorno che è stato abolito con il resto degli esempi dalla venuta di Cristo. Questo è detto molto correttamente, ma esaurisce la questione solo a metà. Pertanto, l’interpretazione deve andare più in profondità; nel farlo, si devono considerare tre norme che, secondo me, questo comandamento contiene. In primo luogo, il legislatore celeste voleva dare al popolo d’Israele un’immagine del riposo spirituale sotto il riposo del settimo giorno, cioè che i fedeli dovevano festeggiare da tutte le proprie opere e lasciare che Dio lavorasse in loro. In secondo luogo, secondo il suo comandamento, ci doveva essere un certo giorno in cui ci si doveva riunire per ascoltare la legge e compiere i riti divini, o almeno che doveva essere dedicato alla contemplazione speciale delle sue opere; questa contemplazione doveva servire all’esercizio della pietà. In terzo luogo, Dio ha voluto concedere un giorno di riposo ai servi e a coloro che erano sotto il dominio di altre persone, affinché si riposassero un po’ dal loro lavoro.

II,8,29 Che la preparazione del riposo spirituale fosse il compito più importante del sabato lo apprendiamo in molti modi. Quasi nessun comandamento il Signore voleva vedere seguito così rigorosamente come questo (Num 15:32-36). Se vuole indicare attraverso i profeti la completa distruzione del timore di Dio, si lamenta che i suoi sabati sono macchiati, violati, non tenuti, non santificati: se qui manca l’obbedienza – vuole indicare – allora non rimane nulla con cui possa essere onorato! (Ez 20:12; 22:8; 23:38; Ger 17:21, 22; 17:27; Isa 56:2). D’altra parte, l’osservanza del sabato è molto lodata. Pertanto, i credenti lodano anche la rivelazione del sabato come un atto speciale di Dio. Così i Leviti nel Libro di Neemia dissero in assemblea solenne: "Tu hai fatto conoscere loro il tuo santo sabato, e hai comandato loro i tuoi statuti, le tue usanze e la tua legge per mezzo del tuo servo Mosè" (Neh. 9:14). Così al comandamento del sabato fu dato un onore speciale tra tutti i comandamenti della legge. Tutto questo serve a indicare l’alta dignità di questo mistero che Mosè ed Ezechiele raffigurano così gloriosamente. Così leggiamo nel Libro dell’Esodo: "Osservate, osservate il mio sabato, perché questo è un segno tra me e voi per la vostra discendenza, affinché sappiate che io sono il Signore che vi santifica. Osserva dunque il mio sabato, perché sarà santo per te" (Es 31:13, 14; 35:2). "Perciò i figli d’Israele osserveranno il sabato, per conservarlo anche tra la loro discendenza come un’alleanza eterna; è un segno eterno…" (Es 31:16 s.). Ezechiele parla del sabato in modo più dettagliato; la cosa principale per lui è che il sabato è un segno per Israele, dal quale devono sapere che è Dio che santifica (Ez 20,12). Se la nostra santificazione consiste nella mortificazione della nostra volontà, allora la somiglianza tra il segno esteriore e la cosa stessa, che è interiore, è già evidente. Dobbiamo riposare completamente perché Dio possa lavorare in noi, dobbiamo rinunciare alla nostra volontà, rinunciare al nostro cuore, rinunciare a tutte le concupiscenze della carne. Infine, dobbiamo celebrare da tutte le opere egoistiche, in modo che Dio possa lavorare in noi e noi possiamo riposare in Lui, come dice l’apostolo (Ebr 3:11; 4:9).

II,8,30 Questa rinuncia eterna alle proprie opere Dio la presentò agli ebrei sotto forma di santificazione del settimo giorno. Affinché questo giorno acquistasse una dignità ancora maggiore, il Signore ce lo ha raccomandato con il suo stesso esempio. Perché l’uomo è particolarmente motivato allo zelo quando sa che deve vivere all’esempio del Creatore stesso. Alcuni vogliono trovare un significato nascosto nel numero sette, perché nella Scrittura il sette è il numero del perfetto, del compiuto; e questo numero non è stato certamente scelto senza intenzione, per indicare la durata costante di questo riposo dei fedeli. È anche vero che con il settimo giorno, in cui il Signore, secondo il suo racconto, "si riposò da tutte le sue opere", Mosè non aggiunge più l’osservazione altrimenti sempre presente: "E ci fu sera e mattino…". Anche un’altra interpretazione del numero non è da scartare: il Signore avrebbe voluto sottintendere che il giorno del riposo poteva essere completato solo quando fosse arrivato l’ultimo giorno. Certamente iniziamo qui il nostro benedetto riposo del sabato e continuiamo in esso ogni giorno; ma la battaglia con la carne non finisce e non può terminare finché non si adempie la promessa di Isaia, che la luna nuova seguirà la luna nuova, il sabato seguirà il sabato (Isa 66:23), – prima che Dio sia tutto in tutti (1Cor 15:28). Nel settimo giorno, quindi, il Signore può aver indicato al suo popolo la futura perfezione del suo giorno di riposo, in modo che essi potessero raggiungere questa perfezione con una costante attenzione al sabato in tutta la loro vita.

II,8,31 Se qualcuno rifiuta questa interpretazione del numero sette come troppo sottile, non gli impedisco di accettarne una più semplice. Per esempio, il Signore stabilì un certo giorno in cui il popolo doveva praticare la diligente contemplazione del riposo spirituale sotto la disciplina della legge. Egli prese il settimo giorno perché lo considerava sufficiente, o anche con l’intenzione di spronare il popolo con il proprio esempio e parabola, o almeno per ricordare loro che il sabato ha solo lo scopo di rendere l’uomo simile al suo Creatore. Non importa quale interpretazione si adotti, – se rimane solo il segreto principalmente indicato: cioè che qui si tratta del nostro costante riposo dalle nostre opere. Tutti i profeti hanno ammonito gli ebrei a fare attenzione a questo quando li hanno avvertiti di non pensare che il riposo carnale fosse sufficiente. Oltre ai passi già menzionati, citiamo un’altra parola di Isaia: "Se distogli il piede dal sabato, se non fai il tuo piacere nel mio giorno santo, se chiami il sabato una delizia e onori il giorno che è santo al Signore della gloria, se lo onori in modo da non fare le tue vie, e non vi trovi ciò che ti è gradito, o discorsi vuoti, allora ti delizierai nel Signore…" (Isa 58,13. 14). Tuttavia, attraverso la venuta del Signore Cristo, tutto ciò che era una pratica esteriore di questo comandamento è stato eliminato. Perché egli stesso è la verità, attraverso la cui presenza tutte le immagini scompaiono, egli è il corpo, attraverso il cui divenire visibile tutte le immagini d’ombra sono cessate. Egli è dunque il vero compimento del sabato! Attraverso il battesimo siamo sepolti con lui, diventando membri della sua morte, in modo che possiamo anche essere partecipi della sua risurrezione e camminare in novità di vita (Rom 6:4). Così l’apostolo scrive in un altro luogo che il sabato era un’immagine ombra delle cose a venire, ma in Cristo c’è il corpo (Col 2:16, 17), cioè la verità effettiva, essenziale, come egli la presenta in dettaglio in quel passo. E questa verità non si accontenta di un solo giorno, ma esige tutta la nostra vita finché siamo completamente morti a noi stessi e riempiti della vita di Dio! Pertanto, i cristiani non dovrebbero avere nulla a che fare con l’osservanza superstiziosa dei giorni!

II,8,32 Intanto, gli ultimi due precetti del nostro comandamento (cioè la fissazione di un giorno per il culto della comunità e il giorno di riposo dei ministri!) non appartengono alle imitazioni, ma conservano la loro validità per tutti i tempi. Anche dopo e nonostante l’abolizione del sabato, ci dovrebbero essere ancora alcuni giorni in cui ci riuniamo per ascoltare la Parola, per spezzare il pane santo (ad mystici panis fractionem!) e per pregare insieme. Anche i servi e gli operai devono avere il loro riposo dal lavoro! E per entrambi il Signore ha voluto senza dubbio provvedere con il comandamento del sabato. Il primo è già sufficientemente attestato dal suo uso presso gli ebrei. Il secondo è indicato da Mosè nel Deuteronomio: "Che il tuo servo e la tua serva si riposino come tu ti sei riposato; perché ti ricorderai che anche tu eri un servo nel paese d’Egitto" (Deut 5:14 s.). Allo stesso modo nel libro dell’Esodo: "Che il tuo bue e il tuo asino si riposino, e che il figlio della tua serva si ristori" (Es 23:12). Questo vale innegabilmente sia per noi che per gli ebrei. La Parola di Dio ci dice che la chiesa deve riunirsi insieme, e quanto questo sia necessario è già sufficientemente chiaro per noi attraverso l’esperienza ordinaria della vita. Ma come si fa a mantenere queste riunioni della chiesa senza un ordine preciso e giorni fissi? Secondo le istruzioni dell’apostolo, tutto deve essere fatto in modo corretto e ordinato (1 Cor. 14:40). Ma questa decenza e questo ordine non possono essere mantenuti senza tale regolamentazione pubblica, così che nell’altro caso la chiesa sarebbe immediatamente minacciata dalla più grande confusione e dissoluzione. Siamo dunque sotto la stessa angoscia che il Signore ha dato agli ebrei il sabato per superare, e quindi che nessuno dica che non abbiamo nulla a che fare con esso. Perché il Padre, nella sua gloriosa provvidenza e bontà, non ha voluto rimediare alla nostra angoscia meno di quella degli ebrei. Ma ora ci si potrebbe chiedere: perché non ci riuniamo tutti i giorni per evitare questa distinzione di giorni (che non dovrebbe esserci)? Sì, se solo fosse così! Per la saggezza spirituale varrebbe la pena di dedicarle una parte del nostro tempo ogni giorno! Ma la debolezza di molti rende impossibili tali incontri quotidiani, e non possiamo pretendere di più da loro senza diventare poco amorevoli. Perché non dovremmo sottometterci all’ordine che la volontà di Dio ha ordinato per noi?

II,8,33 Sono costretto a soffermarmi un po’ più a lungo qui, perché oggi gli spiriti inquieti stanno facendo un gran rumore sul Giorno del Signore (domenica). Si lamentano con veemenza che il cristianesimo è trattenuto nel giudaismo dall’osservanza di certi giorni! Rispondo che non ha niente a che fare con il giudaismo se celebriamo questi giorni, perché noi differiamo notevolmente dagli ebrei in questo senso. Non trattiamo il giorno del Signore come una cerimonia che osserviamo con ansiosa coscienziosità, per esempio perché in essa ci viene presentato un mistero spirituale, ma lo intendiamo come un mezzo necessario per il mantenimento dell’ordine nella chiesa! Ma si replica ulteriormente: Paolo dice che i cristiani non devono essere "in preda a rimorsi di coscienza" a causa dell’osservanza di "certe feste", perché esse sono solo ombre delle cose a venire (Col 2,16.17), anzi teme di aver lavorato invano sui Galati, perché essi osservavano ancora certi giorni (Gal 4,10.11); scrive anche ai Romani che è superstizione se qualcuno fa differenza tra giorno e giorno (Rom 14,5). – Ma chi – a parte questi uomini selvaggi! – non vede quello che Paolo ha in mente qui quando parla di tenere certi giorni? Il popolo di allora non aveva in mente il giusto ordine pubblico, ecclesiastico, ma teneva i giorni come immagini ombra delle cose spirituali e in questo modo oscurava l’onore di Cristo e la luce del Vangelo. Così non celebravano dal loro lavoro professionale perché questo li privava del santo zelo, della santa contemplazione, ma in una certa timidezza religiosa, perché sognavano di conservare con le loro celebrazioni la memoria di misteri un tempo molto lodati. L’apostolo si oppone a questa perversa distinzione dei giorni, ma non all’ordine legittimo che serve alla pace della comunità cristiana (societas christiana). Infatti il sabato era tenuto in questo senso anche nelle congregazioni da lui stesso ordinate. Egli stesso decretò questo giorno per i Corinzi, affinché raccogliessero i contributi per l’aiuto dei fratelli a Gerusalemme (1Cor 16:2). Se si teme la superstizione, le feste ebraiche erano più pericolose del giorno del Signore, che i cristiani celebrano! Poiché era necessario per l’abolizione della superstizione, gli ebrei furono privati del loro giorno santo – e poiché era necessario per la conservazione dei buoni costumi, dell’ordine e della pace nella chiesa, un altro giorno fu messo al suo posto!

II,8,34 Gli antichi misero il giorno del Signore, come lo chiamiamo noi, al posto del sabato con piena intenzione. Perché il vero riposo che il vecchio sabato esemplificava ha raggiunto la sua meta e il suo compimento nella risurrezione del Signore; e così questo giorno solo, che ha messo fine a tutte le immagini d’ombra, ricorda ai cristiani che non devono soffermarsi su tali cerimonie d’ombra. A proposito, il numero sette non è così importante per me da costringere la chiesa ad usarlo; né voglio condannare una congregazione che sceglie altri giorni per le sue riunioni, se solo lo fa senza superstizione. Il modo migliore per evitare la superstizione è lasciare che le vacanze servano esclusivamente al mantenimento della disciplina e del giusto ordine. L’importante è: come un tempo la verità fu presentata agli ebrei sotto immagini oscure, così viene a noi gloriosamente senza ombra. In primo luogo, dovremmo sforzarci durante la nostra vita per un completo riposo del sabato da tutte le nostre opere, in modo che il Signore possa lavorare in noi attraverso il suo Spirito. In secondo luogo, ognuno di noi, tutte le volte che ha tempo, dovrebbe praticare la devota conoscenza delle opere di Dio; ma dovremmo anche tenere tutti insieme il legittimo ordine della chiesa, che è istituito per ascoltare la parola, praticare i sacramenti e pregare pubblicamente insieme. E in terzo luogo, non dobbiamo opprimere i nostri sudditi in modo disumano. Socrate scrive di questa libertà nella "Historia tripartita" (Hist. trip. XI, 38). Con questo, la retorica dei profeti bugiardi, che nei secoli passati hanno riempito il popolo di illusioni ebraiche, scompare. Dicevano che l’unica cosa che veniva abolita in questo comandamento era il "cerimoniale" – lo chiamavano la "stima del settimo giorno" – ma che rimaneva la parte morale, cioè che si doveva celebrare un giorno alla settimana. Questo non significa altro che togliere un altro giorno agli ebrei come una seccatura, pur mantenendo la santificazione superstiziosa del giorno come loro. In questo modo saremmo rimasti con la stessa misteriosa differenziazione dei giorni che avveniva tra gli ebrei. E si può davvero vedere cosa hanno ottenuto i profeti bugiardi con il loro insegnamento: le persone che sono prese nelle loro ordinanze vanno tre volte oltre nella loro grossolana e carnale credenza del sabato rispetto agli stessi ebrei, così che i discorsi punitivi di Isa (Isa 1:13; 58:13) si applicano a loro proprio come ai contemporanei del profeta! Nel frattempo, però, teniamo conto dell’insegnamento generale di frequentare diligentemente le riunioni della chiesa, affinché la nostra pietà non venga meno o si allenti, e di fare ogni sforzo per ottenere tutti gli aiuti esteriori che servono a mantenere il culto di Dio. Quinto comandamento. Onora tuo padre e tua madre, affinché tu viva a lungo nel paese che il Signore tuo Dio ti dà.

II,8,35 Qual è lo scopo di questo comandamento? Il Signore Dio vuole preservare il suo ordine, e quindi i livelli di superiorità che ha stabilito devono essere inviolabili per noi. La cosa principale, quindi, è che dobbiamo accettare coloro che il Signore ha reso nostri superiori e trattarli con riverenza, obbedienza e gratitudine. La proibizione corrisponde anche a questo: non dobbiamo diminuire la loro dignità, né con il disprezzo, né con l’ostinazione o l’ingratitudine. Perché la parola "onore" ha una portata molto ampia nella Scrittura. Per esempio, quando l’apostolo dice: "Gli anziani che presiedono bene sono degni di doppio onore" (1Tim 5:17), non si riferisce solo alla riverenza dovuta loro, ma anche alla ricompensa dovuta per il loro servizio. Ma questo comandamento, che esige obbedienza, è molto in contrasto con la ragione umana e la sua malvagità; perché l’uomo è così gonfio nella sua brama di potere che non gli piace essere subordinato! Per questo motivo vengono qui prese ad esempio le autorità, che sono per natura le più amorevoli e meno detestabili (cioè il padre e la madre); perché potrebbero ancora ammorbidirci interiormente più facilmente e muoverci alla sottomissione. Così il Signore vuole abituarci a tutta la legittima docilità da questo tipo di subordinazione, che è ancora la più facile e sopportabile; perché le cose sono le stesse ovunque. A chi ha assegnato la dignità, dà anche, per quanto necessario alla conservazione della sua reputazione, una parte del suo nome. I nomi "Padre", "Dio" e "Signore" hanno questo in comune, che ogni volta che sentiamo uno di loro, sentiamo necessariamente che abbiamo a che fare con la maestà di Dio. Se poi dà a un uomo una parte della dignità del suo nome, un po’ del suo splendore lo illumina e lo glorifica, in modo che possa comandare il rispetto al posto di Dio! Quindi dobbiamo riconoscere qualcosa di divino in colui che è nostro Padre, perché non usa questo titolo divino ("Padre") senza motivo! E colui che è "principe" e "signore" ha, in un certo senso, una parte della gloria di Dio!

II,8,36 Per questo non si può dubitare che il Signore qui stabilisca una regola generale: cioè, dobbiamo trattare con riverenza, obbedienza, gratitudine e ogni servizio possibile tutti coloro che, secondo la nostra conoscenza, ci sono dati per ordine di Dio come superiori. Non fa differenza se coloro ai quali si deve conferire tale onore siano degni o indegni: perché chiunque essi siano, non hanno preso il loro posto senza la provvidenza di Dio, e quindi il Legislatore vuole che siano onorati. Egli dà espressamente questo comandamento nei confronti dei genitori che ci hanno dato questa vita – il sentimento naturale deve effettivamente attirarci ad obbedire! Perché chi si oppone al potere paterno con ostinazione e resistenza è un mostro e non un uomo! Perciò il Signore comanda anche che siano messi a morte tutti coloro che si oppongono ai loro genitori, come coloro che non meritano la vita perché non riconoscono nemmeno attraverso il cui servizio l’hanno ricevuta. Da varie aggiunte alla legge si può vedere che in realtà, come abbiamo detto, l’onore qui comandato include tre tipi di doveri, cioè la riverenza, l’obbedienza e la gratitudine. (1.) Il Signore fa della riverenza un dovere inviolabile ordinando che chi maledice il padre o la madre sia messo a morte (Es 21:17; Lev 20:9; Prov 20:20). Così condanna il disprezzo e l’ostinazione verso i genitori. (2.) Dio richiede obbedienza minacciando anche la pena di morte per i figli disobbedienti e indisciplinati (Deut 21:18-21). (3.) L’interpretazione di Gesù di questo comandamento in Mat 15 ci ricorda di essere grati, da dove deriva la richiesta di fare del bene ai nostri genitori (Mat 15,4-6). Paolo trova l’obbedienza richiesta in questo comandamento tutte le volte che ne parla (Efes 6,1-3; Col 3,20).

II,8,37 La promessa aggiunta ha lo scopo di mettere questo comandamento particolarmente vicino ai nostri cuori e di mostrarci ancora meglio quanto sia gradita a Dio questa sottomissione qui richiesta. Paolo usa anche questa promessa come uno stimolo alla nostra pigrizia, sottolineando: "Questo è il primo comandamento che ha una promessa" (Efes 6:2). Ha ragione: perché la promessa generale prima della prima tavola della legge non si riferisce a nessun comandamento particolare, ma a tutta la legge. Dovremo intendere le promesse date qui in questo modo: il Signore parla specialmente agli Israeliti della terra che aveva promesso loro come eredità. Se, dunque, il possesso della terra è un pegno della bontà di Dio, non è sorprendente che il Signore testimoniasse la sua grazia promettendo loro una lunga vita, perché in questo modo avrebbero goduto più a lungo del frutto della sua generosità. Nel senso, quindi, che deve essere letto: Onora tuo padre e tua madre, affinché tu possa godere a lungo del possesso della terra che ti darò come pegno della mia grazia. Poiché tutta la terra è benedetta per i credenti, contiamo giustamente la vita presente tra le benedizioni di Dio. Pertanto, questa promessa riguarda anche noi, nella misura in cui una lunga vita sulla terra è una prova della bontà divina nei nostri confronti. Perché questa lunga vita sulla terra non è promessa a noi, né lo era una volta agli ebrei, perché porterebbe di per sé beatitudine, ma perché dovrebbe essere un segno della bontà di Dio verso i pii! Se dunque un figlio obbediente viene strappato ai suoi genitori prima che la sua vita abbia raggiunto la maturità, cosa che non accade di rado, il Signore mantiene comunque la sua promessa, tanto quanto se desse cento gioghi di terra a qualcuno a cui ne aveva promesso solo uno! Tutto ciò è dovuto al fatto che ci viene promessa una lunga vita solo nella misura in cui è una benedizione di Dio, ma che è una benedizione solo nella misura in cui è una prova della grazia divina. Ma questa grazia il Signore la testimonia ai suoi servi attraverso la morte in modo infinitamente più abbondante e imperituro, sì, la mostra loro con i fatti!

II,8,38 Quando il Signore promette la benedizione della vita presente ai figli che onorano i loro genitori con obbedienza doverosa, allo stesso tempo annuncia a tutti gli indisciplinati e disobbedienti la maledizione che sicuramente verrà. Egli mette anche in pratica questa maledizione: li fa dichiarare colpevoli di morte dalla sua legge e ordina l’esecuzione della punizione! Ma se sfuggono al giudizio terreno, egli stesso punisce la loro disobbedienza in tutti i modi, molte di queste persone periscono in guerre e litigi, altre entrano in gravi tribolazioni – ma quasi tutti sperimentano nella loro vita che questa minaccia non è una parola vuota. Alcuni possono anche vivere fino a un’età matura, ma sono senza la benedizione di Dio in questa vita e soffrono attraverso di essa, anche affrontando punizioni più severe – e così, nonostante la loro lunga vita, non sono partecipi della promessa data ai figli obbedienti! Di passaggio, però, vogliamo anche notare che dobbiamo obbedire ai nostri genitori solo "nel Signore" (Efes 6:1); questo in realtà segue già dalla base che abbiamo trovato sopra; perché la priorità dei genitori si basa sul fatto che il Signore li ha nominati e ha conferito loro un po’ del suo onore! La sottomissione che mostriamo loro è quindi essa stessa solo un passo per condurre all’adorazione di Dio come Padre Supremo. Se, quindi, vogliono tentarci a trasgredire la legge, siamo giustificati a considerarli non come genitori ma come estranei che cercano di dissuaderci dall’obbedienza al nostro vero Padre. È esattamente lo stesso nel caso corrispondente con i principi e i signori e tutti i possedimenti superiori a noi. Sarebbe dunque indegno e insensato se la loro alta posizione dovesse essere usata per diminuire la sublimità di Dio; poiché essa dipende da questo e deve quindi anche condurci ad esso! Sesto comandamento. Non uccidere.

II,8,39 Prima di tutto, lo scopo di questo comandamento: Il Signore ha, per così dire, unito la razza umana in un’unità, e quindi la conservazione e il benessere di tutti devono essere la preoccupazione di ogni individuo. Da qui il contenuto principale: ci è proibito ogni atto di violenza, ogni sacrilegio, e in generale ogni atto di danno che possa ferire il corpo del nostro prossimo. Di conseguenza, ci viene comandato di fare fedelmente tutto ciò che è in nostro potere per proteggere la vita del nostro prossimo, di fare tutto ciò che è in nostro potere per aiutarlo a prosperare e per evitargli il male, e di stargli vicino in ogni angoscia e pericolo. Ma se consideriamo che Dio ci parla qui come legislatore, noteremo anche che vuole governare le nostre anime con questo comandamento! Perché sarebbe ridicolo se lui, che ha davanti agli occhi i pensieri più profondi del cuore e che si occupa particolarmente del cuore, volesse educare solo il corpo alla vera giustizia. Così l’omicidio, che ha luogo nel cuore, è anche qui proibito, e d’altra parte è richiesto l’impulso interiore di preservare la vita del fratello. L’omicidio è certamente messo al mondo dall’atto della mano; ma il suo germe si trova nel cuore, se porta in sé rabbia e odio! Vediamo se possiamo davvero essere arrabbiati con il nostro fratello senza infiammarci di avidità dannosa. Se tale rabbia è proibita, l’odio lo è ancora di più, perché l’odio non è che una rabbia radicata! Si può negare questo e cercare di liberarsi con tutti i tipi di scuse – ma dove c’è rabbia e odio, c’è anche l’atteggiamento che può portare ad azioni malvagie! Se vogliamo trovare una scusa, dobbiamo ricordare che la bocca dello Spirito Santo ha detto: "Chi odia suo fratello è un assassino" (1Gio 3:15), e che il Signore Cristo ha detto: "Chi si adira con suo fratello è colpevole di giudizio, e chi dice a suo fratello: ’Racha’, è colpevole di consiglio, ma chi dice: ’Stupido’, è colpevole di fuoco infernale" (Mat 5:22). (Mat 5,22).

II,8,40 Ora secondo la Scrittura questo comandamento è fondato su due questioni giuridiche. L’uomo è l’immagine di Dio da un lato, e la nostra carne e il nostro sangue dall’altro. Quindi, se l’immagine di Dio deve rimanere inviolata, l’altro essere umano deve essere sacro e inviolabile per noi; se tutta l’umanità in noi non deve perire, dobbiamo proteggere e conservare la nostra stessa carne e il nostro sangue! Quale ammonizione si deve trarre dalla redenzione e dalla grazia di Cristo in questa direzione sarà trattata altrove. Ma il Signore vuole che questi due fatti fondamentali siano osservati nell’uomo per natura, affinché possiamo così arrivare alla conservazione dell’uomo, onorando così l’immagine di Dio impressa in lui e amando la nostra stessa carne! Pertanto, colui che non ha versato sangue non deve assolutamente essere libero dalla colpa del sangue. Chi fa o anche solo tenta di fare qualcosa che è contrario alla salvezza del suo prossimo è colpevole di omicidio! Se invece non ci si sforza di proteggere il prossimo al meglio delle proprie capacità e in ogni occasione, questa durezza è già una trasgressione del comandamento! Ma se dobbiamo preoccuparci così tanto del benessere fisico del nostro prossimo, quanto zelo e sforzo dobbiamo dedicare alla salvezza dell’anima, che ha un’importanza infinitamente maggiore per il Signore! Settimo comandamento. Non commettere adulterio.

II,8,41 Anche qui, prima di tutto, lo scopo del comandamento: Dio ama la castità e la purezza, e quindi ogni impurità deve essere lontana da noi! Da questo segue il contenuto principale: dobbiamo tenerci liberi da ogni contaminazione attraverso la fornicazione e la lussuria smodata della carne. Di conseguenza, ci viene comandato di condurre tutta la nostra vita in castità e disciplina. Dio proibisce espressamente l’adulterio, perché tutta la cupidigia è diretta verso di esso, ed è particolarmente abominevole perché è il più grossolano e il più percettibile, poiché imprime il suo stesso marchio sul corpo; ma per questo dovrebbe anche renderci ripugnante ogni e qualsiasi altra cupidigia cattiva. L’uomo è stato creato secondo l’ordine (hac lege) di non condurre la sua vita da solo, ma di aver bisogno dell’aiuto dell’altro uomo che gli è dato. Poi è stato messo ancora di più in questa necessità dalla maledizione del peccato. Allora il Signore fornì un aiuto sufficiente e istituì lo stato matrimoniale, fece iniziare tale unione sotto la sua autorità e la santificò con la sua benedizione. Per questo motivo, tuttavia, ogni altra unione tra un uomo e una donna al di fuori del matrimonio è ovviamente maledetta davanti a Lui; lo stato matrimoniale è, dopo tutto, ordinato da Lui stesso come un mezzo di necessità, in modo che noi non superiamo tutti i confini nella cupidigia sfrenata! Quindi non c’è nessuna attenuazione quando sentiamo che il rapporto tra un uomo e una donna al di fuori del matrimonio porta necessariamente con sé la maledizione di Dio!

II,8,42 Siamo dunque, per la disposizione della nostra natura, e poi a fortiori a causa della concupiscenza che si accende selvaggiamente dopo la caduta, doppiamente bisognosi dell’unione coniugale con la donna – a parte coloro che Dio ha esentato da questa regola con uno speciale atto di grazia. Che ognuno veda ciò che gli è stato dato! Certamente, lo ammetto, il celibato non è da disprezzare. Ma è negato all’uno, ed è possibile solo per un certo tempo all’altro; e quindi colui che è tormentato dalla carnalità, e che non rimane vittorioso nella lotta contro di essa, dovrebbe cercare aiuto nel matrimonio, e così condurre una vita virtuosa nella sua professione e occupazione. Perché chi non afferra questa parola e non affronta la sua intemperanza con i mezzi offerti, contende con Dio e resiste al suo ordine. Che nessuno cerchi di convincermi – come molti fanno al giorno d’oggi! – che con l’aiuto di Dio è capace di tutto! Perché l’aiuto di Dio è solo per coloro che camminano nelle sue vie – e questo significa: vivere nella loro professione! (Sal 91,1.14). Colui che disprezza i mezzi che Dio gli offre e nella sola presunzione vana vuole superare le sue difficoltà e costringerle a terra, si sottrae alla sua chiamata! Il Signore stesso sottolinea che l’astinenza è un dono speciale di Dio e appartiene ai doni di Dio che non sono generalmente distribuiti a tutta la Chiesa, ma solo ad alcuni membri! Perché Egli parla di un tipo molto speciale di persone "che sono state tagliate fuori per il regno dei cieli" (Mat 19,12); queste sono persone che possiedono questo dono per potersi dedicare in modo più indipendente e libero alle cose del regno dei cieli. Ma vuole evitare l’equivoco che tale interconnessione sia in potere dell’uomo, perciò mostra poco prima che non tutti ne sono capaci, ma solo quelli a cui è data dal cielo (Mat 19,11) – e poi conclude: "Chiunque può afferrarla, la afferri!" (V. 12). Paolo scrive ancora più chiaramente che ognuno ha il suo dono da Dio, chi in questo modo e chi in quello! (1Cor 7:7).

II,8,43 Così la Scrittura indica molto chiaramente che non tutti sono in grado di mantenere la castità nel celibato, per quanto diligentemente si sforzino di farlo, ma che è una grazia straordinaria che il Signore concede solo a persone speciali per renderle più libere per la Sua opera. Non è forse un atto di resistenza contro Dio e la natura che ci ha creato se non organizziamo la nostra vita secondo la misura delle nostre capacità? Qui, in ogni caso, il Signore proibisce ogni fornicazione; esige quindi da noi purezza e castità. L’unico modo per preservare la castità è che ognuno si misuri con la propria misura! Che nessuno, dunque, denigri presuntuosamente il matrimonio, come se fosse inutile o superfluo per lui! E che nessuno scelga il celibato se non colui che può vivere senza una moglie. Anche in essa, nessuno cerchi riposo e conforto per la sua carne, ma solo questo, che, essendo libero da quel legame, possa tanto più facilmente e volentieri essere al servizio del dovere di una vita consacrata. Per questo motivo, ogni persona dovrebbe rinunciare al matrimonio solo finché è capace di una vita solitaria. Se non ha più la forza di dominare la sua lussuria, dovrebbe riconoscere che il Signore gli ha imposto il dovere di sposarsi. Questo è anche dimostrato dall’ammonizione dell’apostolo: "Per la fornicazione, ogni uomo abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito" (1Cor 7:2) o "Se non possono astenersi, siano liberi" (1Cor 7:9; Calvino aggiunge: "nel Signore"). Con questo dice prima di tutto: Di gran lunga la maggioranza degli uomini è soggetta al vizio dell’immoralità; e in secondo luogo, che tutti coloro che si trovano in tale posizione debbano, senza alcuna eccezione, ricorrere all’unico rimedio che pone fine all’immoralità. Se, dunque, le persone che non possono astenersene, disdegnano di essere aiutate nella loro debolezza da questo rimedio, peccano perché non obbediscono a questo comandamento dell’apostolo. Ma anche un uomo che non ha mai toccato una donna non deve pensare con illusione di essere libero dall’accusa di castità, quando nel frattempo brucia di desiderio. Perché Paolo intende per castità la purezza del cuore e allo stesso tempo anche la disciplina del corpo. "Colei che non è libera, che ha cura di ciò che appartiene al Signore, perché sia santa nel corpo e nello spirito…" (1Cor 7:34). E così, a conferma del suddetto comandamento, dice non solo che è meglio sposarsi che contaminarsi con la fornicazione, ma anche che è meglio sposarsi che essere in calore (7:9).

II,8,44 Quando le coppie sposate considerano che la loro alleanza è benedetta dal Signore, vengono anche ricordate di non macchiarla con un’avidità sfrenata e senza limiti. Certamente il matrimonio, nella sua decenza, nasconde ogni lussuria agli occhi del mondo; ma certamente questo non dovrebbe essere un incentivo alla dissolutezza! Perciò i coniugi sappiano che non possono fare quello che vogliono, ma che il marito agisca con modestia verso la moglie e la moglie verso il marito; che entrambi stiano attenti in tutto quello che fanno a non permettere che sorga qualcosa che sia contrario alla decenza e alla disciplina dello stato matrimoniale. L’alleanza matrimoniale fatta nel Signore dovrebbe quindi essere guidata alla disciplina e alla moderazione e non degenerare in folle licenziosità. Ambrogio ha un’espressione molto grave, ma non immeritata, per tale intemperante libidine: chiama un uomo che non si prende cura della disciplina e della rispettabilità nella vita matrimoniale un adultero contro la propria moglie! (in Agostino, Contro Giuliano II,7; non in Ambrogio). Infine, consideriamo chi è questo legislatore che qui condanna ogni impurità: è, dopo tutto, colui che deve averci interamente suoi e che, per suo diritto, esige da noi la purezza dell’anima, dello spirito e del corpo. Così, quando condanna la fornicazione, ci proibisce allo stesso tempo di tendere insidie alla castità degli altri con abiti voluttuosi, gesti lascivi e discorsi impuri. Era giusto quello che disse Archelao a un giovane che era vestito in modo particolarmente ricco e lussuoso: in realtà è lo stesso a che punto un uomo si rivela essere un rammollito. È importante guardare a Dio, che odia ogni impurità, ovunque essa appaia nel corpo o nell’anima! Affinché nessuno dubiti di questo, ricordate che qui Dio comanda la castità. Ma quando il Signore esige da noi la castità, rifiuta tutto ciò che è contrario ad essa. Se vogliamo obbedire, il nostro cuore non deve bruciare di avidità, i nostri occhi non devono essere lussuriosi, il nostro corpo non deve adornarsi di lussuria, la nostra lingua non deve provocare la nostra mente a tali pensieri attraverso discorsi lascivi, e il nostro palato non deve accendere tali lussurie attraverso l’intemperanza. Perché tutte queste corruzioni sono come macchie di vergogna che contaminano la pura castità. Ottavo comandamento. Non rubare.

II,8,45 Lo scopo qui è: Dio è scontento di ogni ingiustizia, e quindi dobbiamo dare a ciascuno ciò che è suo. Il contenuto principale è dunque: non dobbiamo cercare i beni degli altri, ma al contrario, dobbiamo aiutare fedelmente ognuno a conservare ciò che è suo. Dobbiamo ricordare che ciò che un uomo possiede non lo ha per caso, ma per la dispensazione di Dio, il Signore di tutte le cose; chi, quindi, ruba dalla proprietà del suo prossimo, commette una frode contro l’ordine divino. Ora ci sono molti tipi di furto. Prima di tutto c’è la rapina con la forza: in questo caso la proprietà di un altro è presa con la forza e la rapina. Poi c’è la frode, quando uno priva fraudolentemente un altro di ciò che è suo. È un’altra cosa ancora quando uno prende i beni di un altro con l’astuzia e l’inganno sotto l’apparenza della giustizia. Ed è un’altra cosa ancora quando si irretisce il prossimo con l’adulazione, si finge di avere un vantaggio su di lui e si ottengono così i suoi beni con la frode. Ma non vogliamo continuare ad enumerare tutte le forme di furto. In ogni caso, ogni arte falsa con la quale si prende per sé i beni e il denaro del prossimo, nella misura in cui si abbandona la sincerità dell’amore e nasce il desiderio di ingannare o fare del male in qualche modo, è da considerarsi un furto. Anche se tali ladri nascosti sono liberi in tribunale, sono considerati da Dio per quello che sono: Perché egli vede attraverso le trame intricate con cui l’uomo astuto intrappola l’innocuo fino a quando non lo ha attirato nella rete. Vede anche le leggi dure e disumane con cui il più potente opprime e distrugge il debole. Vede le lusinghe con cui un uomo infido cattura l’inesperto come un amo, anche se tutto questo è nascosto al giudizio umano e non viene a conoscenza del pubblico. Tale ingiustizia non si trova solo nell’acquisizione fraudolenta di denaro o beni o terreni, ma in tutti i diritti che l’altra persona ha. Anche noi priviamo fraudolentemente il nostro vicino del suo se gli neghiamo il servizio a cui ha diritto per diritto. Se un amministratore o una governante lascia sbadatamente andare in rovina la proprietà del suo padrone, o se non adempie adeguatamente al suo dovere verso i beni a lui affidati, se si appropria o spreca i beni del suo padrone, se un servo è insolente verso il suo padrone o divulga i suoi segreti, se tradisce la sua vita o la sua proprietà, o se, d’altra parte, un padrone tratta i suoi servi in modo crudele o disumano – tutto questo è furto agli occhi di Dio! Perché chi non fa ciò che la sua professione richiede agli altri, commette un furto dei beni altrui!

II,8,46 Obbediremo dunque a questo comandamento se saremo contenti dei nostri beni e ci sforzeremo solo di ottenere un guadagno onorevole e lecito, non cercheremo di arricchirci ingiustamente, e non ci sforzeremo anche di strappare i beni del nostro prossimo per avere noi stessi il guadagno, se non cerchiamo crudelmente di accumulare ricchezze acquisite e spremute dal sangue degli altri, se non raschiamo senza sosta tutto da tutte le parti, a torto o a ragione, per soddisfare la nostra avidità o la nostra stravaganza! Al contrario, dovremmo sempre dirigere i nostri pensieri verso l’aiuto al nostro prossimo per mantenere ciò che è suo con le parole e le azioni. E se abbiamo a che fare con persone infedeli e ingannevoli, dovremmo piuttosto metterci del nostro bene che competere con loro. Ma questo non è tutto: se vediamo un altro nel bisogno, dobbiamo condividere le sue difficoltà e aiutarlo nella sua mancanza con i nostri beni e possedimenti. Infine, ognuno dovrebbe prestare attenzione a ciò che deve fare nella sua professione e poi adempiere fedelmente a ciò che è richiesto. Il popolo tenga dunque in onore tutti coloro che lo presiedono, sopporti il loro governo con disponibilità, sia obbediente alle leggi e agli ordini, e non rifiuti alcun servizio che possa rendere con l’aiuto di Dio. D’altra parte, le autorità dovrebbero occuparsi del benessere del popolo, mantenere la pace pubblica, proteggere i buoni e tenere sotto controllo i cattivi, in breve, governare tutto nella consapevolezza che esse stesse un giorno dovranno rendere conto a Dio della loro condotta in carica! I ministri della Chiesa devono praticare fedelmente il ministero della Parola e non falsificare la dottrina della salvezza, ma proclamarla puramente e rumorosamente al popolo di Dio. La loro istruzione della congregazione non deve consistere solo nell’insegnamento, ma anche nell’esempio della loro vita. In breve, devono compiere il loro ministero come buoni pastori. D’altra parte, il popolo dovrebbe accogliere i ministri della chiesa come messaggeri e apostoli di Dio e dare loro l’onore che il più alto maestro della chiesa ha conferito loro, e anche dare loro il necessario per il loro sostentamento. I genitori devono nutrire, educare e istruire i loro figli, che Dio ha loro affidato, e non indurli interiormente con la severità o allontanarli da sé, ma devono sopportarli e amarli con la dolcezza e la tolleranza necessarie al loro ufficio. Quali grandi doveri abbiano i figli verso i loro genitori, d’altra parte, è già stato spiegato. I più giovani devono onorare la loro vecchiaia, poiché il Signore stesso lo vuole. Di conseguenza, i vecchi dovrebbero guidare i giovani nella loro debolezza e inesperienza in virtù della propria matura saggezza e maggiore esperienza, e non intimidirli con durezza e maleducazione, ma ammorbidire la loro severità con gentilezza e bontà. I servi devono rendere un’obbedienza volenterosa e gioiosa ai loro padroni, non solo di vista ma di cuore, come se stessero servendo Dio stesso! I padroni non dovrebbero trattare i loro servi con ostinazione e orgoglio, né trattarli con durezza o disprezzo; piuttosto, dovrebbero riconoscere che i servi sono i loro fratelli, i loro compagni di servizio davanti al Signore celeste, che dovrebbero amarsi e trattarsi umanamente. In questo modo ogni individuo può facilmente scoprire cosa deve al suo vicino nella sua posizione e nel suo luogo; e poi dovrebbe anche fare il suo dovere. A questo scopo è necessario guardare sempre al Legislatore stesso: allora vedremo che questa regola si applica non solo alle nostre mani, ma anche ai nostri cuori; e così ognuno dovrebbe sforzarsi di conservare e promuovere il vantaggio e il beneficio del suo prossimo con ogni mezzo. Nono comandamento. Non rendere falsa testimonianza contro il tuo prossimo.

II,8,47 Ecco lo scopo: poiché la falsità è ripugnante a Dio, che è verità, dobbiamo amare e praticare la verità tra di noi senza ogni falsità! Pertanto, il contenuto principale di questo comandamento è: non dobbiamo ferire il buon nome degli altri con insulti e false accuse, né danneggiarli con menzogne, né offendere nessuno con bestemmie e vituperi insolenti. Il comandamento corrisponde al divieto: dobbiamo aiutare tutte le persone, per quanto ci è possibile, ad affermare la verità e a proteggere il buon diritto del loro nome. Il Signore ha voluto evidentemente chiarire il significato di questo comandamento nel 23° capitolo del Libro dell’Esodo: "Non crederai a false accuse, per assistere un empio ed essere un falso testimone" (Es 23:1), o anche: "Stai lontano dalle cose false" (Es 23:7). Altrove siamo avvertiti contro la menzogna non solo nel senso che non dobbiamo essere millantatori e calunniatori tra il nostro popolo (Lev 19:16), ma anche nel senso che non dobbiamo ingannare il nostro fratello (Lev 19:11). Quindi Dio proibisce entrambi in alcuni comandamenti. E proprio come ha proibito la durezza, la castità e la cupidigia (cioè l’ingiustizia) nei comandamenti precedenti, senza dubbio proibisce anche qui l’astuzia. Questo, come già detto, si manifesta in due modi. Da un lato, c’è il peccato contro la buona reputazione del prossimo, come avviene attraverso la bestemmia o la calunnia. E poi, dall’altra parte, c’è l’entrata che accade al proprio benessere attraverso la menzogna o il dispettoso parlare. Non importa se si pensa qui alla testimonianza solenne in tribunale o alla testimonianza ordinaria sull’altro, come avviene nella conversazione privata. Perché dobbiamo sempre tenere presente il principio: tra il numero di reati qui intesi, uno è posto in modo speciale come esempio al quale gli altri devono poi essere riferiti; ma questo esempio costituisce il reato che è particolarmente cospicuo per la sua riprovevolezza. Dobbiamo però avere una visione più generale del comandamento e applicarlo anche alle calunnie e alle false accuse con cui facciamo del male al nostro prossimo. Perché la falsa testimonianza in tribunale è sempre uno spergiuro; ma questo, perché dissacra e viola il nome di Dio, è già severamente proibito nel terzo comandamento! La giusta osservanza di questo comandamento consiste quindi nel fatto che la lingua deve difendere la verità e quindi servire alla buona reputazione e al benessere del prossimo. Quanto sia ragionevole questa richiesta è immediatamente evidente. Perché un buon nome vale più di tutti i tesori; perciò è un crimine altrettanto cattivo togliere il buon nome a un uomo quanto rubarglielo. Ma anche il denaro e i beni vengono strappati ad alcune persone tanto con la falsa testimonianza quanto con la rapina e il furto!

II,8,48 Ma è sorprendente con quanta noncuranza si pecchi generalmente di questo pezzo, tanto che si possono trovare pochi che non siano sensibilmente afflitti da questo vizio. Quanto è grande il piacere che proviamo nella dolcezza avvelenata di cercare e scoprire i difetti degli altri! Ma non dobbiamo immaginare che sia una scusa perché molto spesso non mentiamo nel farlo. Perché Dio, che proibisce di contaminare il buon nome del fratello con la menzogna, vuole anche che sia conservato incontaminato, per quanto è possibile con la verità. Certo, lo protegge solo dalle menzogne, ma così facendo fa capire quanto sia importante per lui. Ma il fatto che Dio voglia prendersi cura del buon nome del nostro prossimo deve essere una ragione sufficiente per lasciarlo illeso da parte nostra. Quindi qui, senza dubbio, tutti i pettegolezzi maliziosi sono proibiti. Per pettegolezzo malizioso non intendo, naturalmente, il rimprovero che cerca di migliorare, né l’accusa in tribunale o la denuncia legale che cerca di rimediare alla malizia, né il rimprovero pubblico che ha lo scopo di dissuadere gli altri malfattori, né l’avvertimento pubblico della malizia di un uomo ad altri il cui benessere richiede tale avvertimento, per evitare che si facciano male nell’ignoranza. Piuttosto, intendo per pettegolezzo maligno l’accusa dispettosa che scaturisce dalla malizia e dallo sminuire. Inoltre, questo comandamento ci proibisce di fare scherzi maliziosi e amari scherzi, con i quali ridicolizziamo in modo dispettoso le infermità altrui con la scusa di una parola scherzosa – questo è ciò che accade soprattutto alle persone che vorrebbero guadagnare la reputazione di buona compagnia per se stesse sui rossori e sui sospiri altrui, mentre tale frivolezza spesso mette il loro fratello in amaro dolore! Ma ora dobbiamo fissare i nostri occhi sul Legislatore, che ha diritto all’orecchio e al cuore oltre che alla lingua. Allora ci sarà chiaro che ci è proibito prestare orecchio avidamente alla calunnia, così come indulgere nell’inclinazione peccaminosa di giudicare sfavorevolmente. Perché sarebbe un’opinione ridicola se qualcuno pensasse che Dio odia il vizio del male che parla attraverso la lingua, ma non è ostile all’ingiustizia nel cuore! Se è davvero così che temiamo e amiamo Dio, allora dovremmo anche fare ogni sforzo, per quanto sia possibile e utile e l’amore possa sopportarlo, per non prestare né lingua né orecchie a discorsi malvagi e a scherzi offensivi, né dare spazio al sospetto del male nei nostri cuori. Cerchiamo piuttosto di comprendere le parole e le azioni degli altri in modo giusto e di mantenere pura la loro buona reputazione nel nostro giudicare, ascoltare e parlare. Decimo comandamento. Non desiderare la casa del tuo vicino …

II,8,49 Prima di tutto, lo scopo di questo comandamento: Dio vuole che tutto il nostro cuore sia pieno di amore verso il prossimo, e quindi ogni cupidigia, che è diretta contro l’amore, deve essere sradicata. Pertanto, il contenuto principale sarà che non sorga in noi alcun impulso interiore che possa spingerci a una cupidigia dannosa e nociva nei confronti del nostro prossimo. D’altra parte, il comandamento corrisponde a questo: in tutti i nostri progetti, pensieri, desideri e sforzi, dobbiamo preoccuparci del benessere e del vantaggio del nostro prossimo. Ma ovviamente ci troviamo di fronte a una grande e difficile domanda. Infatti abbiamo già detto sopra che con l’adulterio e il furto, che sono espressamente proibiti, ci è anche proibita la concupiscenza adulterina e l’intenzione di danneggiare o ingannare il nostro prossimo. Quindi potrebbe sembrare superfluo che ora ci venga successivamente proibito di concupire i beni degli altri. Per sciogliere questo nodo, dobbiamo distinguere tra intenzione e desiderio. Per intenzione, come l’abbiamo intesa nella spiegazione dei comandamenti precedenti, si deve intendere una risoluzione della volontà presa con deliberazione; lì la lussuria ha messo l’anima in catene. Il desiderio, tuttavia, può esistere anche senza tale considerazione e tale consenso interiore, cioè quando il cuore è semplicemente solleticato e irritato da cose vane e perverse. Così il Signore ha comandato finora che la regola dell’amore regni in ogni volontà, sforzo e lavoro. Ora, però, egli comanda che anche le inclinazioni della nostra mente siano guidate da questa regola, affinché non diventino malvagie e perverse e ci trascinino interiormente nella direzione sbagliata. Così, come il Signore ha proibito ogni inclinazione interiore all’ira, all’odio, all’adulterio, al furto e alla menzogna, così ora si rivolge contro l’allettamento e la cupidigia.

II,8,50 Dio non esige da noi questa giustizia interiore senza motivo. Perché chi non penserà che sia un giusto desiderio che il nostro cuore sia riempito d’amore con tutte le sue forze? E chi non la considererà una cattiva infermità se devia dalla direzione dell’amore? Da dove viene il fatto che si diffondono nel cuore le concupiscenze che portano danno al fratello, ma dal fatto che si perde di vista quella meta e si pensa solo a se stessi? Se il cuore fosse davvero completamente preso dall’amore, tali concupiscenze non troverebbero punto di partenza da nessuna parte! Così, dove il falso desiderio guadagna spazio, ci deve essere in quella misura spazio sottratto all’amore! Ora forse qualcuno obietterà che non è appropriato che i pensieri informi, che sorgono spontaneamente nella mente e infine svaniscono di nuovo, siano condannati come desideri, che dopo tutto hanno la loro sede nel cuore. Rispondo: Qui stiamo parlando di quei pensieri non formati che sorgono nella mente, ma allo stesso tempo attaccano e provocano il cuore con un desiderio malvagio. Perché la mente non può desiderare senza che il cuore si infiammi e si rallegri allo stesso tempo! Dio decreta dunque quel meraviglioso ardore d’amore che, secondo la sua volontà, non deve turbare nemmeno il minimo desiderio. Esige quella meravigliosa prontezza di cuore che non può essere suscitata nemmeno dal più piccolo pungolo contro il comandamento dell’amore. È stato Agostino che per primo mi ha aperto la strada per capire questo, affinché la gente non pensasse che la mia affermazione fosse priva di fonti pesanti. Sebbene il Signore voglia proibire ogni desiderio malvagio, dà come esempio delle cose particolari che ci catturano specialmente sotto l’apparenza ingannevole del piacere; in questo modo non vuole lasciare nulla al nostro desiderio, se lo allontana dalle cose che sono capaci di eccitarlo più follemente. Così la seconda tavola della legge ci rimprovera tutto ciò che dobbiamo agli uomini per amore di Dio; ma sulla sola contemplazione di Dio pende tutta l’essenza dell’amore. Per questo motivo, tutti i doveri che ci vengono imposti dalla seconda tavoletta saranno inculcati invano se questa istruzione non si basa sul timore e la riverenza verso Dio come solido fondamento. Chi accetta due comandamenti che proibiscono il desiderio malvagio, come il lettore stesso vedrebbe, anche se non ho detto nulla al riguardo, strappa senza senso ciò che sta insieme. Il fatto che l’espressione "Non lasciarti desiderare" ricorra due volte non significa nulla, perché si considera prima la casa e poi tutto ciò che le appartiene, a cominciare dalla donna. Quindi ovviamente tutto questo contesto deve essere compreso in modo uniforme secondo il giusto modello del testo ebraico. Secondo esso, Dio comanda in generale di non toccare nulla di ciò che l’altro possiede, né con ingiustizia e avidità, né con la minima concupiscenza del nostro cuore.

II,8,51 Ora non è più difficile dire cosa vuole la legge nel suo insieme: cioè la giustizia perfetta; essa vuole plasmare la vita dell’uomo a immagine della purezza divina. Perché Dio ha fatto conoscere così chiaramente la sua natura santa nella Legge, che colui che rappresentasse ciò che è comandato con le opere sarebbe, per così dire, l’espressione dell’immagine di Dio! Così dice anche Mosè, per riassumere il contenuto principale della Legge agli Israeliti: "Ora, Israele, che cosa ti chiede il Signore tuo Dio, se non di temere il Signore tuo Dio, di camminare nelle sue vie, di amarlo e di servire il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, di osservare i comandamenti del Signore…" (Deut 10:12, 13). (Deut 10:12, 13). E ogni volta che voleva dire alla gente la cosa più importante della legge, gridava sempre la stessa cosa! Lo scopo dell’insegnamento della Legge è di unirci al nostro Dio in santità di vita e – come dice Mosè in un altro luogo – di farci aderire a Dio (Lev 19:2). Così la santità perfetta consiste nei due pezzi già menzionati: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze" (Deut 6:5; 11:13; Calvino cita in 1a per s. plurale) e "Amerai il tuo prossimo come te stesso" (Lev 19:18). La cosa decisiva, però, è che i nostri cuori siano completamente pieni di amore per Dio. Da questo, l’amore per il nostro prossimo fluirà naturalmente. Questo è dimostrato anche dall’apostolo: "La somma principale del comandamento è l’amore di un cuore puro e di una buona coscienza e di una fede senza macchia" (1Tim 1:5). Così la coscienza pura e la fede incolore sono messe in cima, per così dire, ma ciò significa in una parola: la vera pietà viene prima, e da essa segue l’amore! È quindi errato pensare che nella Legge ci siano dati solo gli inizi della rettitudine, con i quali gli uomini ricevono, per così dire, nuove lezioni, ma non sono ancora condotti alla vera meta delle opere buone. Perché non si può pretendere come massima perfezione più di quanto Mosè e Paolo abbiano espresso nelle frasi citate. Dove andrà un uomo che non è soddisfatto di essere istruito nel timore di Dio, nel culto spirituale, nell’osservare i comandamenti, nel seguire le giuste vie del Signore, nella purezza di coscienza e nella pura fede e amore? Si conferma così corretta l’interpretazione della legge che cerca e trova nei suoi comandamenti tutti i doveri di pietà e di amore. Chi invece cerca nella legge solo inizi sterili e immaturi, come se essa insegnasse solo a metà la volontà di Dio, non ha ancora afferrato nulla della sua vera intenzione, secondo la testimonianza dell’apostolo.

II,8,52 Ora Cristo e gli apostoli, nel menzionare la somma della legge, passano spesso sopra la prima tavola; perciò molti cadono nella sciocca fantasia, come se queste parole si riferissero ad entrambe le tavole allo stesso tempo. Per esempio, in Matteo, Cristo chiama le parti principali della legge giudizio, misericordia e fedeltà (Mat 23,23). La "fedeltà" mi sembra essere chiaramente intesa come un atteggiamento retto verso le persone. Ma se si vuole riferire questo detto a tutta la legge, allora si capisce che significa fedeltà contro Dio. Questo è sicuramente sbagliato; perché Cristo parla di tali opere in cui l’uomo si dimostrerà visibilmente giusto. Se teniamo presente questo, non ci stupiremo più che abbia risposto alla domanda del giovane: "Che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?". (Mat 19,16) solo lui dà la risposta: "Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, onora tuo padre e tua madre e ama il tuo prossimo come te stesso" (Mat 19,18.19). Perché l’obbedienza alla prima tavola della legge consisteva, dopo tutto, nella disposizione del cuore o nell’esecuzione delle cerimonie. L’atteggiamento del cuore non era visibile, e le cerimonie erano praticate anche dagli ipocriti con grande zelo; le opere d’amore, invece, sono tali da provare la genuinità della nostra giustizia! Questo accade così spesso nei Profeti che deve essere ben noto a un lettore che ne abbia una certa conoscenza. Perché quasi ogni volta che esortano al pentimento, si allontanano dalla prima tavoletta ed esortano alla fedeltà, alla giustizia, alla misericordia e all’equità. Così facendo, non ignorano il timore di Dio, ma vogliono vederlo confermato da chiari segni che la gente lo prende sul serio! Come è noto, quando si parla del compimento della Legge, di solito si insiste sui comandamenti della seconda tavola, perché è qui che l’aspirazione alla giustizia e alla purezza viene più chiaramente alla luce. Non ho bisogno di citare alcun passaggio su questo, perché ognuno può fare questa osservazione da solo.

II,8,53 Ora qualcuno potrebbe anche chiedere: la condotta irreprensibile tra gli uomini è davvero più utile alla giustizia che la pia riverenza verso Dio? Certamente no! Ma poiché nessuno può mantenere facilmente l’amore in tutte le cose se non teme seriamente Dio, l’amore può servire come prova del timore di Dio. Inoltre, il Signore sa molto bene che nessuna delle nostre buone azioni può raggiungerlo – come testimonia anche il profeta – ed è per questo che non ci ha chiesto di servire se stesso, ma piuttosto di praticare le buone azioni verso il nostro prossimo (Sal 16,2; Vulgata). Perciò anche l’apostolo cerca giustamente tutta la perfezione dei santi nell’amore (Efes 3:19; Col 3:14). Non è nemmeno assurdo quando chiama l’amore il "compimento della legge", aggiungendo che chi ama il suo prossimo ha compiuto la legge (Rom 13:8, 10). Così dice anche: "Perché tutte le leggi si adempiono in una sola parola, che è: Ama il tuo prossimo come te stesso" (Gal 5:14). Non porta altro insegnamento che Cristo stesso: "Perciò, tutto quello che volete che la gente faccia a voi, voi fatelo a loro". Questa è la legge e i profeti" (Mat 7,12). La fede ha certamente il primo posto nella Legge e nei Profeti e tutto ciò che appartiene al giusto culto di Dio, l’amore segue solo come qualcosa di subordinato. Ma il Signore capisce che nella Legge ci viene solo comandato di cercare la giustizia e l’equità tra gli uomini; in questo dobbiamo essere allenati a testimoniare la nostra pia riverenza verso Dio, se essa vive in noi altrimenti!

II,8,54 Teniamo dunque fermo che la nostra vita è allora formata solo secondo la volontà di Dio e il precetto della legge, quando dimostra in tutto e per tutto di essere giustamente utile ai nostri fratelli! In tutta la legge non c’è una sola sillaba in cui si dà all’uomo una regola su ciò che deve o non deve fare per il beneficio e la pietà della propria carne! E davvero, se gli uomini sono per natura più inclini all’amor proprio di quanto sia giusto, e vi si aggrappano sempre, per quanto si allontanino dalla verità, non c’era bisogno di nessuna legge per infiammare ancora di più questo già smodato amor proprio! (cfr. Agostino, Sull’istruzione cristiana I,23-25). Così, come è perfettamente chiaro, non è il nostro amor proprio ma il nostro amore per Dio e per il prossimo che adempie i comandamenti, e vive meglio e più santo chi vive meno per se stesso e cerca se stesso, e d’altra parte nessuno vive più nella perversità e nell’ingiustizia di chi vive solo per se stesso, cerca se stesso, pensa solo al suo e cerca il suo! Per mostrarci quanto dovremmo amare il nostro prossimo, il Signore indica il nostro amor proprio, che è l’istinto più forte e potente in noi, e lo fa diventare lo standard del nostro amore per gli altri! (Lev 19,18). Naturalmente, bisogna stare molto attenti a quello che il Signore vuole dire con questo modo di parlare; perché non dà il primo posto all’amore per se stessi e il secondo all’amore per il prossimo, come alcuni intelligenti hanno scioccamente sognato. Piuttosto, egli trasferisce agli altri l’istinto d’amore per noi stessi, che portiamo dentro di noi per natura, appunto l’amor proprio! L’apostolo dice anche: "L’amore non cerca il proprio" (1Cor 13:5). Non vale un pelo l’argomento sofistico che ciò che è misurato da uno standard è sempre inferiore a questo standard stesso. Perché il Signore non fa del nostro amor proprio uno standard a cui il nostro amore per gli altri dovrebbe essere sottoposto, ma mostra che l’amore che, per depravazione naturale, tende a rimanere con noi stessi, dovrebbe ora essere donato agli altri, così che non siamo meno veloci, ferventi e desiderosi di fare del bene al nostro prossimo che a noi stessi!

II,8,55 Ora Cristo mostra nella parabola del Buon Samaritano che l’espressione "il prossimo" include anche lo straniero (Luca 10,36); quindi non dobbiamo limitare questo comandamento di amore fraterno alla nostra più stretta amicizia e parentela. Ammetto, naturalmente, che più siamo vicini a una persona, maggiore è il nostro obbligo di starle vicino in amicizia. Perché è nella natura del genere umano che gli uomini sono tanto più obbligati gli uni verso gli altri quanto più strettamente sono legati tra loro da vincoli di parentela, amicizia o vicinato. Questo non significa un insulto a Dio, perché nella sua provvidenza ci ha, per così dire, imposto tali obblighi. Eppure io dico: questo nostro amore deve abbracciare tutti gli uomini insieme, senza eccezione; qui non c’è distinzione tra non greci e greci, degni e indegni, amici e nemici; perché dobbiamo guardare gli uomini in Dio e non in e per se stessi! Se rinunciamo a questa visione, non c’è da meravigliarsi se rimaniamo impigliati in tutti i tipi di errori. Se vogliamo trovare la strada giusta nel nostro amore per il prossimo, non dobbiamo prima rivolgere il nostro sguardo all’uomo, che, attraverso ciò che è sotto i nostri occhi, vorrebbe forse instillare l’odio piuttosto che l’amore, ma a Dio, che vuole che noi riversiamo su tutti gli uomini l’amore che gli diamo. Quindi che questo sia il fondamento costante: L’uomo può essere come vuole, ma noi dobbiamo amarlo perché amiamo Dio!

II,8,56 Perciò è stata un’ignoranza e una cattiveria come la peste che gli scolastici abbiano fatto dei cosiddetti "consigli evangelici" del comandamento di non vendicarsi e di amare i propri nemici, che era già noto agli ebrei nei tempi passati e ora è stato reso noto a tutti i cristiani insieme, che si può osservare e anche non osservare, come si vuole! Solo i monaci dovrebbero essere tenuti ad obbedire a questi "consigli evangelici", la cui giustizia superiore rispetto ai cristiani comuni consisterebbe già nel fatto che si sono impegnati volontariamente all’adempimento di questi "consigli"! La ragione data per non accettare questi "consigli" come leggi è che sembrano essere un peso troppo grande e troppo pesante, specialmente per i cristiani che sono sotto la legge della grazia! È così che si osa liquidare di propria iniziativa la legge eterna di Dio, che ci comanda di amare il prossimo? Una tale distinzione (tra "legge" e "consigli evangelici") si trova nella legge in una sola pagina? Non siamo forse confrontati ancora e ancora con comandamenti che richiedono di amare i nostri nemici nel modo più rigoroso? O cosa significa quando ci viene comandato di nutrire il nemico affamato (Prov 25:21), di ricondurre il suo bue o asino che si smarrisce sulla retta via o di alleggerire il suo carico quando diventa troppo pesante per lui? (Es 23:4, 5). Dobbiamo fare del bene alla bestia del nostro nemico per il suo bene – ed escluderlo noi stessi dalla nostra benevolenza? Perché, non è forse la parola eterna del Signore: "La vendetta è mia, io ripagherò"? (Deut 32,35). Questo è reso ancora più chiaro in un altro passo: "Non ti vendicherai e non serberai rancore per il torto subito dal tuo prossimo" (Lev 19:18). Tali comandamenti devono essere strappati dalla Scrittura – oppure si deve riconoscere che il Signore ci dà la Sua legge, e rinunciare alla bugia che Egli ha dato solo "consigli"!

II,8,57 Ma cosa significano le parole che si è cercato di falsificare con osservazioni così incoerenti? "Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, pregate per coloro che vi insultano e vi perseguitano, benedite coloro che vi maledicono, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli…"! (Mat 5,44.45). Chi non concluderebbe con il Crisostomo che un motivo così importante ("perché siate figli…") è già un chiaro segno per vedere qui precetti e non esortazioni? (Nel libro De compunctione cordis I). Perché cosa ci rimane se siamo tagliati fuori dal numero dei figli di Dio? Ma secondo la Scolastica, solo i monaci saranno veramente figli di Dio, solo loro possono osare chiamare Dio loro Padre! Ma allora cosa dovrebbe essere la Chiesa? Possono essere relegati tra i pagani e gli esattori delle tasse con lo stesso diritto! Perché Cristo dice: "Se amate quelli che vi amano, quale ricompensa avrete? I pubblicani non fanno forse lo stesso?". (Mat 5,46; Calvino dice: "Gentili e pubblicani"). Dobbiamo essere a posto se ci rimane solo il nome vuoto di cristiano, ma siamo privati dell’eredità del regno dei cieli! L’argomento di Agostino non è meno convincente. Dice: "Se il Signore proibisce l’adulterio, ci proibisce di toccare la moglie di un nemico come quella di un amico; se proibisce il furto, non dobbiamo rubare niente a nessuno, né a un amico né a un nemico! (Dell’istruzione cristiana I). Così Paolo riconduce anche questi due comandamenti, "Non rubare" e "Non commettere adulterio", al comandamento dell’amore e dice che anch’essi sono contenuti nel comandamento, "Ama il tuo prossimo come te stesso" (Rom 13:9). Quindi Paolo deve essere un interprete invertito della legge – oppure il comandamento di amare i nemici come amici sorge davvero qui! Chiunque getta via con tanta leggerezza il giogo che è posto sui figli di Dio, dimostra veramente di essere un figlio di Satana! Si può solo dubitare se sia stata più stupidità o più impudenza a guidare l’imposizione di questo dogma. Per gli antichi tutti, senza eccezione, hanno pronunciato come una convinzione certa e indiscutibile che questi sono comandamenti puri! Come è evidente dalla chiara affermazione di Gregorio stesso, non è stato contestato nemmeno ai suoi tempi; egli, in ogni caso, senza menzionare alcuna differenza di opinione in materia, parla di precetti. Che argomento sciocco è anche questo, che gli scolastici propongono! Dicono che queste cose sono un giogo troppo pesante per un uomo cristiano. Come se si potesse pensare a qualcosa di più pesante di questo, di amare Dio con tutto il cuore, l’anima e la forza! In vista di questo comandamento, tutto deve sembrare facile, anche l’amore dei nostri nemici e la rimozione di ogni vendetta dal nostro essere interiore! Per noi, nella nostra debolezza, tutto è certamente troppo pesante, anche il più piccolo piccolo della legge! Ma è il Signore che ci rende forti: egli deve dare ciò che comanda – e poi può comandare ciò che vuole (Augustin). Il fatto che il cristiano sia sotto la legge della grazia non significa che cammina arbitrariamente senza legge, ma che è impiantato in Cristo, la cui grazia lo libera dalla maledizione della legge e il cui Spirito scrive la legge nel suo cuore! Paolo chiama questa grazia una legge (e s. Rom 8,2); la mette così in relazione con la legge di Dio, alla quale la paragona. Gli scolastici, però, fanno un gioco vano con la parola "legge"!

II,8,58 Non è meglio che gli scolastici chiamino l’empietà nascosta, che è contraria alla prima tavola della legge, e anche l’aperta trasgressione dell’ultimo comandamento (cioè il cattivo desiderio) un peccato "veniale" (peccatum veniale). Presentano la questione in modo tale che si tratta di un desiderio senza affermazione interiore risoluta, che non rimane a lungo nel cuore. Io, invece, sono convinto che un tale desiderio non può sorgere nel cuore senza violare le esigenze della legge. Così ci è proibito avere altri dei. Ora, se la nostra anima, imbrigliata dall’inganno dell’incredulità, si guarda intorno per l’altro lato, e poi improvvisamente l’inclinazione si insinua su di essa per costruire la sua salvezza su qualcos’altro (piuttosto che su Dio solo) - da dove può venire un impulso così sciocco se non dal fatto che c’è ancora spazio nel nostro cuore aperto a tali tentazioni? Non vogliamo prolungare la prova; in breve, abbiamo il comandamento: "Amerai Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente"; ora, se il nostro cuore non è completamente diretto con tutte le sue forze verso l’amore di Dio, questo significa già una deviazione dall’obbedienza alla legge. Perché i nemici che si agitano nella nostra coscienza per rovesciare il dominio di Dio e per aggirare i suoi comandamenti dimostrano che il trono di Dio non è ancora abbastanza saldo in loro! Come abbiamo dimostrato, questo è esattamente ciò a cui si riferisce il decimo comandamento. Un forte desiderio sorge nel nostro cuore: già siamo colpevoli di un desiderio malvagio e ovviamente trasgressori della legge! Perché il Signore non ci proibisce solo di pensare o di fare qualcosa a scapito del nostro prossimo, ma ci proibisce ogni stimolo e ogni impeto di lussuria! Ma c’è sempre la maledizione di Dio sulla trasgressione della legge! È per questo che non abbiamo alcuna ragione per evitare la condanna a morte di Dio al minimo fremito di desiderio. Agostino dice: "Nel contemplare il peccato, non dobbiamo usare bilance ingannevoli sulle quali poi pesiamo ciò che vogliamo e come vogliamo, secondo la nostra discrezione, né dire: ’questo è pesante’ – ’questo è leggero’ no, dobbiamo prendere dalle Sacre Scritture, come dal tesoro stesso del Signore, la bilancia giusta, divina, e poi pesare ciò che è più pesante – no, nemmeno pesare, ma riconoscere come il Signore lo ha pesato!" (Del Battesimo, Contro i Donatisti II,6). Ma come sta nella Scrittura (con quella presunta distinzione in peccati più pesanti e più leggeri)? Paolo dice: "La morte è il salario del peccato" – e così testimonia che almeno lui non sa nulla di questa distinzione riprovevole! Siamo tutti troppo inclini all’ipocrisia, e quindi non c’era davvero bisogno di alcuna imbottitura per addormentare ancora di più le nostre coscienze spente!

II,8,59 Se solo prestassimo attenzione a ciò che Cristo vuole dire quando dice: "Chiunque dunque violerà uno di questi minimi comandamenti e lo insegnerà agli uomini, sarà chiamato minimo nel regno dei cieli" (Mat 5,19)! Non comprende forse anche coloro che osano minimizzare la trasgressione della legge come se non fosse degna di morte? Non bisogna considerare semplicemente ciò che viene comandato, ma chi comanda; perché anche la più piccola trasgressione della legge che ci ha dato è una violazione della sua autorità! A queste persone semplicemente non importa se la maestà di Dio viene violata in qualche modo? Anche questo deve essere preso in considerazione: se Dio ci ha fatto conoscere la sua volontà nella sua legge, allora sicuramente tutto ciò che contraddice la legge è anche contrario ad essa! Ma si vuole pensare che l’ira di Dio sia così disarmata che la trasgressione non debba essere seguita dalla pena di morte? E lui stesso – se si vuole ancora ascoltare la sua parola e non piuttosto distorcere la sua pura verità con sottigliezze senza senso! – abbastanza chiaramente: "Ogni anima che pecca, morirà!" (Ez 18,20). O anche, come ho già detto sopra: "La morte è il salario del peccato" (Rom 6:23). Ma i furbi ammettono il peccato, perché non possono negarlo – ma vogliono negare che porta la morte! Penso che ora ne abbiano avuto abbastanza di scherzare – e ora dovrebbero finalmente diventare saggi! Ma se vogliono continuare con la loro follia, non vogliamo più occuparci di loro. In ogni caso, i figli di Dio devono tenere fermo il fatto che ogni peccato porta alla morte, perché è una ribellione contro la volontà di Dio, che provoca necessariamente la sua ira, e perché è una trasgressione della sua legge, sulla quale il giudizio di Dio si ferma senza eccezione! Ma che le trasgressioni dei santi siano "veniali" non è dovuto a queste trasgressioni stesse, ma alla misericordia di Dio, che concede loro il perdono!


Capitolo nove

Cristo era già noto agli ebrei sotto la Legge, ma ci appare chiaramente solo nel Vangelo.

II,9,1 Non è stato invano che Dio ha voluto testimoniare se stesso come Padre attraverso la purificazione e il sacrificio nei tempi antichi; non è stato invano che ha preso il suo popolo eletto come suo. Perché indubbiamente Egli si è fatto conoscere già allora nella stessa immagine in cui ora ci appare in pieno splendore! Possiamo vedere questo in Malachia. Prima ordina agli ebrei di osservare la legge di Mosè e di continuare ad osservarla con zelo – perché dopo la sua morte l’ufficio di profeta doveva cessare per un certo tempo! Ma poi annuncia che presto "il sole della giustizia sorgerà" (Mal 4,2 = 3,20). Con questo testimonia che la legge dimostra il suo potere nel mantenere il pio in attesa della venuta di Cristo, ma che attraverso la venuta di Cristo sorgerà una luce molto più brillante. Pietro dice anche che i profeti avevano cercato diligentemente la salvezza, che ora era stata rivelata; ma che era stato fatto loro conoscere un tale messaggio, che essi non dovevano parlare per se stessi o per la loro epoca, ma per noi, e che in fondo significa ciò che ci viene proclamato nel Vangelo! (1Piet 1,10.12). Certamente il loro insegnamento non fu senza beneficio per il popolo del Primo Patto, né rimase senza effetto su di loro; ma essi stessi non ricevettero il prezioso gioiello che Dio ci ha dato per mano loro! Perché oggi quella grazia di cui hanno dato testimonianza si avvicina ai nostri occhi; e mentre loro ne hanno avuto solo un piccolo assaggio, noi possiamo goderne più abbondantemente. Così Cristo stesso ci ha anche assicurato che secondo la misura della grazia siamo al di sopra degli ebrei – sebbene Egli stesso dica anche che Mosè ha dato testimonianza di Lui! (Giov 5:46). Perché egli chiama i suoi discepoli: "Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete; beati gli orecchi che ascoltano ciò che voi ascoltate". Perché molti profeti e re hanno voluto vedere le cose che voi vedete, e non le hanno viste; e ascoltare le cose che voi udite, e non le hanno udite" (Mat 13:16, 17; Luca 10:23, 24). Questo non è certo un piccolo elogio della rivelazione nel Vangelo, quando Dio ci pone persino al di sopra dei santi padri, che si distinguevano per il loro speciale timore di Dio. D’altra parte, Cristo dice anche: "Abramo vide il mio giorno e si rallegrò! (Giov 8:56), non contraddice in alcun modo questo. Perché anche se era solo una visione fioca e poco chiara in lontananza, c’era comunque la certezza di una vera speranza; da qui la gioia che accompagnò il santo arci-padre fino alla morte! Le parole di Giov Battista: "Nessuno ha mai visto Dio, ma il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, ce lo ha dichiarato" (Giov 1:18), non escludono i pii, che erano morti prima, dalla comunione della conoscenza e dell’illuminazione, poiché entrambe risplendono a noi nella persona di Cristo! Mette a confronto la nostra situazione con la loro, e mostra come i misteri che loro intravedevano solo nell’ombra sono ora rivelati a noi. In modo simile, l’autore della Lettera agli Ebrei esprime questo in modo molto bello: "Dopo che Dio ha parlato in passato talvolta e in vari modi… attraverso i profeti, negli ultimi… ha parlato a noi attraverso il Figlio!" (Eb 1:1,2). Perché questo Unigenito, che è per noi oggi lo "splendore della gloria" e "l’immagine dell’essere" di Dio (Ebr 1:3), una volta fu anche fatto conoscere agli ebrei; come abbiamo già notato da Paolo, egli fu anche la guida del vecchio popolo del patto nella libertà! (pensiamo a 1Cor 10:4). E tuttavia rimane vero ciò che lo stesso Paolo dice in un altro luogo: "Dio, che ha fatto risplendere la luce dalle tenebre, ha dato una luce brillante ai nostri cuori, perché attraverso di noi giunga l’illuminazione della conoscenza della gloria di Dio nel volto di Gesù Cristo" (2Cor 4:6). Perché apparendo in questa immagine di Dio, Egli è diventato visibile, mentre prima la Sua immagine era oscura e in ombra! Ma è tanto più malvagio e detestabile quando la gente oggi sta lì cieca nella sua ingratitudine in pieno giorno! Paolo dice anche che le "menti" di queste persone sono state "accecate" da Satana, così che non vedono la gloria di Cristo, sebbene essa risplenda a noi senza alcuna cortina nel Vangelo! (2Cor 4:4).

II,9,2 Per vangelo, dunque, intendo la chiara rivelazione del mistero di Cristo. Poiché Paolo chiama il vangelo la "dottrina della fede" (1Ti 4:6), ammetto che il vangelo include anche quelle promesse del perdono dei peccati per grazia gratuita, che ricorrono continuamente nella legge, attraverso cui Dio riconcilia gli uomini a sé. Infatti Paolo contrappone la fede alla paura che angoscia e tormenta la coscienza quando si suppone che l’uomo si guadagni la salvezza con le proprie opere. Quindi "vangelo" in un senso più ampio include tutte le testimonianze della misericordia divina e della bontà paterna che Dio ha dato una volta ai padri; ma in modo speciale "vangelo" denota la rivelazione della grazia offerta a noi in Cristo; non solo l’uso generale della parola parla per questo, ma è basato sull’autorità di Cristo e dei Suoi apostoli (Mat 4:17-23; 9:35). Ecco perché si dice che il Signore abbia predicato il "vangelo del regno" per descrivere la sua speciale professione. E Mar inizia il suo Vangelo con il titolo: "Inizio del Vangelo di Gesù Cristo" (Mar 1:1). Non è nemmeno necessario elencare altri passaggi: la questione è troppo nota. Secondo Paolo, Cristo ha portato "la vita e l’incorruttibilità alla luce attraverso il vangelo" (2Tim 1:10). Paolo non intende dire che i padri erano nelle tenebre e nell’ombra della morte fino all’incarnazione del Figlio di Dio. Ma vuole sottolineare i grandi vantaggi del vangelo e spiega che si trattava di un messaggio nuovo e fino ad allora sconosciuto, in cui Dio adempiva la sua promessa, così che nella persona del Figlio la verità della promessa veniva alla luce. Certamente i credenti di tutti i tempi sperimentarono la verità delle parole di Paolo: "Tutte le promesse di Dio sono Sì in Lui e Amen in Lui" (2Cor 1:20); perché le promesse erano sigillate nei loro cuori. Ma Egli ha compiuto nella Sua carne tutte le cose che riguardano la nostra salvezza, e quindi l’annuncio della questione stessa doveva essere fatto in un messaggio speciale. Da qui la parola di Cristo: "D’ora in poi vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo" (Giov 1:51). In questo sembra alludere a quella scala che una volta fu mostrata in faccia all’arci-padre Giacobbe, ma indica la gloria speciale della sua venuta dicendo che ha aperto la porta del cielo per noi, in modo che possiamo avere libero accesso!

II,9,3 Ma qui dobbiamo guardarci dall’illusione diabolica di Servet; egli vuole esaltare fortemente la grandezza della grazia di Cristo, o almeno finge di volerlo fare – e quindi liquida completamente tutte le promesse, come se avessero raggiunto la loro fine insieme alla legge. Egli sostiene che con la fede nel vangelo ci viene concesso il compimento di tutte le promesse. Come se non ci fosse differenza tra noi e Cristo! Certamente, io stesso ho sottolineato sopra che Cristo ha acquisito la nostra salvezza così completamente per noi che non c’è più nulla. Ma sarebbe sbagliato concludere da questo che siamo già in pieno possesso dei benefici che ci ha dato – come se fosse sbagliata la parola di Paolo, secondo la quale tutta la nostra beatitudine è nascosta nella speranza (Rom 8,24; Col 3,3)! Certamente, attraverso la fede in Cristo passiamo dalla morte alla vita, ma non dobbiamo trascurare le parole di Giovanni: "Ora siamo figli di Dio, ma non è ancora apparso ciò che saremo. Ma noi sappiamo che quando apparirà, saremo simili a lui, perché lo vedremo com’è" (1Gio 3:2). Così Cristo ci offre certamente la pienezza presente di tutti i beni spirituali nel vangelo; ma il godimento di questi beni rimane sempre sotto la sorveglianza della speranza finché non ci spogliamo di questa carne corruttibile e siamo cambiati nella gloria del nostro Signore che ci ha preceduto! Nel frattempo, dobbiamo attenerci alle promesse secondo l’istruzione dello Spirito Santo – e la sua autorità vale per noi più di tutti i latrati di quel cane immondo! Perché secondo la testimonianza di Paolo, la "pietà" ha la "promessa di questa vita e della vita a venire" (1Tim 4:8). E perciò anche Paolo si definisce apostolo di Cristo "secondo la promessa della vita in Cristo Gesù" (2Tim 1,1). Altrove (2Cor 7:1; cfr. 6:16-18!) ci ricorda che abbiamo le stesse promesse che furono date una volta ai padri! E infine, riassume tutta la nostra benedizione nel fatto che siamo sigillati con lo Spirito Santo come "Spirito di promessa" (Efes 1,13). Possiamo avere una parte in Cristo solo nella misura in cui lo afferriamo nelle sue promesse! Così avviene che Lui stesso abita nel nostro cuore – e tuttavia noi "camminiamo lontano dal Signore"; "perché camminiamo per fede e non per vista! (2Cor 5:7). Queste due cose, che in Cristo abbiamo tutto ciò che appartiene alla perfezione della vita celeste – e che la fede è comunque un vedere i beni che non si vedono (cfr. Ebr 11,1), non stanno male insieme. Ma la differenza deve essere osservata nella natura delle promesse: perché il vangelo punta il suo dito su ciò che la legge ci mostra solo in forma di ombra sotto i modelli!

II,9,4 Da qui possiamo anche confutare l’errore secondo cui la legge e il vangelo si contrappongono esclusivamente come giustizia per opere e giustizia graziosamente imputata. Questo accostamento non è di per sé affatto riprovevole; Paolo intende spesso la legge come quella linea guida per la vita in cui Dio esige da noi ciò che gli è dovuto, ci dà speranza di vita solo se siamo obbedienti in tutto, e dall’altra parte ci minaccia di una maledizione se ci discostiamo minimamente; Questi sono i passaggi in cui Paolo parla di come otteniamo il piacere di Dio per pura grazia e siamo dichiarati giusti nel perdonare la misericordia, perché non si può parlare di tale osservanza della legge, alla quale è promessa la ricompensa! Così è abbastanza appropriato quando Paolo contrappone la giustizia della legge e la giustizia del vangelo (e s. Rom 3,21 s s. Gal 3). Ma il vangelo non prende il posto della legge in modo tale da aprire un’altra via di salvezza, ma deve piuttosto autenticare le promesse della legge e metterle in atto, aggiungere il corpo stesso all’ombra! Quando Cristo dice: "La legge e i profeti hanno profetizzato fino a Giovanni" (Mat 11, 13; Luca 16, 16), non consegna i padri alla maledizione, alla quale i servi della legge non possono sfuggire, ma mostra soltanto che essi erano ancora all’inizio e quindi non hanno raggiunto l’altezza dell’insegnamento del vangelo. Perciò Paolo chiama anche il Vangelo una "potenza di Dio che salva chiunque crede in esso" (Rom 1,16) e non molto dopo aggiunge che questo Vangelo è "testimoniato dalla legge e dai profeti" (Rom 3,21). E alla fine di Romani chiama la "predicazione di Gesù Cristo" una rivelazione del "mistero che era nascosto al mondo" (Rom 16,25), ma poi aggiunge per spiegazione: "fatto conoscere anche attraverso gli scritti dei profeti"! (Rom 16,26). Da questo è chiaro che rispetto a tutta la Legge, il Vangelo si distingue solo per una testimonianza più chiara; tuttavia, a causa delle inestimabili ricchezze di grazia che ci vengono offerte in Gesù Cristo, non è senza motivo che il regno celeste di Dio viene stabilito sulla terra attraverso la sua venuta!

II,9,5 Tra la Legge e il Vangelo c’è Giov Battista; il suo ministero sta nel mezzo, e ha parentela con entrambi! Da un lato, chiama Cristo "l’Agnello di Dio che porta il peccato del mondo", ed esprime così il contenuto principale del Vangelo. Ma d’altra parte, egli non ha ancora proclamato l’infinita potenza e gloria che è stata mostrata nella resurrezione di Cristo, e quindi Cristo non lo mette alla pari con gli apostoli (Mat 11,11). Perché questo è il significato delle parole del Signore: "In verità, in verità vi dico che tra tutti i nati di donna non è sorto uno più grande di Giov il Battista; ma chi è il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui". Qui non elogia la persona degli uomini; piuttosto, prima pone Giov al di sopra di tutti i profeti e poi comunque eleva l’annuncio del Vangelo al posto più alto; dopo tutto, è anche chiamato "il regno dei cieli"! Giov stesso dice occasionalmente di essere solo una "voce" (Giov 1,23); sembra che si metta sotto i profeti; ma non lo fa per finta umiltà, ma vuole mostrare che non ha un messaggio proprio, ma che ha solo l’ufficio di un precursore, come aveva profetizzato Malachia: "Ecco, io mando il profeta Elia, prima che venga il giorno grande e terribile del Signore" (Mal 4,5 = 3,23). In tutto il suo ministero non fa altro che preparare i discepoli per Cristo! Ed egli stesso dimostra dal profeta Isa (40,3) che Dio gli ha assegnato questo come professione. In questo senso Cristo lo chiama "una luce ardente e bella" (Giov 5,35) – perché il giorno pieno non era ancora sorto! Tuttavia, lo si può annoverare senza esitazione tra i predicatori del Vangelo; egli praticava anche lo stesso battesimo che fu poi assegnato agli apostoli. Ma ciò che egli iniziò fu completato solo più tardi dagli apostoli dopo l’ascensione di Cristo nella gloria celeste.


Capitolo dieci

Sulla somiglianza tra l’Antico e il Nuovo Testamento.

II,10,1 Come è già evidente da quanto precede, tutti gli uomini che Dio ha scelto per essere il suo popolo fin dall’inizio del mondo sono stati uniti a Lui sotto la stessa legge e con lo stesso vincolo di dottrina, come sono ancora in vigore tra noi. Ma è molto importante attenersi a questo punto principale della dottrina, e quindi voglio trattare più dettagliatamente la seguente questione: I padri condividevano la stessa eredità con noi e si aspettavano la salvezza dalla grazia dello stesso Mediatore come noi – ma in che modo la loro condizione in quell’antica alleanza differiva dalla nostra? Le prove che abbiamo addotto dalla Legge e dai Profeti potrebbero dimostrare che il livello di pietà del popolo di Dio non è mai cambiato. Ma la differenza tra l’Antico e il Nuovo Testamento è spesso e molto scritta negli scrittori ecclesiastici, e questo potrebbe causare ogni sorta di offesa ad un lettore meno perspicace; perciò, come è opportuno, considereremo queste cose a fondo in una sezione speciale. Questo sarebbe abbastanza utile in ogni caso; ma quello strano pazzo di Servet e alcuni altri entusiasti dagli occhi selvaggi della setta anabattista ne fanno una necessità inevitabile; perché queste persone pensano al popolo d’Israele non diversamente da una mandria di maiali ingrassati dal Signore, come pretendono beffardamente, senza ogni speranza di vita eterna! Vogliamo tenere questo pernicioso errore lontano dai pii; vogliamo anche eliminare tutte le difficoltà che sorgono immediatamente con l’assunzione di una differenza tra il Vecchio e il Nuovo Testamento, e quindi vogliamo vedere di sfuggita cosa hanno in comune l’Antico e il Nuovo Testamento e cosa hanno in comune, che tipo di alleanza il Signore fece una volta con gli Israeliti prima della venuta di Cristo, e che tipo di alleanza ha fatto ora con noi dopo la rivelazione di Cristo nella carne!

II,10,2 Entrambi possono ora essere effettivamente chiariti con brevi parole. L’alleanza con i padri non può essere distinta dalla nostra nell’essenza e nella sostanza, ma è una e la stessa. Ciò che è diverso, tuttavia, è la presentazione esteriore. Ma nessuno può farsi un’idea chiara da una frase così breve, e quindi, se la nostra indagine deve essere di qualche utilità, dobbiamo necessariamente entrare in una discussione più dettagliata. Tuttavia, per dimostrare la somiglianza o piuttosto l’unità dei due Testamenti, sarà superfluo ripetere le singole osservazioni che abbiamo già fatto; né è bene interferire in questo argomento con cose che saranno portate altrove. Ci sono tre punti principali da considerare qui. In primo luogo, dobbiamo notare che agli ebrei non è stato dato il benessere carnale e la felicità come obiettivo a cui tendere. Piuttosto, sono stati adottati come figli nella speranza della vita immortale, e la fede in questa adozione è stata resa certa per loro dalla rivelazione, dalla legge e dalla profezia. In secondo luogo, l’alleanza alla quale il Signore li riconciliò con sé non era in alcun modo basata sui loro meriti, ma unicamente sulla misericordia di Dio che li chiamò! E terzo: essi avevano e riconoscevano Cristo come loro mediatore, attraverso il quale entravano in comunione con Dio e diventavano partecipi delle sue promesse. La seconda parte non è stata ancora sufficientemente chiarita e sarà quindi trattata in dettaglio al suo posto. Dalle numerose e chiare testimonianze dei profeti potremo provare che tutto ciò che il Signore ha fatto e promesso al Suo popolo è stato fatto per pura bontà e misericordia. Il terzo è già venuto alla luce qua e là, e non abbiamo ancora lasciato intatto il primo.

II,10,3 Ma poiché il primo punto è di grande importanza nel nostro contesto e da esso nascono molte controversie per noi, vogliamo fare uno sforzo speciale per risolvere le questioni che ne derivano; naturalmente, allo stesso tempo dobbiamo anche notare ciò che è ancora necessario per la spiegazione degli altri due pezzi; lo aggiungeremo di tanto in tanto. Paolo toglie il dubbio di tutti e tre i pezzi allo stesso tempo con la sua parola: Dio Padre ha promesso il vangelo di Suo Figlio, che ha rivelato a suo tempo, "in anticipo per mezzo dei suoi profeti nelle Sacre Scritture" (Rom 1,2). Inoltre, Rom 3,21: La giustizia della fede, che il vangelo stesso proclama, è "rivelata e testimoniata dalla legge e dai profeti". Il Vangelo non ferma il cuore dell’uomo con i piaceri della vita terrena, ma lo incoraggia a sperare nell’immortalità; non ci lega ai piaceri terreni, ma ci annuncia la speranza che è riposta per noi nel cielo, e in un certo senso ci trasporta là! Ecco come Paolo lo descrive in un altro luogo: "… per mezzo del quale, credendo, siete stati sigillati con lo Spirito Santo della promessa, che è il pegno della nostra eredità fino alla nostra redenzione, per essere suoi" (Efes 1:13f). O anche: "Avendo sentito parlare della vostra fede in Gesù Cristo e dell’amore di tutti i santi, a causa della speranza che vi è riposta nei cieli, della quale avete sentito parlare prima per mezzo della parola di verità nel Vangelo" (Col 1:4f). Oppure: " …a cui vi ha chiamati per mezzo del nostro vangelo per essere partecipi della gloria del nostro Signore Gesù Cristo" (2Tess 2:14; non è il testo di Lutero, ma è più corretto di questo). Perciò il vangelo è chiamato anche "parola di salvezza" o "potenza di Dio per salvare coloro che credono in esso" o "regno dei cieli". Ma se l’insegnamento del Vangelo è spirituale e apre la via alla vita incorruttibile, non dobbiamo pensare che gli antichi, ai quali fu anche promesso e proclamato, vivessero ora come bestiame, mettendo da parte e trascurando ogni preoccupazione per l’anima, e avessero in mente solo di preparare una buona vita per il corpo! Che nessuno cavilli con me che le promesse del Vangelo, che sono stabilite nella Legge e nei Profeti, sono destinate al popolo della Nuova Alleanza. Perché Paolo dichiara poco dopo quel passo in cui ha parlato della promessa del vangelo: "Ma noi sappiamo che ciò che la legge dice, questo lo dice a coloro che sono sotto la legge!" (Rom 3:19). Certamente lo fa allo scopo di un’argomentazione completamente diversa; ma Paolo non era così smemorato da dimenticare ciò che aveva detto prima (Rom 1,2 – poi dopo 3,21) sulla promessa del vangelo nella legge quando ha scritto questo versetto, in cui permette così che la legge con tutto il suo insegnamento si applichi in realtà agli ebrei! Così, secondo la chiara testimonianza di Paolo, l’Antico Testamento indicava specialmente la vita a venire; poiché egli dice che contiene le promesse del vangelo!

II,10,4 Allo stesso modo si può ora vedere che l’Antica Alleanza era basata sulla misericordia gratuita di Dio e fu confermata dalla mediazione di Cristo. Perché la proclamazione del Vangelo ci fa anche sapere che il peccatore è giustificato solo dalla bontà paterna di Dio e senza tutti i suoi propri meriti; e tutto il contenuto di questa bontà paterna di Dio è deciso in Cristo! Ma chi oserà negare la conoscenza di Cristo ai Giudei, con i quali è stata fatta l’alleanza del Vangelo, il cui unico fondamento è Cristo? Chi li escluderebbe dai benefici della salvezza che ci viene per grazia, dal momento che è stata data loro la dottrina della giustizia della fede? Non abbiamo bisogno di soffermarci a lungo su questo argomento, perché abbiamo la testimonianza del Signore stesso: "Abramo era contento di vedere il mio giorno, lo vide e si rallegrò" (Giov 8:56). E ciò che Cristo dice qui di Abramo, secondo la testimonianza dell’apostolo, si applica al popolo dei fedeli in generale: "Gesù Cristo, ieri e oggi, e lo stesso per sempre" (Ebr 13:8). Perché in questo passaggio non sta semplicemente parlando della divinità eterna di Cristo, ma della sua potenza, che si è rivelata ai credenti in ogni momento. Ecco perché la Vergine Maria (beata virgo) e Zac lo esprimono anche nei loro inni di lode, come nella rivelazione della salvezza in Cristo si realizzano le promesse che il Signore ha concesso un tempo ad Abramo e agli Arcifrati! (Luca 1,54 s.72 s.). Se il Signore, attraverso la rivelazione del suo Cristo, ha riscattato il giuramento che aveva fatto ai padri, bisogna confessare che Cristo e la vita eterna sono sempre stati la meta!

II,10,5 Secondo Paolo, gli ebrei non solo partecipano alla stessa grazia dell’alleanza come noi, ma hanno anche già ricevuto gli stessi segni dell’alleanza (sacramenti). Paolo vuole dissuadere i Corinzi dal cadere negli stessi misfatti citando le punizioni con cui, secondo le Scritture, gli israeliti furono una volta castigati: Non abbiamo motivo di approfittare di alcun privilegio con cui possiamo sfuggire al castigo di Dio che una volta cadde su Israele, perché il Signore avrebbe concesso loro gli stessi benefici e avrebbe mostrato loro la gloria della Sua grazia attraverso gli stessi segni dell’alleanza (1Cor 10:1, 11). Con questo vuole dire: Se pensate di essere fuori pericolo perché siete suggellati dal battesimo e ricevete ogni giorno la Cena del Signore, e tuttavia ci sono promesse gloriose su entrambi, e se nel frattempo disprezzate vergognosamente la bontà di Dio e vi lasciate andare con noncuranza, sappiate che anche gli ebrei avevano tali santi segni – e che il Signore tuttavia ha eseguito i suoi giudizi su di loro con terribile severità! Ricevettero il battesimo mentre passavano attraverso il mare e attraverso la nuvola che li proteggeva dal calore del sole. Si dice che questo passaggio attraverso il mare fu un battesimo carnale, simile al nostro battesimo spirituale solo per un certo aspetto. Ma se questo fosse vero, la prova di Paolo non avrebbe successo, perché egli vuole dimostrare che il cristiano non può rivendicare alcun privilegio sui giudei sulla base del suo battesimo. Questa obiezione è anche contraddetta da quanto segue: "Perché hanno mangiato con noi lo stesso cibo spirituale e bevuto la stessa bevanda spirituale" – con ciò l’apostolo intende Cristo! (1Cor 10:3,4).

II,10,6 Per togliere la forza probatoria a questo detto di Paolo, si cita la parola di Cristo: "I vostri padri mangiarono la manna nel deserto e morirono. Ma chi mangia la mia carne… non morirà in eterno" (Giov 6:49,54). Ma queste due citazioni (1Cor 10 e Giov 6) possono essere riunite senza alcuno sforzo. Il Signore ha a che fare con persone che pensavano di poter essere soddisfatte solo dal cibo corporeo e non si preoccupavano del cibo per l’anima. Egli adatta il suo discorso alla loro comprensione e paragona la manna al suo corpo per renderlo comprensibile a loro. Gli chiesero di provare la sua autorità con un miracolo, come aveva fatto Mosè nel deserto quando aveva implorato la manna dal cielo. Con la manna, però, capirono solo il rimedio contro la fame carnale che allora assaliva il popolo; non si accorsero del mistero superiore che Paolo vedeva dietro di essa. Ora Cristo vuole mostrare loro che dovrebbero aspettarsi da lui un beneficio molto più glorioso di quello che, secondo le loro parole, Mosè aveva mostrato una volta ai padri – e a questo scopo usa ora questo paragone. "Se, secondo voi, era già un grande e memorabile miracolo il fatto che il Signore, per non lasciar perire il suo popolo nel deserto, diede loro questo cibo dal cielo per mezzo di Mosè, di cui potevano ora sussistere per un certo tempo – pensate quanto più glorioso deve essere il cibo che conduce alla vita eterna!" Ora vediamo perché il Signore non menziona nemmeno la cosa più importante della manna qui e menziona solo il suo minimo beneficio! Accadde perché i Giudei, per metterlo alla prova, portarono come esempio Mosè, che era venuto in aiuto del popolo nella sua angoscia con la manna: il Signore ora risponde che gli fu affidato un beneficio molto più glorioso dell’educazione carnale del popolo, che era molto meno – e tuttavia che solo loro rispettavano così tanto! Paolo, invece, era convinto (al contrario degli ascoltatori di Gesù) che il Signore non solo aveva voluto nutrire il corpo con la manna che faceva piovere dal cielo, ma l’aveva distribuita come un mistero spirituale per indicare l’animazione spirituale che aveva avuto luogo in Cristo; e quindi non passa sopra a questo significato della manna, che è particolarmente degno di essere contemplato. Da questo, però, risulta chiaramente che il Signore non solo ha concesso agli ebrei le stesse promesse di vita eterna e celeste di cui ci onora oggi, ma che queste promesse hanno anche ricevuto il loro sigillo attraverso gli stessi sacramenti veramente spirituali. - Agostino ha scritto a lungo su questo contro il Faustus manicheo.

II,10,7 Ma forse il lettore desidera ascoltare le testimonianze della Legge e dei Profeti, per vedere da esse che anche i Padri avevano una parte nell’alleanza spirituale – come Cristo e gli Apostoli ci hanno già testimoniato. Soddisferò volentieri questa richiesta – tanto più volentieri, perché così potrò confutare i miei avversari con una certezza ancora maggiore, in modo che non abbiano più alcuna scusa. Voglio iniziare con una prova che può sembrare insufficiente e assolutamente ridicola agli anabattisti nella loro speranza, ma che certamente reggerà il confronto con le persone sensibili e senza pregiudizi: io do per scontato che la Parola di Dio ha una tale vitalità intrinseca che rende interiormente vivi tutti coloro ai quali Dio dà una parte di essa! Perché è sempre stato riconosciuto ciò che Pietro scrive, chiamandolo un "seme incorruttibile" che "rimane per sempre" (1Piet 1,23). Lo dimostra anche dalle parole di Isa (Isa 40,6). Dal momento che Dio ha unito gli ebrei a sé attraverso questo santo legame (cioè la Parola!), senza dubbio li ha scelti per la speranza della vita eterna! Con la Parola che hanno ricevuto e che li ha avvicinati a Dio, intendo il modo in cui Dio si comunica a noi – non quel modo generale che riempie tutte le creature in cielo e sulla terra, che anima ogni cosa secondo il suo genere, ma non la assicura dalla corruzione, ma quel modo speciale che illumina interiormente i pii alla conoscenza di Dio e, per così dire, dà loro comunione con Lui. Questa Parola ha fatto sì che Adamo, Abele, Noè, Abramo e gli altri padri si aggrappassero a Dio, e quindi avevano senza dubbio accesso al regno eterno di Dio! Perché avevano veramente comunione con Dio, e questo è inconcepibile senza una partecipazione alla vita eterna.

II,10,8 Ma questo forse non è ancora abbastanza chiaro; ebbene, guardiamo ora la forma dell’alleanza stessa; che non solo soddisferà pienamente i lettori comprensivi, ma porterà anche alla luce la follia di coloro che amano tanto contraddire! Perché quando il Signore fece un’alleanza con i suoi servi, fu sempre in questo modo: "Io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo" (Lev 26:12) – e anche i profeti hanno mostrato ancora e ancora che in queste parole è contenuta la vita, la salvezza e la felicità suprema! Non è senza motivo che Davide esclama ripetutamente: "Beato il popolo di cui è il Signore Dio! (Sal 144,15), "Beato il popolo che Egli ha scelto come eredità!". (Sal 33:12) – e non per amore della prosperità terrena, ma perché egli strappa dalla morte coloro che ha adottato come suo popolo, li protegge per sempre e li ricopre di misericordia eterna. Questo è anche quello che sentiamo in altri profeti: "Tu sei il nostro Dio, e non ci lascerai morire" (Aba 1,12; non è il testo di Lutero). Oppure: "Il Signore è il nostro giudice, il Signore è il nostro maestro, il Signore è il nostro re, ci aiuta!" (Isa 33:22). Oppure: "Benedetto sei tu, Israele… perché tu sia salvato dal Signore!". (Deut 33:29). Ma sarebbe superfluo ammassare sempre più prove; quindi non mi preoccuperò più di queste. Ancora e ancora i profeti ci ricordano che non ci manca nulla di buono, e nemmeno la certezza della salvezza, se solo il Signore è il nostro Dio. E giustamente. Perché il suo volto santo, se solo lo lascia risplendere, è una sicura garanzia di salvezza. E come potrebbe un uomo, al quale si è rivelato come suo Dio, non avere anche accesso a tutti i tesori? Se Dio è il nostro Dio, vuole abitare in mezzo a noi, come ha testimoniato attraverso Mosè (Lev 26:12). Ma non si può partecipare a una tale presenza di Dio senza avere allo stesso tempo la vita! E se non fosse stato detto loro nient’altro, avrebbero comunque avuto una piena promessa di vita spirituale in quell’unica parola: "Io sono il tuo Dio" (Es 6,7). Perché non si è dato come Dio solo per i nostri corpi, ma in modo speciale per le nostre anime, che sarebbero rimaste lontane da Lui nella morte se non le avesse unite a sé nella giustizia. Ma se questa unione esiste, porta con sé la salvezza eterna!

II,10,9 Inoltre, Dio non solo proclamò ai padri dell’Antica Alleanza che Egli era il loro Dio, ma che sarebbe rimasto sempre così! La loro speranza non era quella di accontentarsi dei beni presenti, ma di protendersi verso l’eternità! Che abbiano compreso correttamente questa promessa di Dio nel futuro è dimostrato da molte parole in cui i fedeli si confortano non solo nella sventura presente, ma anche per tutto il futuro, che Dio non li lascerà mai. Sì, lui stesso – e questa è la seconda parte della promessa! – nella certezza che la sua benedizione sarebbe andata oltre i limiti della vita: "Io sarò il tuo Dio e la tua discendenza dopo di te" (Gen 17,7). (Gen 17:7; in realtà singolare). Così Dio voleva dare loro la certezza che avrebbe continuato a mostrare i suoi benefici anche dopo la loro morte, benedicendo i discendenti; ma allora tanto meno essi stessi potevano mancare della sua bontà! Perché Dio non è come gli uomini: essi rivolgono il loro amore ai figli dei loro amici perché la morte di questi amici li rende incapaci di mostrare loro la loro benevolenza. Ma Dio non è ostacolato nella sua benevolenza dalla morte, e non priva i morti del frutto della sua misericordia, che estende a mille generazioni per loro! (Es 20,6). Voleva mostrare loro la grandezza e la ricchezza della sua bontà, che avrebbero dovuto sentire ancora dopo la loro morte, in un modo particolarmente glorioso dando la promessa che essa avrebbe incluso anche i loro discendenti! La verità di questa promessa fu suggellata dal Signore quando, molto tempo dopo la morte degli arci-padri, chiamò se stesso il "Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe" (Es 3:6). Ora, questa non sarebbe un’assicurazione abbastanza ridicola se questi uomini avessero cessato di essere? Sarebbe allora come se avesse detto: "Io sono il Dio di coloro che non lo sono!". Perciò, secondo il racconto degli evangelisti, Cristo riuscì a convincere i sadducei con questo unico esempio, in modo che non potessero più negare che Mosè aveva già testimoniato la risurrezione dei morti! (Mat 22,23-32; Luca 20,27-38). Sapevano anche da Mosè: "Tutti i suoi santi sono nella tua mano! (Deut 33:3). Come vediamo chiaramente qui, nemmeno la morte può estinguere coloro che Lui ha preso sotto la Sua protezione, la Sua cura, la Sua vigilanza, che è il Signore sulla vita e sulla morte!

II,10,10 Ora arriviamo al punto cruciale di tutta l’indagine. Dobbiamo decidere la questione se i credenti stessi sono stati istruiti dal Signore a tal punto da sapere di un’altra vita, in modo da trascurare le cose terrene e dirigere i loro pensieri e aspirazioni verso quest’altra vita. Prima di tutto, il modo di vivere che Dio aveva prescritto loro era una prova perpetua per loro, che insegnava loro molto bene che sarebbero stati gli esseri più miserabili se avessero cercato la loro felicità solo in questa vita. Adamo era il più miserabile degli uomini per il solo ricordo della sua felicità perduta; il lavoro con cui doveva guadagnarsi da vivere era duro e faticoso; ma non solo la maledizione di Dio si posò pesantemente sul lavoro delle sue mani (Gen 3:17), no, proprio dal luogo in cui avrebbe potuto aspettarsi qualche consolazione venne il più pesante dolore del cuore. Dei suoi due figli, un terribile fratricidio gliene strappò uno (Gen 4:8), e l’altro, che rimase, gli procurò dolore e disgusto alla sua sola vista! Abele, che nel fior fiore della vita crudele misfatti allungato, è un perfetto esempio di miseria e fragilità umana. E Noè trascorse buona parte della sua vita nel laborioso lavoro di costruzione dell’arca, mentre tutto il mondo intorno a lui viveva spensierato delle sue gioie (Gen 6:22). Il fatto che sia scampato alla morte gli ha portato più disagi e fatiche che se avesse ceduto alla morte mille volte! Perché la sua arca fu praticamente una tomba per lui per dieci mesi - e poi si trovò anche in una situazione veramente dolorosa in mezzo alla sporcizia degli animali. Non appena è scampato a questa angoscia, un nuovo dolore lo colpisce: il suo stesso figlio esercita la sua cattiva volontà contro di lui, ed egli stesso deve pronunciare la maledizione su di lui, sebbene lo abbia salvato dal diluvio grazie alla grande bontà di Dio! (Gen 9,24 s.).

II,10,11 Abramo può avere più valore per noi di molte migliaia di persone, se guardiamo alla sua fede, che ci sta davanti come il più alto esempio: e noi, per essere figli di Dio, dobbiamo appartenere alla sua razza (Gen 12,3). Cosa c’è di più assurdo che chiamare Abramo "padre di tutti i credenti" e poi non assegnargli nemmeno il posto più basso tra loro? Non può essere estromesso dal numero dei credenti, nemmeno dal suo alto posto d’onore tra di loro, senza distruggere l’intera chiesa. Ma com’era la sua vita? Quando il comando di Dio lo chiamò, fu strappato dalla sua patria, dai suoi parenti, dalla cerchia dei suoi amici, cioè da ciò che all’uomo sembra essere più delizioso nella vita – proprio come se il Signore avesse voluto deliberatamente privarlo di tutta la gioia della vita! E non appena si trova nella terra in cui deve vivere, una carestia lo scaccia di nuovo. Si rifugia in una terra dove deve dare via la sua stessa moglie per rimanere in vita (Gen 12,11 ss.) – e questo è stato probabilmente più amaro delle morti multiple! Non appena è tornato nella terra che gli era stata assegnata come sua dimora, viene di nuovo scacciato da una carestia! E che beatitudine è vivere in una terra dove si può soffrire la fame così spesso, persino morire di fame, se non si fugge? – E poi, con Abimelech, si trova di nuovo nella stessa terribile miseria di dover risolvere la sua vita con la perdita di sua moglie. Vaga instabilmente per la terra per molti anni, finché l’incessante litigio dei pastori lo costringe a separarsi da suo nipote, che era come un figlio per lui. E certamente sentì questa separazione come se un arto fosse stato tagliato dal suo corpo! Poco dopo viene a sapere che i nemici lo hanno rapito! Ovunque vada, trova dei vicini rozzi e selvaggi che vogliono persino negargli l’acqua dei pozzi che lui stesso ha faticosamente scavato! Infatti non avrebbe comprato per contratto il diritto da parte del re di Gerar se non gli fosse stato negato in precedenza. Ha già raggiunto un’età matura, e deve temere di sperimentare ciò che è la cosa più disgustosa e amara a un’età simile: rimanere senza figli! Contro ogni speranza, Ismaele gli nasce. Ma questo gli procura un nuovo dispiacere, perché Sarah lo rimprovera aspramente, come se avesse alimentato l’orgoglio della cameriera e in tal modo avesse disturbato lui stesso la pace della casa! Finalmente nasce Isacco, ma questo porta di nuovo alla cacciata del primogenito Ismaele, che viene praticamente scacciato come un reietto per il suo stesso bene. Allora gli resta solo Isacco, la gioia dell’uomo pio nei suoi vecchi tempi. E lì riceve l’ordine di sacrificare proprio questo Isacco! Cosa c’è di più terribile del fatto che un padre uccida il proprio figlio? Se una malattia lo avesse preso, tutti avrebbero compatito il vecchio come il più miserabile di tutti gli uomini, al quale un figlio era stato dato come una beffa per raddoppiare il dolore della mancanza di figli! Se fosse stato ucciso per mano di qualcun altro, questo misfatto avrebbe moltiplicato il suo dolore. Ma che suo padre lo uccida ora con la sua stessa mano – questo è al di là di ogni esempio di miseria e dolore! Così, durante tutta la sua vita, le difficoltà lo hanno tormentato e oppresso, e se qualcuno volesse dipingere un’esistenza particolarmente triste, avrebbe qui il rimprovero più adatto. Che nessuno obbietti che Abramo non sia stato così infelice, perché è passato felicemente attraverso tutte queste tempeste e le ha scampate! Perché colui che deve lottare con difficoltà senza fine per un tempo così lungo non può essere considerato come uno che ha condotto una vita felice; sicuramente questo potrebbe essere detto solo di un uomo che può godere dei beni terreni in pace senza venire in contatto con il male!

II,10,12 Isacco fu meno afflitto dalle tentazioni, ma anche lui non ebbe quasi nessuna anticipazione della felicità terrena. Perché ha dovuto passare attraverso tormenti che non permettono ad un uomo di trovare la felicità sulla terra. Anche lui fu cacciato dalla terra di Canaan per fame, sua moglie gli fu strappata dal seno, i suoi vicini lo disturbarono e gli fecero del male in tutti i modi, tanto che dovette persino litigare per l’acqua potabile. A casa le sue nuore gli causano molto dolore (Gen 26,34 s.). Il litigio dei suoi figli gli causa un grande dolore, e questo male può essere rimediato solo mandando all’estero il figlio che egli ha benedetto! (Gen 28,1.5). E ora Giacobbe è addirittura l’archetipo della più terribile miseria. La sua gioventù a casa è inquieta – sotto la minaccia del fratello primogenito, che alla fine lo costringe a fuggire. Era dunque un fuggitivo, ed era abbastanza amaro dover vivere lontano dai genitori e dalla patria; ma non fu affatto accolto più gentilmente e umanamente da suo zio Labano. Che egli faccia un servizio così duro e rude per sette anni (Gen 29:20) non sarebbe nulla se non fosse stato ingannato da una moglie con un inganno malvagio! Così, per amore della seconda moglie, deve andare di nuovo in servizio, e lì, secondo il suo stesso reclamo, il sole lo brucia con il suo calore durante il giorno, e il freddo lo tormenta insonne durante la notte! (Gen 31,40). Per vent’anni sopporta questa vita dura, e ogni giorno suo suocero si permette nuove ingiustizie contro di lui. Anche a casa non ha pace: le sue mogli lacerano e distruggono tutta la sua famiglia con l’odio, i litigi e la gelosia. Poi riceve l’ordine di tornare a casa. Ma la sua partenza sembra piuttosto una fuga spregevole; e suo suocero porta l’ingiustizia contro di lui così lontano che lo tormenta con rimproveri anche nel mezzo del cammino! (Gen 31:23). Ma presto è minacciato da difficoltà ancora maggiori. Perché va incontro a suo fratello – e vede la morte molte volte davanti ai suoi occhi, perché Esaù, nella sua crudeltà e nel suo odio, lo minaccia in molti modi. Il suo cuore è pesante per la paura e l’angoscia mentre aspetta la venuta di suo fratello (Gen 32:12). E quando lo affronta, cade ai suoi piedi come mezzo morto – finché non si rende conto che Esaù è più pronto a riconciliarsi di quanto non osasse sperare! Ma poi Rachele, la sua unica moglie amata, gli viene strappata dalla morte non appena egli entra nel paese (Gen 35:16-20). E poi riceve presto la notizia che il figlio che Rachele gli ha dato e che egli ha amato più di tutti gli altri è stato sbranato da una bestia selvaggia (Gen 37:32). Egli stesso ci dice quanto terribile fosse il suo dolore per la morte di suo figlio: pianse a lungo per lui e non volle essere consolato, né aveva altro in mente che "scendere con dolore nella fossa da suo figlio". Nel frattempo, una delle sue figlie si prende il suo onore (Gen 34:2), e i suoi figli si vendicano crudelmente sul malfattore. Questo getta il padre nel discredito di tutti gli abitanti del paese, e l’azione violenta dei figli minaccia di precipitare lui stesso nella disgrazia! Che paura, angoscia e dolore tutto questo gli provoca! Poi sperimenta l’inaudito oltraggio del suo figlio primogenito Reuben – la più terribile disgrazia! (Gen 35:22). Perché è terribile di per sé vedere la propria moglie disonorata – ma cosa si può dire quando il proprio figlio commette un tale sacrilegio? Ma subito dopo, una nuova vergogna di sangue infanga la famiglia (Gen 38:18); un uomo che tutte le avversità non avrebbero potuto altrimenti piegare e piegare dovrebbe crollare sotto tanta vergogna! E verso la fine della sua vita, quando vuole alleviare la fame dei suoi, un nuovo messaggio di sventura lo colpisce al suolo: l’unico figlio è in catene – e per riaverlo, deve lasciare il suo Benjamin preferito nelle mani di estranei! (Gen 42:34). Come avrebbe potuto tirare un felice sospiro di sollievo in tanto dolore e angoscia? Egli stesso ne è il miglior testimone: assicura al faraone: "poco e male è il tempo della mia vita" (Gen 47,9). Ma se, secondo la sua stessa testimonianza, è stato nella miseria e nell’infelicità tutti i giorni della sua vita, testimonia chiaramente che non ha ancora ricevuto la felicità che il Signore gli ha promesso. Quindi Giacobbe o era un uomo malvagio e ingrato che non era in grado di apprezzare la grazia di Dio – o ha dato una vera testimonianza della sua miseria sulla terra con queste parole. Ma se era una vera testimonianza, ne consegue che non ha posto la sua speranza sulle cose terrene!

II,10,13 Se questi santi padri – come era senza dubbio il caso! – si aspettavano la benedizione solo dalla mano di Dio, allora conoscevano e vedevano anche un’altra benedizione oltre a quella terrena. L’apostolo ce ne dà un resoconto glorioso: "Per fede Abramo era straniero nella terra promessa, come in una terra straniera, e abitava in tenda con Isacco e Giacobbe, eredi della stessa promessa; perché aspettava una città che avesse un fondamento, il cui costruttore e artefice era Dio… Tutti questi sono morti nella fede, non avendo ricevuto le promesse, ma avendole viste da lontano, e sono stati confortati, ed erano ben soddisfatti, confessando di essere dei forestieri e degli stranieri sulla terra. Perché quelli che dicono queste cose dichiarano di cercare una patria. E se intendevano quello da cui erano partiti, avevano il tempo di tornare indietro. Ma ora ne desiderano una migliore, cioè una celeste. Perciò Dio non si vergogna di essere chiamato il loro Dio, perché ha preparato per loro una città" (Eb 11:9, 10, 13-16). Sarebbero stati anche più ottusi dei blocchi per aggrapparsi con tanta ostinazione a una promessa del cui compimento qui sulla terra non si vedeva alcun barlume – se non si fossero aspettati questo compimento altrove! L’apostolo insiste specialmente e giustamente sul fatto che i padri hanno inteso la loro vita terrena come un pellegrinaggio, come riferisce Mosè (Gen 47:9). Ma se erano solo stranieri e pellegrini nella terra di Canaan - dov’era la promessa del Signore, che aveva promesso loro questa terra come eredità? Questo mostra chiaramente che la promessa del possesso della terra, che il Signore aveva dato loro, è lontana. Non hanno acquisito neanche un piede nella terra di Canaan, tranne la loro tomba! Questo dimostra che speravano di ottenere il frutto della promessa solo dopo la morte! Ecco perché anche Giacobbe dava tanta importanza all’essere sepolto lì, ecco perché si è fatto promettere questo da suo figlio con giuramento! (Gen 47,29 s.). Ecco perché è la volontà di Giuseppe che le sue ossa, che sono già diventate polvere, siano ancora portate nella Terra Promessa secoli dopo! (Gen 50,25).

II,10,14 Così, in tutti gli sforzi della loro vita, la benedizione della vita futura era davanti agli occhi dei padri. Perché altrimenti Giacobbe avrebbe lottato così duramente per la primogenitura, perché l’ha presa per sé con tanto pericolo, anche se gli ha portato il bando e quasi l’illegalità, ma niente di buono in assoluto – se non avesse pensato a una benedizione più alta? La sua mente era fissata su questo, come disse anche mentre stava morendo: "Signore, aspetto la tua salvezza!". (Gen 49:18). Che tipo di salvezza poteva aspettarsi, quando si rese conto che la sua vita stava per finire – se non aveva visto nella morte l’inizio di una nuova vita? Ma perché dovremmo soffermarci solo sui pii e sui figli di Dio, quando anche un uomo che altrimenti si sforzava solo di resistere alla verità aveva un sentore di questa conoscenza? Sentiamo Balaam dire: "Che la mia anima muoia della morte dei giusti, e che la mia fine sia come questa fine" (Num 23:10). Non poteva intendere altro che ciò che Davide disse più tardi: "La morte dei suoi santi è degna agli occhi del Signore" (Sal 116:15), ma "la morte degli empi è miseria" (Sal 34:22; non testo di Lutero). Se avessero considerato la morte come il loro ultimo fine e la loro meta, non ci sarebbe stata alcuna differenza tra i giusti e gli ingiusti; solo il destino che attende entrambi dopo la morte rivela la loro differenza.

II,10,15 Non siamo ancora andati oltre Mosè – di cui gli entusiasti sostengono che aveva solo il compito di condurre un popolo carnale all’adorazione di Dio attraverso la fecondità della terra e l’abbondanza di ogni bene! Eppure, l’esistenza di un’alleanza spirituale è chiaramente e inequivocabilmente rivelata a chiunque non chiuda deliberatamente gli occhi alla verità! Se ora passiamo ai profeti, la vita eterna e il regno di Cristo risplendono davanti a noi in tutto il loro splendore. Prima di tutto c’è Davide; egli fu il primo nel tempo, e quindi, secondo l’ordine che Dio mantiene nella distribuzione dei suoi doni, non gli fu ancora concesso di parlare dei misteri celesti con la stessa chiarezza dei profeti successivi; ma con quale chiarezza e fiducia egli dirige tutto ciò che è e ha verso questo obiettivo! Come egli guardasse alla vita terrena lo mostra nell’esclamazione: "Io sono il tuo pellegrino e cittadino come tutti i miei padri" (Sal 39,13). "I miei giorni sono come la larghezza di una mano davanti a te, e la mia vita è come nulla davanti a te… Passano come un’ombra" (Sal 39:6, 7). "Ora, Signore, in chi mi consolerò? Io spero in te!". (Sal 39:8). Nulla, del resto, secondo questa sua confessione, è fermo e costante sulla terra; ma egli si aggrappa con fiducia alla speranza in Dio, e guarda così a una beatitudine che si trova altrove! Egli invita ripetutamente i fedeli a contemplare questa felicità quando vuole confortarli. In un altro passaggio parla della brevità, fugacità e caducità della vita umana e poi aggiunge: "Ma la grazia del Signore dura per sempre su coloro che lo temono…" (Sal 103,17). Questo corrisponde anche a ciò che leggiamo nel Sal 102: "Tu, Signore, hai fondato la terra prima, e i cieli sono opera delle tue mani. Loro passeranno, ma voi rimarrete. Invecchieranno tutti come un abito; saranno cambiati come un abito quando li cambierete. Ma tu rimani come sei, e i tuoi anni non hanno fine. I figli dei tuoi servi rimarranno, e la loro discendenza fiorirà davanti a te" (Sal 102:26-29). Così passino il cielo e la terra – i pii sono sempre sotto la protezione del Signore! Così la loro salvezza è legata all’eternità di Dio! Ma questa speranza può avere vero fondamento e fiducia solo se poggia sulla promessa che sentiamo in Isaia: "I cieli passeranno come fumo e la terra invecchierà come una veste, e quelli che vi abitano moriranno in un attimo. Ma la mia salvezza durerà in eterno e la mia giustizia non avrà fine" (Isa 51,6). Qui si dice che la giustizia e la salvezza sono eterne - non solo in quanto sono presso Dio, ma anche in quanto sono sperimentate dall’uomo.

II,10,16 Occasionalmente Davide parla anche della felicità dei fedeli; ma anche questo deve essere necessariamente legato alla partecipazione alla gloria celeste. Così leggiamo: "Il Signore preserva le anime dei suoi santi; dalla mano degli empi li libererà" (Sal 97:10). Oppure: "La luce sorgerà sul giusto e la gioia del cuore sul giusto … la giustizia del giusto dura per sempre; il suo corno sarà esaltato con onore … perché ciò che l’empio vorrebbe volentieri avere è perduto" (Sal 112:4, 9 s. v. 4 non è il testo di Lutero!). Oppure: "I giusti renderanno grazie al tuo nome, e i retti abiteranno alla tua presenza" (Sal 140:14). O anche: "Egli rimarrà per sempre; la via del giusto non sarà mai dimenticata" (Sal 112:6). E infine: "Il Signore riscatta l’anima dei suoi servi…" (Sal 34:23). Perché il Signore permette abbastanza spesso ai malvagi di tormentare i suoi servi secondo il loro desiderio, perfino di tormentarli e di precipitarli nella sventura; lascia che i buoni languiscano nelle tenebre e nel dolore, mentre i malvagi brillano come le stelle; e non li rinfresca in alcun modo con la bontà del suo volto in modo che possano godere permanentemente della gioia! Perciò Davide non nasconde che i fedeli, quando rivolgono la loro attenzione allo stato presente, devono cadere nella tentazione più pesante, come se non ci fosse grazia presso Dio, nessuna ricompensa per l’innocenza! Perché gli empi fioriscono e prosperano per la maggior parte, mentre la moltitudine dei fedeli è afflitta da vergogna e povertà, disprezzo e ogni sorta di croci. "Ho quasi inciampato con i piedi; i miei passi sono quasi scivolati. Perché ero scontento dei glorificatori, quando ho visto che i malvagi se la passavano così bene…" (Sal 73:2 s.). E poi conclude la sua riflessione: "Ho pensato dopo di lui, per capire; ma era troppo difficile per me. Finché non entrai nel santuario del Signore e ne percepii la fine…" (Sal 73:16 s.).

II,10,17 Da questa confessione di Davide dobbiamo imparare: anche i santi padri sotto il Primo Patto sapevano molto bene quanto raramente o mai Dio lascia che ciò che ha promesso ai suoi servi si realizzi in questo mondo; ma allora alzavano le loro anime al santuario di Dio – e lì era nascosto ciò che non era ancora venuto alla luce sotto l’ombra dell’esistenza terrena. Questo era l’ultimo giudizio di Dio; certamente non lo vedevano ancora con i loro occhi, ma si accontentavano di saperlo nella fede. In questa fede erano pieni di fiducia, e sapevano che – qualunque cosa potesse accadere nel mondo! – sarebbe arrivato il giorno in cui Dio avrebbe mantenuto le sue promesse! Questo è testimoniato nei seguenti proverbi: "Ma io guarderò il tuo volto nella giustizia; sarò soddisfatto quando mi sveglierò nella tua immagine" (Sal 17:15). "Rimarrò come un olivo verde nella casa del Signore" (Sal 53,10). "Il giusto rinverdirà come una palma, crescerà come un cedro del Libano". Coloro che sono piantati nella casa del Signore cresceranno verdi nei tribunali del nostro Dio. E anche se invecchieranno allo stesso modo, tuttavia fioriranno, saranno fecondi e freschi…" (Sal 92:13-15). O anche poco prima: "Signore, … i tuoi pensieri sono così profondi! – I malvagi sono verdi come l’erba, e i malfattori fioriscono tutti, finché non siano distrutti per sempre!" (Sal 92:6, 8). Ma dove dovrebbe essere lo splendore e l’ornamento dei fedeli se non dove il Signore cambierà la faccia di questa terra con la manifestazione del suo regno; a questo eterno essi rivolsero la loro attenzione, e perciò disprezzarono i disagi temporali della sofferenza terrena e poterono dire con fiducia: "Tu non lascerai i giusti in difficoltà per sempre; ma tu getterai i malvagi nella fossa profonda…" (Sal 55,23 s. non è il testo di Lutero). Dov’è in questo mondo una tale fossa di distruzione eterna che inghiotte i malvagi? No, quello che leggiamo nel Libro di Giobbe si applica alla felicità dei malvagi: "Invecchiano nei giorni buoni e non temono la morte neanche per un momento" (Giobbe 21:13). Dov’è questo riposo sicuro dei fedeli qui, che, secondo i frequenti lamenti di Davide, sono scossi da ogni tipo di sventura, persino schiacciati e completamente schiacciati sotto di essa? Quindi non sta guardando a ciò che questo mondo nella sua instabilità e mutevolezza è in grado di dare, ma a ciò che il Signore farà quando si siederà per creare un nuovo, eterno cielo e una nuova, eterna terra! Davide scrive anche molto chiaramente in un luogo a proposito delle persone "che fanno affidamento sulle loro ricchezze e sfidano le loro grandi ricchezze…" (Sal 49:7). (Sal 49:7) – e tuttavia "nessuno", per quanto ottimamente posizionato possa essere, "può redimere il suo fratello, né riconciliarlo con Dio". Perché si vedrà che i saggi muoiono, così come gli stolti e gli stolti periscono, e devono lasciare i loro beni ad altri. Questo è il loro cuore, che le loro case durino in eterno, le loro dimore rimangano in eterno e abbiano grande onore sulla terra. Eppure un uomo non può rimanere nella fama, ma deve perire come il bestiame! Le loro azioni sono follia, eppure i loro discendenti li lodano con la bocca. Essi giacciono nell’inferno come pecore; la morte li nutre. (Quando sorgerà la luce), i pii regneranno presto su di loro, la loro forma deve perire; devono rimanere nell’inferno" (Sal 49:8, 11-15; verso la fine non più il testo di Lutero). La presa in giro degli sciocchi che si affidano a beni terreni fugaci e deperibili mostra già che i veri saggi devono cercare la loro felicità altrove! Ma ci dà anche una visione più chiara del mistero della resurrezione, perché vuole stabilire il regno dei pii solo dopo la caduta dei malvagi. Perché cosa dovrebbe essere questo "sorgere della luce" se non la manifestazione della nuova vita che segue quando la vita terrena finisce?

II,10,18 Da qui il pensiero a cui i fedeli si sono così spesso aggrappati come conforto nella miseria e come aiuto nella pazienza: "La sua ira dura un momento, ma la sua misericordia per la vita" (Sal 30,6). Ma come potrebbero chiamare "momentanea" l’afflizione che affrontiamo quasi tutti i nostri giorni? Dove videro allora quell’eterna durata della bontà divina, di cui non avevano quasi ricevuto il minimo assaggio? Se fossero rimasti sulla terra, non avrebbero trovato nulla del genere; ma hanno alzato gli occhi al cielo e hanno visto che il tempo in cui i santi sono messi alla prova dal Signore attraverso la croce è un momento, ma la misericordia di Dio che li raccoglie dura per sempre! Hanno percepito dall’altra parte l’eternità e l’infinità del castigo che attende i malvagi, che ora, per un giorno, si credono così felici nel loro sogno! Così leggiamo in Prov 10:7: "Il ricordo del giusto rimane nella benedizione, ma il nome dell’empio marcirà". Oppure sentiamo: "La morte dei suoi santi è considerata degna agli occhi del Signore… ma la calamità ucciderà gli empi" (Sal 116:15; 34:22). Samuele dice anche: "Egli custodirà i piedi dei suoi santi, ma i malvagi saranno distrutti nelle tenebre" (1 Sam 2,9). – Questo significa che i profeti sapevano molto bene che per quanto i santi siano spinti, la loro fine sarà la vita e la salvezza, e che la bella strada dei malvagi porta alla distruzione. Perciò chiamavano anche la morte dei malvagi la "morte degli incirconcisi" (Ez 28:10; 31:18 ecc.), cioè di coloro che non hanno speranza di risurrezione. Perciò anche Davide non conosce maledizione più terribile di questa: "Cancellali dal libro della vita, perché non siano scritti con i giusti" (Sal 69:29).

II,10,19 Ma le parole di Giobbe sono particolarmente gloriose: "Io so che il mio Redentore vive, e che alla fine risorgerò dalla terra e nella mia carne vedrò Dio, il mio Salvatore. Questa speranza riposa nel mio petto" (Giobbe 19:25-27; non il testo di Lutero). Le persone che vogliono usare la loro ingenuità se ne escono con la sottile obiezione che Giobbe non sta parlando della resurrezione nell’ultimo giorno, ma del giorno in cui Dio, come lui si aspettava, lo guarderà di nuovo con grazia per la prima volta. Bene, ammettiamolo in parte; ma dobbiamo ammettere, che ci piaccia o no, che Giobbe non sarebbe potuto arrivare ad una speranza così gloriosa se i suoi pensieri fossero rimasti attaccati alla terra. Dobbiamo ammettere che ha alzato gli occhi all’immortalità futura, quando si aspettava che un salvatore sarebbe stato ancora al suo fianco quando era già nella tomba! Per coloro che pensano solo alla vita presente, la morte è la massima disperazione. Ma l’aspettativa di Giobbe non poteva essere distrutta nemmeno dalla morte: "Anche se mi strangola", lo sentiamo dire, "io spero ancora in lui! (Giobbe 13:15; non il testo di Lutero). Ma ora che nessuno sciocco chiacchierone mi obietti che queste sono tutte parole di individui, e che non è ancora provato che un tale insegnamento fosse generalmente accettato tra gli ebrei. Che abbia una risposta immediata a questo: questi uomini non presentavano una saggezza segreta in queste parole, alla quale solo spiriti molto illustri avrebbero avuto accesso per se stessi e a parte gli altri, ma erano nominati dallo Spirito Santo come maestri del popolo e annunciavano pubblicamente i misteri di Dio, che dovevano essere insegnati nella congregazione e dovevano essere la base della pratica del culto tra il popolo! Così sentiamo nelle loro parole pubbliche manifestazioni dello Spirito Santo, con le quali Egli condusse la chiesa dei Giudei a una chiara intuizione sulla vita spirituale – e quindi è un’intollerabile ostinazione se si vuole vedere qui solo la menzione di un patto carnale, in cui quindi si parlerebbe solo della terra e del benessere terreno!

II,10,20 Ora passerò ai profeti successivi; qui possiamo - come sul nostro terreno! – molto più liberamente. Era già facile per noi combattere attraverso Davide, Giobbe e Samuele; qui è ancora più facile! Perché il Signore, nel presentare l’alleanza della sua misericordia, mantenne una giusta distribuzione e un giusto ordine: più si avvicinava il momento in cui la piena rivelazione doveva avvenire, più grande era la gloria che faceva conoscere in aumento quotidiano! Così, all’inizio, quando la prima promessa di salvezza fu data ad Adamo, c’erano solo alcune deboli scintille che brillavano; poi la luminosità crebbe, e sempre più luce divenne visibile; sempre più scoppiò, sempre più mandò il suo splendore – finché alla fine tutte le nuvole furono rotte e Cristo, come il Sole di Rettitudine, inondò il mondo intero di radioso splendore! Perciò non dobbiamo temere che la testimonianza dei profeti sulla nostra dottrina vada perduta. No, vedo che è una questione infinitamente vasta, sulla quale dovremmo soffermarci molto più a lungo di quanto possiamo secondo la nostra intenzione – ci vorrebbe un libro spesso! Tuttavia, credo che ciò che ho mostrato sopra abbia aperto una strada anche al lettore meno esperto, sulla quale ora può continuare senza essere distratto nel suo percorso. Quindi non voglio parlare a lungo qui, perché non è davvero necessario; solo vorrei chiedere al lettore di cercare l’accesso con la chiave che gli ho dato sopra. Dove i profeti menzionano la beatitudine del popolo credente, che non è quasi visibile nelle minime tracce in questa vita, bisogna fare una distinzione: I profeti si preoccupano di esaltare il più in alto possibile la bontà di Dio, e perciò l’hanno presentata al popolo sotto forma di benefici terreni, per così dire a grandi linee; ma questa presentazione era tuttavia di natura tale che i cuori erano sollevati molto al di sopra della terra, al di sopra degli elementi di questo mondo e di questo tempo transitorio, e necessariamente venivano a meditare giustamente sulla benedizione della vita spirituale a venire.

II,10,21 Accontentiamoci di un solo esempio. Quando gli israeliti erano stati condotti a Babilonia, e ora notavano bene come la loro miserabile esistenza somigliasse tanto alla morte, nessuno poteva dissuaderli dal considerare le promesse di Ezechiele riguardo al futuro ritorno e alla restaurazione come una favola, proprio come se egli avesse annunciato loro che un corpo decaduto sarebbe stato riportato in vita. Ma il Signore voleva far sapere che nemmeno questa situazione senza speranza poteva impedirgli di dispensare i suoi benefici; perciò mostrò al profeta in una visione un campo pieno di ossa secche e morte – e poi diede loro di nuovo spirito e vitalità in un istante solo con la forza della sua parola! (Ez 37:1-14). Questa visione aveva lo scopo di rimproverare il popolo per la sua incredulità, ma allo stesso tempo rendeva chiaro agli ebrei che il potere del Signore, che poteva così facilmente rianimare le ossa avvizzite e disperse dei morti, non si esauriva nel ricondurre il popolo a casa! Pertanto, questo passo di Ezechiele può essere ben paragonato ad un altro di Isaia: "Ma i vostri morti vivranno; i miei corpi morti risorgeranno. Svegliatevi e lodate, voi che state sotto terra! Perché la tua rugiada è come la rugiada del campo verde, ma la terra dei tiranni (Lutero: morti) tu rovescerai. Va’ per la tua strada, popolo mio, nella tua camera, e chiudi la tua porta su di te; nasconditi un po’, finché l’ira passi. Poiché, ecco, l’Eterno uscirà dal suo luogo per visitare la malvagità degli abitanti del paese su di loro; e il paese rivelerà il loro sangue e non nasconderà quelli che vi sono uccisi" (Isa 26:19-21).

II,10,22 Ma se qualcuno mettesse tutti i detti dei profeti nella stessa linea con questi due, sarebbe assurdo; perché un certo numero di passi ci mostrano senza mezzi termini l’immortalità che attende i credenti nel regno di Dio. Abbiamo già menzionato alcuni di essi; anche ciò che si potrebbe altrimenti nominare appartiene per lo più a questo genere; ma menzionerò solo due passaggi che sono di particolare importanza. Prima, una parola in Isaia: "Come i nuovi cieli e la nuova terra che sto facendo sono davanti a me, così la tua discendenza e il tuo nome saranno davanti a me. E ogni carne verrà una luna nuova dopo l’altra e un sabato dopo l’altro per adorare davanti a me, dice il Signore. E usciranno a vedere i cadaveri del popolo che mi ha fatto del male; perché il loro verme non morirà e il loro fuoco non si spegnerà…" (Isa 66:22-24). Poi una parola di Daniele: "In quello stesso momento sorgerà il grande principe Michele, che rappresenta i figli del tuo popolo. Perché ci sarà un tempo di difficoltà come non c’è stato da quando ci sono gli uomini fino ad oggi. In quel giorno il tuo popolo sarà salvato, tutti quelli che sono scritti nel libro. E molti di quelli che giacciono addormentati sotto terra si sveglieranno, alcuni a vita eterna e altri a vergogna e disonore eterni" (Dan 12:1 s.).

II,10,23 Gli altri due punti, cioè che i padri avevano Cristo come garante della loro alleanza e che riponevano tutta la loro fiducia in Lui, non hanno bisogno di prove laboriose, perché qui c’è meno disputa e più chiarezza. Essa rimane quindi incrollabile contro tutte le macchinazioni del diavolo: L’Antico Testamento, l’Antica Alleanza, così come il Signore la stipulò con il popolo d’Israele, non si estendeva affatto solo alle cose terrene, ma includeva la promessa della vita spirituale, eterna: per questo tutti coloro che avevano veramente una parte in questa alleanza aspettavano con tutto il cuore. Se, quindi, si ritiene che il Signore non abbia posto altro davanti agli ebrei, o che il popolo non cercasse altro che la soddisfazione del ventre, il benessere carnale, la ricchezza prospera, il potere esterno, l’abbondanza di figli, e qualsiasi altra cosa che solo l’uomo naturale apprezza molto, questo deve essere respinto come insensato e pericoloso. Perché anche oggi Cristo, il Signore, non promette ai suoi nessun altro regno dei cieli se non quello in cui essi "siederanno a tavola con Abramo, Isacco e Giacobbe" (Mat 8,11); e Pietro chiama gli ebrei del suo tempo "eredi" della grazia che viene a noi con il Vangelo, perché sarebbero "figli dei profeti e dell’alleanza che Dio fece con i vostri padri" (Atti 3,25). Ma questo non doveva essere testimoniato solo con le parole; perciò il Signore lo confermò anche con i fatti. Infatti, quando risuscitò dai morti, onorò anche molti santi di uscire dalle loro tombe come compagni della sua risurrezione e di apparire nella città (Mat 27:52); questo era un chiaro pegno che le sue azioni e sofferenze, con le quali conquistò la salvezza eterna, sarebbero state concesse ai credenti del Primo Patto proprio come lo sono a noi! Secondo la testimonianza di Pietro, essi ricevettero anche lo stesso Spirito di fede per il quale anche noi siamo nati di nuovo (Atti 15:8). Se dunque questo Spirito, che vive in noi come una scintilla d’immortalità e che perciò è anche descritto in un luogo come il "pegno della nostra eredità per la nostra redenzione" (Efes 1:14), dimorava anche in loro in modo simile – come dovremmo allora osare negare loro l’eredità della vita? Tanto più sorprendente è l’indurimento a cui giunsero una volta i Sadducei, che negarono la resurrezione e anche l’esistenza permanente dell’anima, sebbene dovessero conoscere le più chiare testimonianze della Scrittura per entrambe! E dovremmo essere altrettanto sorpresi oggi della folle speranza di tutto il popolo ebraico di un regno terreno del Messia, se le Scritture non ci avessero detto in anticipo che gli ebrei sarebbero stati puniti in questo modo per aver rifiutato il Vangelo. Perché in questo è stato rivelato il giusto giudizio di Dio, che un popolo che ha rifiutato la luce offerta dal cielo, e quindi è entrato volontariamente nella notte dell’errore, è ora colpito dalla cecità! Si legge Mosè e si medita su di lui giorno e notte – ma c’è una copertura in mezzo, e quindi non si può vedere la luce che brilla dal suo volto! (2Cor 3:14). Così Mosè rimane coperto e velato per questo popolo fino a quando non si converte a Cristo, dal quale oggi cerca di staccarlo e separarlo.


Capitolo undici

Della differenza tra il Antico e il Nuovo Testamento.

II,11,1 Ma si potrebbe dire: perché non dovrebbe esserci differenza tra l’Antico e il Nuovo Testamento? Com’è, allora, che in così tanti passi della Scrittura entrambi sono trattati come cose della massima differenza? Mi piace fare mie le distinzioni che ci sono date nella Scrittura. Naturalmente, in modo tale che non sminuiscano l’unità che è stata stabilita. Questo si vedrà anche se li passiamo in ordine. Per quanto posso vedere e ricordare, ci sono quattro differenze principali; non ho obiezioni ad aggiungerne una quinta. Di tutti questi bisogna dire e anche dimostrare che si riferiscono alla forma di presentazione e non all’essenza della cosa stessa. Non sono quindi un ostacolo al fatto che le promesse dell’Antica e della Nuova Alleanza rimangono le stesse e che Cristo è sempre la pietra fondante di queste promesse! Quindi la prima differenza! Il Signore ha sempre voluto dirigere il Suo popolo interiormente verso l’eredità celeste, e i loro pensieri e le loro aspirazioni dovrebbero sempre essere diretti verso di essa! Ma per ravvivare la speranza del popolo nell’eredità, Egli diede loro l’opportunità, nel loro tempo, di contemplare e gustare quell’eredità nei beni terreni. Ma ora, attraverso il Vangelo, Dio ha rivelato il dono di grazia della vita a venire in modo più chiaro e più comprensibile – e lì quei mezzi precedenti, minori di educazione, come li ha usati con gli israeliti, cadono, ed egli dirige la nostra speranza direttamente a quel bene glorioso! Chi non considera questo piano di Dio, allora crede che il popolo antico non pensava veramente a nient’altro che a quei beni che erano promessi al corpo! Sentiamo parlare della terra di Canaan, la gloriosa e unica ricompensa per coloro che hanno osservato la legge. Sentiamo come il Signore non conosce minaccia peggiore per i trasgressori di questa legge che l’espulsione dal possesso di questa terra e la dispersione in terre straniere. Vediamo anche come tutte le benedizioni e le maledizioni tramandateci da Mosè sono simili a questo! E da questo, si trae senza esitazione la conclusione che gli ebrei non sono stati separati dagli altri popoli per il loro proprio bene, ma per il bene degli altri: cioè, perché la Chiesa cristiana riceva un’immagine in cui i beni spirituali le siano presentati in forma esteriore! Ma la Scrittura insegna in diversi luoghi che questi benefici terreni di cui Dio ha colmato i suoi qui avevano lo scopo di condurli a sperare in quelli celesti; e quindi sarebbe molto imprudente, anzi del tutto cieco, se si trascurasse questa intenzione. Così abbiamo a che fare con persone che sostengono che il possesso della terra di Canaan, che gli israeliti consideravano come la massima beatitudine, è ora per noi, dopo la rivelazione di Cristo, un’immagine dell’eredità celeste! Noi, invece, sosteniamo che i credenti dell’Antica Alleanza vedevano già in questo possesso terreno, di cui godevano, come in uno specchio, l’eredità futura che era preparata per loro in cielo secondo la loro fede.

II,11,2 Questo diventerà più chiaro da un confronto che Paolo usa in Galati. Egli paragona il popolo dei Giudei a un giovane erede che non è ancora in grado di guidare se stesso e quindi segue la guida di un tutore o disciplinare alle cui cure è affidato (Gal 4,1-3). Ora egli riferisce questo paragone in modo speciale alle cerimonie; ma possiamo anche adattarlo molto bene alla nostra questione qui in discussione. Il popolo dell’Antico Patto, quindi, ha la stessa eredità che era destinata anche a noi; ma nella loro vecchiaia non erano ancora in grado di entrare in questa eredità o di amministrarla. Era la stessa chiesa tra di loro – ma era ancora agli inizi. Così il Signore li ha tenuti sotto questa educazione, e così facendo non ha dato loro le promesse spirituali nude e aperte, ma le ha coperte, per così dire, sotto promesse terrene. Così, quando prese Abramo, Isacco e Giacobbe e i loro discendenti come figli per la speranza dell’immortalità, promise loro la terra di Canaan come eredità. Questo non significava che dovevano attaccarsi alla terra con la loro speranza, ma che quando guardavano la terra, dovevano esercitarsi e rafforzarsi nella speranza di quella vera eredità che non era ancora apparsa. Affinché nessun inganno fosse possibile, diede loro una promessa più alta, che doveva testimoniare loro che questa terra non era il suo dono più alto. Così Dio non lascia che Abramo diventi pigro e sicuro nel possesso della promessa che gli ha promesso la terra; ma arriva una promessa più grande che indirizza la sua mente al Signore stesso. Egli sente: "Abramo, io sono il tuo scudo e la tua grandissima ricompensa" (Gen 15:1). Qui vediamo come Abramo deve cercare il fine ultimo e il pezzo di questa ricompensa solo nel Signore stesso, così che non pensava di poter trovare tale ricompensa in forma fugace e incerta nelle cose di questo mondo, ma la considerava imperitura! E poi aggiunge la promessa della terra, ma ovviamente allo scopo di essere un simbolo della benevolenza divina per Abramo e un modello dell’eredità celeste. I credenti lo hanno riconosciuto molto bene, come essi stessi dimostrano nei loro detti. Così David arriva dalle benedizioni temporali alla contemplazione della suprema, ultima benedizione. "Per te l’anima mia e la mia carne anela e desidera… Dio è la mia porzione nei secoli dei secoli…" (Sal 84,3; 73,26; entrambi non sono testi di Lutero). Oppure sentiamo: "Ma il Signore è il mio bene e la mia parte; tu sostieni la mia eredità" (Sal 16:5; Calvino diverso). "Signore, a te grido, dicendo: "Tu sei la mia fiducia e la mia parte nel paese dei viventi" (Sal 142,6). Chi osa parlare in questo modo testimonia che nella sua speranza va ben oltre il mondo e ogni bene terreno. Questa futura beatitudine è anche spesso descritta dai profeti nell’immagine che avevano ricevuto dal Signore (cioè l’immagine della terra!). Per esempio: "Il giusto abiterà nel paese e il giusto vi dimorerà…" (Prov 2:21). "Ma l’empio sarà tagliato fuori dalla terra …" (Prov 2:22; Giobbe 18:17). Leggiamo anche in diversi luoghi come Gerusalemme avrà un’abbondanza di tutti i tesori e Sion sarà ricca di tutto (Isa 35:10; 52:1; 60; 62). Tutto questo non può riferirsi alla terra del nostro pellegrinaggio o, in senso proprio, alla Gerusalemme terrena, ma riguarda necessariamente la vera casa dei fedeli e quella città celeste in cui "il Signore ha preparato benedizione e vita per sempre e in eterno" (Sal 133:3).

II,11,3 Questa è anche la ragione per cui, secondo il racconto della Scrittura, i santi sotto l’Antico Patto apprezzavano la vita terrena, mortale e le benedizioni concesse su di essa più di quanto sarebbe giusto oggi. Sapevano che questa vita non era la fine del loro percorso, ma riconoscevano i segni della grazia di Dio, che Egli aveva impresso su di loro per educarli secondo la loro debolezza, e così la vita terrena divenne per loro molto più piacevole che se l’avessero considerata solo in sé e per sé. Ma come il Signore testimoniava la sua benevolenza verso i fedeli con beni terreni e quindi esprimeva la beatitudine spirituale in modo ombroso con tali esempi e segni, così usava anche punizioni corporali per rivelare il suo giudizio sugli empi. Quindi, come i benefici di Dio (a quel tempo) erano più visibili nelle cose terrene, così lo erano i suoi castighi. Le persone disinformate non hanno comprensione per questo rapporto interiore e, per così dire, questa armonia di punizione e ricompensa, e quindi si chiedono come Dio possa dimostrarsi così diverso, dato che una volta minacciava di punire ogni trasgressione dell’uomo con un giudizio severo e terribile, ma oggi ha apparentemente messo da parte la Sua antica ira e punisce molto più blandamente e raramente! Non è quindi necessario sognare due divinità diverse, il "Dio dell’Antico Testamento" e il "Dio del Nuovo Testamento", come facevano i manichei. Possiamo uscire da tali sciocchi dubbi solo se osserviamo quel saggio decreto di Dio di cui ho parlato. A quel tempo, quando fece conoscere la Sua alleanza al popolo israelita, volle indicare e illustrare la Sua grazia e quindi la futura, eterna beatitudine attraverso i benefici terreni, e dall’altra parte la gravità della morte spirituale attraverso le punizioni corporali.

II,11,4 La seconda differenza tra l’Antico e il Nuovo Testamento consiste nelle rappresentazioni suggestive che l’Antico Testamento contiene. L’Antico Testamento, poiché manca ancora la verità, il compimento, porta solo un’immagine, mostrandoci così un’ombra invece del corpo; il Nuovo, invece, ci rivela la verità presente e il corpo stesso in modo essenziale. Questa differenza è sottolineata quasi in ogni esposizione della differenza tra i due Testamenti; si trova più chiaramente che altrove nella Lettera agli Ebrei. L’apostolo dovette combattere una dura battaglia contro persone che pensavano che se l’osservanza della legge mosaica fosse stata abolita, tutto il giusto culto di Dio sarebbe caduto in un grave scompiglio. Per confutare questo errore, l’Apostolo si riferisce prima alle profezie dei profeti riguardo al sacerdozio di Cristo; perché se un sacerdozio eterno è dovuto a Lui, allora con la Sua apparizione è avvenuto quel sacerdozio in cui un sacerdote seguiva un altro (Ebr 7:23). Questo nuovo sacerdozio è dunque incondizionato; l’apostolo lo prova dal giuramento con cui Dio lo ha confermato (Ebr. 7,21). Poi continua dicendo che con questo cambiamento nel sacerdozio anche l’alleanza fu cambiata (Eb 8,6-13). Egli dimostra poi che questo cambiamento era necessario perché la legge era troppo debole per condurre alla giusta perfezione! (Ebr. 7,19). Poi entra nella questione in cosa consisteva questa impotenza della legge: la trova nel fatto che essa offriva solo ordinanze di giustizia esterna, carnale; ma queste non erano in grado di rendere perfetto secondo coscienza colui che le adempiva, perché non si poteva togliere il peccato con i sacrifici animali e nemmeno raggiungere la vera santità! Questo porta alla conclusione: la legge portava solo un’ombra delle cose a venire, ma non la vera immagine! (Ebr. 10,1). Così la legge aveva solo il compito di introdurre e condurre a quella speranza migliore che ci viene rivelata nel vangelo! (Ebr. 7,19; cfr. Sal 110,4; Ebr. 7,11; 9,9; 10,1; queste citazioni al tutto!) Qui ora otteniamo il giusto standard per confrontare l’alleanza sotto la legge con l’alleanza sotto il vangelo, l’ufficio di Cristo con l’ufficio di Mosè! Se il confronto fosse fatto con le promesse stesse nella loro sostanza, ci sarebbe ovviamente una tremenda discordanza tra i due Testamenti; ma la nostra indagine ci ha già portato su un’altra strada, e dobbiamo seguirla per trovare la verità. Mettiamo quindi al centro l’alleanza che Dio ha fatto per l’eternità e che non lascerà perire. Il suo compimento, attraverso il quale riceve piena garanzia e conferma, è Cristo. Finché questa conferma è attesa, il Signore, attraverso Mosè, prescrive le cerimonie che sono, per così dire, segni solenni di questa conferma. Ma poi è sorta la domanda se queste cerimonie, che erano prescritte nella Legge, dovevano cedere il passo a Cristo. Ora queste cerimonie erano certamente solo componenti aggiunte, o anche aggiunte e appendici alla legge, o, come si dice comunemente, aggiunte; ma erano tuttavia anche strumenti per l’esecuzione dell’alleanza e quindi portavano il nome di "alleanza", come si usa anche attribuirlo ad altri atti solenni. Quindi - per riassumere – con l’Antico Testamento intendiamo qui l’esecuzione solenne di quella conferma dell’alleanza, come avveniva attraverso cerimonie e sacrifici. Ma non c’è nulla di affidabile o perfetto in questo, se non si va oltre, e perciò l’apostolo afferma: Questa esecuzione deve diventare obsoleta ed essere abolita, affinché si faccia spazio a Cristo come garante e mediatore, a colui che una volta ha compiuto una santificazione eterna per gli eletti e ha cancellato tutte le trasgressioni che erano rimaste sotto la legge! Ma si può anche chiarire in questo modo: "Vecchia" era questa alleanza del Signore perché era avvolta nell’ombroso e di per sé inefficace esercizio delle cerimonie. Ecco perché era solo temporaneo e, per così dire, in sospeso fino a quando non è stato confermato da una conferma certa e chiara! Ma poi il Signore l’ha resa nuova ed eterna, santificata e fondata nel sangue di Cristo. Ecco perché Cristo ha detto quando ha consegnato il calice ai suoi discepoli nella Cena del Signore: "Questo è il calice, il nuovo testamento nel mio sangue…" (Luca 22,20). Con questo probabilmente voleva dire che l’alleanza di Dio sarebbe diventata veramente duratura e vera, il che l’avrebbe resa un’alleanza nuova ed eterna, solo quando fosse stata sigillata con il suo sangue.

II,11,5 Qui è abbastanza chiaro cosa intende l’apostolo quando scrive che gli ebrei furono portati a Cristo sotto la disciplina della legge, quando Cristo non era ancora stato manifestato nella carne (Gal 3,24; 4,1). Riconosce che anche loro erano figli ed eredi di Dio. Ma a causa della loro giovinezza dovevano ancora essere sotto la guardia di un disciplinare. Perché finché il sole della giustizia non era ancora sorto, il bagliore della rivelazione, la chiarezza della conoscenza non poteva ancora essere così forte! Il Signore aveva appena misurato la luce della Sua Parola a loro in modo tale che essi la vedevano ancora abbastanza oscuramente e solo da lontano. Paolo chiama questa povera conoscenza "infanzia": Dio ha voluto addestrare i credenti in questo stato negli inizi di questo mondo e nell’osservanza delle regole esteriori, per così dire alla maniera di un novizio, fino a quando Cristo brillasse nel Suo splendore; attraverso di Lui la conoscenza dei credenti doveva crescere fino alla virilità (allusione a Efes 4,13). Questa distinzione è stata espressa da Cristo stesso; da un lato sentiamo: "La legge e i profeti hanno profetizzato fino a Giovanni" (Mat 11,13) – e poi Egli mostra dall’altro lato come da Giov in poi il Regno di Dio è stato predicato! Ma cosa comunicavano la legge e i profeti alla gente del loro tempo? Essi evidentemente davano loro un assaggio di quella saggezza che una volta doveva essere rivelata pura e chiara, e la indicavano come una luce che brillava in lontananza. Ma dove si può puntare il dito su Cristo stesso, lì si rivela il regno di Dio. Perché "in Lui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza" (Col 2:3) attraverso i quali ci avviciniamo alle glorie nascoste del cielo!

II,11,6 Questo fatto non toglie che non c’è quasi nessuno nella Chiesa cristiana che possa essere paragonato ad Abramo per forza e profondità di fede, e che ai profeti fu dato un potere e un’autorità che ancora oggi avvolge il mondo intero in una luce radiosa! Perché qui non si tratta di quanta grazia Dio ha concesso agli individui, ma quale regola e ordine ha seguito nell’istruire il suo popolo. E questa considerazione vale anche per i profeti, che eccellevano nella conoscenza al di sopra degli altri. Perché il loro annuncio è oscuro, come se riguardasse cose molto lontane; è anche velato sotto ogni sorta di immagini! Per quanto meravigliosamente profonde fossero le loro conoscenze, dovevano sottomettersi e adattarsi all’educazione generale del popolo e quindi si allineavano ai minorenni. E infine: non hanno avuto una sola intuizione che non rivelasse a un certo punto qualcosa dell’oscurità dei tempi. Perciò Cristo insegna: "Molti re e profeti hanno voluto vedere le cose che voi vedete, e non le hanno viste; e ascoltare le cose che voi udite, e non le hanno udite…" "Beati dunque i vostri occhi, che vedono, e i vostri orecchi, che ascoltano!" (Mat 13,17.16; Luca 10,24.23). La presenza di Cristo ha portato con sé il vantaggio che la rivelazione dei misteri celesti ha brillato di più. Qui appartiene anche la parola già menzionata della Prima Lettera di Pietro, secondo la quale la rivelazione fu data ai profeti, ma in modo tale che il loro ministero si dimostrò particolarmente utile alla nostra epoca (1Piet 1,12).

II,11,7 Questo mi porta alla terza differenza. Viene da una parola di Geremia: "Ecco, vengono i giorni, dice il Signore, in cui farò una nuova alleanza con la casa d’Israele e con la casa di Giuda; non come l’alleanza che feci con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, alleanza che non mantennero, e io li costrinsi, dice il Signore. Ma questa sarà l’alleanza che farò con la casa d’Israele dopo quel tempo, dice l’Eterno: metterò la mia legge nei loro cuori e la scriverò nelle loro menti… e nessuno insegnerà a un altro, né il fratello a un altro… ma tutti mi conosceranno, piccoli e grandi… perché io perdonerò loro la loro iniquità…" (Ger 31:31-34; Calvino inverte parzialmente l’ordine). Queste parole diedero all’apostolo l’occasione per un confronto tra la legge e il vangelo: egli chiama la legge una dottrina della lettera, il vangelo una dottrina dello spirito; la legge, dice, è scritta su tavole di pietra, il vangelo è inciso nel cuore; la legge è così considerata come predicante la morte, il vangelo come predicante la vita, la legge predica la condanna, il vangelo la giustizia, la legge cessa, il vangelo permane! (2Cor 3:6-11). L’apostolo vuole prima affermare chiaramente ciò che il profeta intendeva; e quindi potrebbe essere sufficiente ascoltarne uno per conoscere entrambi i punti di vista. Ma c’è anche una certa differenza tra loro. Perché l’apostolo parla più acutamente contro la legge che contro il profeta. Questo non è semplicemente a causa della Legge in sé, ma perché c’erano a quel tempo incomprensibili difensori della Legge che, con la loro perversa ricerca di costumi esteriori, oscuravano il significato del Vangelo! Tenendo conto del loro errore e della loro stolta ricerca della legge, egli discute con loro sulla natura di questa legge. Questa peculiarità delle parole dell’apostolo non deve essere trascurata. Ma entrambi (il profeta e l’apostolo) contrappongono l’Antico e il Nuovo Testamento, ed entrambi vedono nella legge solo ciò che le è veramente proprio. Farò un esempio: la Legge contiene tutta una serie di promesse di misericordia divina nel mezzo; ma queste provengono da un’altra fonte e non sono prese in considerazione se si vuole parlare dell’essenza effettiva della Legge! Perciò, sia il profeta che l’apostolo attribuiscono solo questo alla legge stessa: essa decreta ciò che è giusto, proibisce ciò che è sbagliato, promette la ricompensa a coloro che fanno la giustizia e minaccia il castigo ai trasgressori – ma la perversità del cuore, che è per natura in tutti gli uomini, essa lascia immutata e non spazzata!

II,11,8 Seguiamo ora il confronto dell’apostolo uno per uno. L’Antico Testamento è una dottrina letterale, perché è stato proclamato senza la potenza dello Spirito Santo. Il Nuovo Testamento è spirituale: perché il Signore lo ha inciso nel cuore degli uomini per mezzo dello Spirito! Il secondo contrasto è una spiegazione del primo: l’Antico Testamento porta la morte – perché non può fare altro che portare la maledizione su tutta l’umanità! Ma il Nuovo Testamento è lo strumento della vita, perché ci libera dalla maledizione e porta la grazia di Dio su di noi. Di conseguenza, l’Antico Testamento è un ministero di condanna – perché condanna tutti i figli di Adamo di iniquità e li accusa! Il Nuovo Testamento, invece, è il ministero della giustizia: perché rivela la misericordia di Dio per cui siamo giustificati! L’ultimo contrasto (transitorietà – eternità, 2Cor 3:11), invece, si riferisce alle cerimonie della Legge. Perché lì si presentava solo un’immagine di cose che non c’erano ancora – e quindi tutto questo doveva passare e svanire con il tempo. Il Vangelo, invece, ci presenta la cosa, il corpo stesso, e quindi mantiene inamovibile la sua continuazione! Geremia chiama anche la legge morale (leges morales) un’alleanza debole e fragile, ma questo per una ragione diversa: cioè, perché questa legge fu così presto infranta dall’improvvisa apostasia del popolo ingrato; ma poiché questa fu precisamente una trasgressione colpevole della legge da parte del popolo, questa osservazione non si riferisce all’Antica Alleanza stessa. Le cerimonie, invece, che, a causa della loro mancanza di potere, cessarono di propria iniziativa con la venuta di Cristo, avevano in sé la ragione di questa mancanza di potere. Infine, la distinzione tra lettera e spirito non deve essere intesa come se il Signore avesse dato la sua legge agli ebrei senza alcun frutto, così che nessuno si sarebbe convertito a lui. Infatti, se misuriamo il numero di coloro che Dio ha fatto rinascere da tutte le nazioni per mezzo del Suo Spirito, e che ha incorporato nella Sua Chiesa con la predicazione del Suo Vangelo, diremo: ci sono stati pochissimi uomini, anzi quasi nessuno, che una volta in Israele hanno accettato l’alleanza del Signore con tutto il loro cuore – eppure sono molti, se consideriamo il loro semplice numero e omettiamo i paragoni!

II,11,9 Da questa terza distinzione la quarta segue da sé. La Scrittura chiama l’Antico Testamento un testamento di schiavitù, perché produce paura nel cuore; il Nuovo Testamento, invece, è chiamato un testamento di libertà, perché ci rende interiormente fiduciosi e certi. Così Paolo scrive nell’ottavo capitolo dei Romani: "Perché non avete ricevuto uno spirito di servo, per cui dobbiate temere di nuovo; ma avete ricevuto uno spirito di bambino, per cui gridiamo: "Abba, Padre caro!"". (Rom 8:15). Questo include anche ciò che leggiamo nella Lettera agli Ebrei: "Voi non siete venuti sul monte che ardeva di fuoco, né nelle tenebre e nell’oscurità e nella tempesta", dove tutto ciò che si vedeva e si udiva provocava solo paura e orrore, così che persino Mosè era terrorizzato quando suonava quella voce terribile, che era orribile da sentire per tutti, "ma siete venuti sul monte Sion e nella città del Dio vivente, la Gerusalemme celeste…" (Eb 12,18-22). (Eb 12:18-22). Il punto di vista che abbiamo appena sentito Paolo presentare brevemente nella Lettera ai Romani è sviluppato da lui in modo più dettagliato nella Lettera ai Galati. Lì indica la natura dei due figli di Abramo in modo allegorico. Hagar non è libera, è una serva, e serve come immagine del monte Sinai, dove Israele ha ricevuto la legge! Sarah, invece, è la donna libera ed è l’immagine della Gerusalemme celeste da cui proviene il Vangelo! Perché proprio come i discendenti di Agar nascono liberi, perché non ottengono mai una parte nell’eredità, ma i figli di Sarah nascono liberi, perché hanno diritto all’eredità – così noi siamo soggetti alla schiavitù attraverso la legge e nasciamo di nuovo alla libertà attraverso il solo vangelo! (Gal 4:22-31). Il significato di questa interpretazione figurativa è questo: L’Antico Testamento portava terrore e paura alla coscienza; il Nuovo Testamento ci porta il piacere di Dio e riempie il cuore di gioia! Così l’Antico Testamento teneva la coscienza in schiavitù, mentre il Nuovo Testamento ci rende liberi attraverso la generosità! Ma ora potrei essere controbattuto dai santi padri del popolo d’Israele, che certamente hanno ricevuto lo stesso spirito di fede che abbiamo noi, e quindi devono necessariamente aver avuto una parte nella stessa libertà e gioia. Rispondo che nessuna di queste cose proveniva dalla legge; questi uomini sperimentarono come la legge e la loro posizione sotto schiavitù li opprimeva, come la coscienza li tormentava con la sua inquietudine – e poi si rifugiarono sotto la protezione del vangelo; così fu in senso proprio un frutto del Nuovo Testamento quando divennero liberi da tale angoscia senza la legge del Primo Patto! Inoltre, per come la vedo io, non ricevettero lo spirito di libertà e di sicurezza nel senso che non sperimentarono alcuna paura o schiavitù dalla legge! Anche se godevano di quel glorioso privilegio che avevano ricevuto attraverso la grazia che viene a noi nel Vangelo, erano ancora soggetti agli stessi obblighi e pesi nella pratica delle cerimonie esterne come le altre persone. Così furono obbligati ad osservare scrupolosamente le ordinanze esteriori, che erano in fondo segni di una disciplina simile alla schiavitù, manoscritti in cui si confessavano peccatori – e che non erano in grado di cancellare! Se dunque li paragoniamo a noi, e se consideriamo l’ordine generale che il Signore applicò al suo popolo Israele in quel tempo, dobbiamo giustamente dire che anche questi santi padri erano ancora sotto il testamento della schiavitù e della paura.

II,11,10 Gli ultimi tre confronti menzionati riguardavano la Legge e il Vangelo; in essi, quindi, la Legge è chiamata Antico Testamento, il Vangelo Nuovo Testamento. Solo la prima distinzione è più completa: include anche le promesse fatte prima della Legge! Agostino non vuole che queste promesse siano considerate come parte dell’Antico Testamento in nessun caso, e ha ragione in questo. Perché voleva solo mostrare ciò che anche noi insegniamo: perché ha anche in mente quei detti di Geremia e di Paolo in cui l’Antico Testamento si distingue dalla parola di grazia e di misericordia! È anche molto premuroso quando aggiunge nello stesso passo: fin dall’inizio del mondo, tutti i figli della promessa, tutti coloro che Dio ha fatto rinascere, tutti coloro che hanno obbedito ai comandamenti nella fede, che è attiva nell’amore, appartengono alla nuova alleanza! In questo speravano non in cose carnali, terrene, temporali, ma in beni spirituali, celesti, eterni. Soprattutto, credevano nel Mediatore, e sapevano che aveva dato loro lo Spirito per fare il bene, e che li perdonava quando peccavano! (A Bonifacio III,4). Questo è precisamente quello che volevo dimostrare: tutti i santi che Dio ha scelto fin dall’inizio del mondo, come ci dice la Scrittura, sono stati resi partecipi delle stesse benedizioni per la loro salvezza eterna come noi. Ma ora Cristo dice: "La legge e i profeti hanno profetizzato fino a Giovanni" (Mat 11,13), e da allora il regno di Dio è stato predicato. Ora c’è una differenza tra il mio racconto di questa differenza e quello di Agostino: io distinguo tra la chiarezza del Vangelo e la proclamazione più oscura della Parola nei tempi passati; Agostino, invece, distingue semplicemente la Legge nella sua impotenza dal Vangelo con la sua potenza e certezza. Naturalmente, bisogna anche dire qui che i santi padri vissero la loro vita sotto l’Antico Testamento in modo tale che non rimasero attaccati ad esso, ma si protesero sempre verso il nuovo e addirittura ne furono realmente partecipi! Infatti l’apostolo pronuncia la sentenza di condanna su coloro che si accontentavano delle ombre presenti e non si orientavano interiormente verso Cristo. E questo è vero: se lasciamo da parte tutto il resto, non c’è niente di più sciocco che aspettarsi che la macellazione di un pezzo di bestiame espii il peccato, aspettarsi che l’aspersione esteriore dell’acqua purifichi l’anima, o cercare il piacere di Dio con cerimonie sciocche, come se Lui ne fosse contento! Tale malizia è il risultato dell’essere presi dall’osservanza esteriore della legge senza guardare a Cristo!

II,11,11 Si può aggiungere una quinta distinzione, basata sul fatto che fino alla venuta di Cristo, il Signore ha messo da parte e scelto un solo popolo, per includere in esso, per così dire, la sua alleanza di grazia. "Quando l’Altissimo divise le nazioni, quando disperse i figli degli uomini", sentiamo in Mosè, "… prese Israele per sua parte e Giacobbe è la sua eredità" (Deut 32,8 s. non è il testo di Lutero). In un altro luogo si rivolge al popolo: "Ecco, i cieli e tutti i cieli, la terra e tutto ciò che è in essa, questi sono del Signore, vostro Dio. Eppure egli solo si è compiaciuto dei vostri padri, li ha amati e ha scelto la loro discendenza dopo di loro, voi, fra tutte le nazioni…". (Deut 10:14 s.). Solo a questo popolo, dunque, egli ha concesso la conoscenza del suo nome, come se esso solo tra tutti gli uomini gli appartenesse; ha, per così dire, posto la sua alleanza nel suo seno; gli ha rivelato in questo momento la sua divina maestà; lo ha adornato di ogni sorta di privilegi. Taccio su tutti gli altri benefici e menziono solo ciò che è più importante qui: ha dato la sua parola a questo popolo e così li ha attirati nella sua comunità, così che è stato chiamato il loro Dio ed è stato considerato come il loro Dio! Nel frattempo lasciò che tutte le altre nazioni andassero per la loro strada nella vanità (Atti 14,16) – come se non avessero nulla a che fare con lui! E non ha offerto loro l’unico mezzo di salvezza da tale miseria: la predicazione della sua Parola! Israele era il suo figlio prediletto, gli altri erano estranei; era conosciuto da lui e preso sotto la sua protezione, gli altri rimanevano nelle tenebre; era santificato da Dio, gli altri erano profani; era degno della presenza di Dio, gli altri erano chiusi a qualsiasi approccio! Ma quando "si compì il tempo" in cui tutto doveva essere messo a posto, e lui, il riconciliatore tra Dio e gli uomini, fu rivelato, allora fu abbattuta la divisione che aveva così a lungo limitato la misericordia di Dio verso Israele, allora fu proclamata la pace a coloro che erano lontani così come a coloro che erano vicini, così che ora, entrambi riconciliati con Dio, essi crebbero anche tra di loro in un popolo spirituale! (Efes 2,14-17). Quindi né giudeo né greco (Gal 3,28), né circoncisione né non circoncisione (Gal 6,15), ma "tutto e in tutto Cristo" (Col 3,11). (Col 3:11). Perché a Lui sono date tutte le nazioni come eredità, le estremità della terra come possesso (Sal 2,8), perché regni indistintamente da mare a mare, dalle acque fino agli estremi confini della terra! (Sal 72,8 e altri – ad esempio Zac 9,10).

II,11,12 La chiamata dei Gentili è quindi un segno glorioso che mostra chiaramente la superiorità del Nuovo Testamento sull’Antico. Era certamente già testimoniato dai profeti in molti e gloriosi detti rivelatori; ma il compimento cadeva sempre nel regno del Messia! Anche Cristo stesso non ha proceduto a questo all’inizio della sua proclamazione; ma lo ha rimandato fino a quando non ha compiuto completamente la nostra redenzione, cioè quando il tempo della sua umiliazione era alla fine e aveva ricevuto dal Padre quel "nome" che è "al di sopra di ogni nome, davanti al quale ogni ginocchio deve inchinarsi" (Fili 2:9). (Fili 2,9). Quando questo tempo di grazia non era ancora venuto, disse alla donna cananea: "Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele" (Mat 15,24). Anche gli apostoli, quando furono inviati per la prima volta, ricevettero il comando esplicito di non andare oltre i confini di Israele! (Mat 10,5 s.). "Non andate per la via dei gentili e non andate nelle città dei Samaritani, ma andate alle pecore perdute della casa d’Israele". Tuttavia, per quanti passi della Scrittura parlino della chiamata dei Gentili, essa sembrò agli apostoli, quando doveva iniziare attraverso la loro opera, del tutto nuova e sconosciuta, anzi ne erano terrorizzati come da qualcosa di terribile! Alla fine intrapresero la loro missione, ma solo con timore e riluttanza. Non possiamo stupirci: sembrava davvero assurdo che il Signore, che aveva distinto Israele dalle altre nazioni per così tanti secoli, dovesse ora cambiare improvvisamente il Suo piano e alterare la scelta che Lui stesso aveva fatto! Era certamente predetto nelle profezie – ma non potevano guardare così tanto a queste che la cosa stessa nella sua novità, come si presentava loro, non avrebbe avuto importanza per loro. Anche gli esempi che Dio aveva già dato per la futura chiamata dei gentili non erano sufficienti a renderli amici della causa. Per una volta, c’erano solo alcuni che Dio aveva già chiamato – e poi li aveva anche, per così dire, inseriti nella famiglia di Abramo, in modo che fossero aggiunti al suo popolo! Questa nuova chiamata, tuttavia, fu fatta liberamente e pubblicamente, e mise i gentili su un piano di parità con gli ebrei, anzi, sembrava che gli ebrei fossero morti tutti insieme e i gentili avessero preso il loro posto! Ora bisogna ricordare che anche quei pochi stranieri che Dio aveva precedentemente ricevuto nella sua Chiesa non erano affatto uguali agli ebrei. Non è certo sbagliato quando Paolo chiama questo un mistero e lo proclama con tanto zelo, un mistero che è stato nascosto per secoli e generazioni e che, come dice, è una meraviglia anche per gli angeli! (Col 1,26; cfr. 1 Pietro 1,12).

II,11,13 Con questi quattro o cinque pezzi spero di aver spiegato tutta la differenza tra l’Antico e il Nuovo Testamento, per quanto lo richieda la semplicità della dottrina. Ma c’è chi dichiara che è una grande assurdità che Dio abbia diretto la sua Chiesa in tanti modi diversi, l’abbia insegnata in tanti modi diversi e le abbia dato una così grande diversità di usi esteriori. Prima di andare avanti, queste persone devono avere una risposta. Questo può essere fatto abbastanza brevemente; perché le loro obiezioni non sono così essenziali da richiedere una confutazione approfondita. Dicono: non si capisce perché Dio, che rimane sempre lo stesso, debba aver subito un tale cambiamento che ciò che una volta comandava e ordinava l’ha poi rigettato. Io rispondo: Se Dio ha fatto diverse disposizioni in tempi diversi, secondo ciò che ha ritenuto vantaggioso, non si può quindi assolutamente dire che sia mutevole. Se un contadino dà ai suoi servi compiti diversi in inverno che in estate, non possiamo quindi dichiararlo volubile; né possiamo rimproverargli di deviare dai principi dell’agricoltura, che è precisamente collegata con il corso regolare della natura (cum perpetuo naturae ordine). E allo stesso modo, se un padre alleva, governa e tratta i suoi figli in modo diverso nell’infanzia, nell’adolescenza e nella giovinezza matura, non può quindi essere considerato frivolo o volubile! Ma come possiamo allora accusare Dio di incostanza, perché ha anche permesso che la diversità dei tempi si esprimesse esteriormente in modo corrispondente? Per concludere, vorrei citare un’ultima parabola – deve bastarci! Paolo paragona gli ebrei a dei bambini minorenni, i cristiani a dei giovani maturi (Gal 4,1 ss.). Ma cosa c’è di disordinato nel fatto che Dio, nel suo governo, ha istruito gli ebrei nelle basi che corrispondevano alla loro epoca, e che Lui, invece, ha istruito noi in una dottrina più forte e più virile? La costanza di Dio, dunque, appare nel fatto che ha fatto proclamare lo stesso insegnamento agli uomini di tutti i tempi: l’adorazione della sua maestà divina, che ha prescritto una volta all’inizio, continua ad esigere! Il fatto, tuttavia, che egli usi una forma e un modo diverso all’esterno non è affatto una prova che egli sia soggetto alla variabilità; no, egli si è più o meno conformato alla comprensione dell’uomo, che è, dopo tutto, diversa e variabile!

II,11,14 Ma ci si chiede inoltre: da dove viene questa diversità? Dio deve aver voluto così! E non potrebbe, fin dall’inizio del mondo e dopo la venuta di Cristo, rivelare la vita eterna con parole chiare e senza rappresentazioni figurative, educare i suoi con pochi e chiari sacramenti, concedere lo Spirito Santo agli uomini e far scendere la sua grazia su tutto il mondo? Ma questo è proprio come cercare di ragionare con Dio sul perché ha creato il mondo così tardi, quando avrebbe potuto farlo proprio all’inizio, e perché ha stabilito un’alternanza regolare tra inverno ed estate, giorno e notte. Ma noi – tutte le persone pie devono sentirsi così – non dobbiamo dubitare che tutto ciò che Dio ha fatto è stato fatto saggiamente e giustamente, anche se spesso non conosciamo il motivo per cui doveva accadere in quel modo. Perché sarebbe una presunzione eccessiva se negassimo a Dio il diritto di avere le sue ragioni speciali per il suo consiglio, che ci sono nascoste. Ma ci si chiede ancora di più: è sorprendente che oggi egli rifiuti e aborrisca i sacrifici animali e tutto l’apparato del sacerdozio levitico, di cui un tempo si compiaceva! Come se queste esteriorizzazioni fragili e deboli potessero piacere a Dio o addirittura toccarlo! Ci è già diventato chiaro che non ha fatto tutto questo per se stesso, ma lo ha ordinato per la salvezza degli uomini. Se il medico ha guarito un uomo in modo impeccabile quando era giovane, e poi, quando lo stesso uomo è diventato vecchio, usa altri mezzi e modi per guarirlo, non diremo che ha rifiutato il modo di guarire che ha usato una volta! No, è proprio perché rimane costantemente con lo stesso modo di guarire che tiene conto dell’età del malato! Così Cristo, quando non era ancora qui, doveva essere presentato con segni speciali e annunciato come il Veniente – e questi segni erano diversi da quelli che devono rappresentarlo oggi, quando si è manifestato. Certo, oggi, dopo la venuta di Cristo, la chiamata di Dio va più lontano di prima, va a tutte le nazioni; la grazia del suo Spirito Santo è ora riversata più abbondantemente di prima; ma io chiedo: si può negare che è giustamente nelle mani e nella discrezione di Dio come distribuirà la sua grazia e a quali popoli la farà penetrare? Non sarà forse lui a decidere in quali luoghi lascerà che la predicazione della sua parola abbia luogo e quanto progresso e successo le concederà? Non ha forse il diritto di ritirare la conoscenza del suo nome al mondo nella sua ingratitudine in qualsiasi momento gli piaccia, ma anche, quando gli piace, di concederla di nuovo secondo la sua misericordia? Vediamo, quindi, che è un’invettiva indegna quella con cui i malvagi in questa commedia turbano le coscienze delle persone semplici per mettere in dubbio la giustizia di Dio e anche l’affidabilità delle Scritture.


Capitolo dodici

Per svolgere l’ufficio di mediatore, Cristo ha dovuto diventare uomo.

II,12,1 Era della massima importanza per noi che colui che doveva essere il nostro mediatore fosse veramente vero Dio e vero uomo. Questo, naturalmente, non si basa su una necessità "semplice" o "assoluta", come si dice, ma risulta dal consiglio celeste da cui dipendeva la salvezza dell’umanità. Il Padre, nella sua bontà, ha deciso ciò che era meglio per noi secondo la sua determinazione! Perché la nostra ingiustizia stava come una nuvola tra noi e lui, ci allontanava completamente dal regno dei cieli, e quindi nessuno poteva restituirci la pace se non colui che aveva pieno accesso a lui. Ma di chi si potrebbe dire questo? Chi tra i figli di Adamo era in grado di fare questo? Tremavano tutti con il loro antenato davanti allo sguardo di Dio! Forse uno degli angeli? Ma essi stessi avevano bisogno di una testa per stare saldamente e inseparabilmente in comunione con il loro Dio! Come sarebbe ora? Sarebbe stato veramente miserabile per noi se la Maestà di Dio in persona non fosse scesa fino a noi – perché non potevamo salire! Quindi il Figlio di Dio doveva diventare Immanuel per noi, cioè "Dio con noi", in modo tale che la sua divinità e la sua natura umana fossero intimamente unite. In nessun altro modo Dio potrebbe avvicinarsi a noi, in nessun altro modo potrebbe svilupparsi un solido legame interiore e con esso la fiduciosa speranza che egli abita veramente in mezzo a noi! Così incomparabile era la distanza tra noi nella nostra contaminazione e Dio nella Sua gloriosa purezza! Certo, se l’uomo si fosse mantenuto libero da ogni peccato, se fosse rimasto puro, sarebbe stato ancora troppo umile per entrare in comunione con Dio senza il Mediatore! Ma che ne sarebbe stato di lui quando fosse sprofondato nella morte e nell’inferno per un terribile crollo, si fosse macchiato di tanta vergogna, già puzzando nella sua corruzione, e fosse caduto completamente sotto la maledizione? Non è dunque scorretto quando Paolo, per chiamare Cristo Mediatore, lo chiama espressamente uomo. "C’è … un mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo!" (1Ti 2:5). Poteva anche dire "il Dio…", poteva anche omettere entrambe le denominazioni, Dio e uomo; ma lo Spirito Santo, che parla attraverso la sua bocca, conosce la nostra debolezza, ha voluto portarci aiuto rapidamente e ha usato il mezzo migliore per farlo: ha messo il Figlio di Dio degnamente in mezzo a noi come uno dei nostri! Ora nessuno deve agitarsi e chiedersi dove questo mediatore possa essere trovato o con quali mezzi possa essere raggiunto: lo Spirito lo chiama uomo e così ci mostra che è vicino a noi, sì, che è nostro pari, perché è la nostra carne e il nostro sangue! Troviamo lo stesso in un altro passo: "Non abbiamo infatti un sommo sacerdote che non possa avere compassione delle nostre infermità, ma che sia tentato in ogni modo, eppure senza peccato" (Eb 4,15).

II,12,2 Questo ci sarà ancora più chiaro quando penseremo al compito insolito del Mediatore. Doveva portarci in grazia con Dio in modo tale che saremmo diventati figli di Dio da figli degli uomini, da eredi dell’inferno in eredi del regno dei cieli. Ma chi potrebbe realizzare questo – a meno che il Figlio di Dio non si sia anche fatto Figlio dell’uomo, assumendo così ciò che è la nostra natura e donandoci ciò che era suo, se non ci rendesse in grazia ciò che era suo per natura? Su questo pegno ci basiamo e confidiamo che ora siamo figli di Dio, poiché il Figlio naturale di Dio ha preso un corpo del nostro corpo, carne della nostra carne, ossa delle nostre ossa, per essere come noi in tutte le cose! Non ha avuto paura di assumere ciò che era nostro, affinché ciò che appartiene a lui appartenesse anche a noi – così che ora appartiene insieme a noi come Figlio di Dio e Figlio dell’Uomo. Da qui questa santa fratellanza, che egli stesso esalta così tanto con la sua stessa parola: "Io vado al Padre mio e al Padre vostro, al mio Dio e al vostro Dio" (Giov 20,17). In questo modo ci viene assicurato il regno dei cieli come nostra eredità, perché l’unico Figlio di Dio, al quale questa eredità appartiene come un possesso sicuro, ci ha adottati come fratelli; e se siamo suoi fratelli, siamo anche membri della sua eredità (Rom 8:17). Ma per un’altra ragione colui che doveva redimerci doveva essere vero Dio e vero uomo. Perché doveva vincere la morte – e chi dovrebbe essere in grado di farlo se non la vita? Egli doveva abbattere il peccato – e chi dovrebbe essere in grado di fare questo se non la giustizia stessa? Egli doveva rovesciare le potenze del mondo che governano nell’aria – e chi dovrebbe essere in grado di farlo se non una potenza più forte del mondo e di tutte le potenze? Ma con chi è la vita, con chi è la giustizia, con chi è il dominio e il potere su tutti i cieli – se non con Dio solo? Così Dio, nella sua grande misericordia, si è fatto nostro Redentore nella forma del suo Figlio unigenito, per liberarci dal peccato.

II,12,3 Il secondo requisito essenziale per la nostra riconciliazione con Dio era che l’uomo, che era stato perso a causa della propria disobbedienza, rendesse in cambio un’obbedienza perfetta, soddisfacesse il giudizio di Dio e portasse pienamente la pena per il suo peccato. Allora il nostro Signore stesso entrò nei mezzi come un vero uomo, prese la forma di Adamo, mise il suo nome per offrire l’obbedienza colpevole al Padre in sua vece, per presentare la nostra carne come propiziazione davanti al giusto giudizio di Dio e per soffrire in questa carne la punizione che avevamo meritato! Ma Egli non poteva veramente gustare la morte solo come Dio, e d’altra parte non poteva vincerla come uomo – e perciò ha unito in sé la natura umana con quella divina; così, secondo la debolezza della natura umana, ha ceduto alla morte per espiare i nostri peccati – e così, secondo la potenza della natura divina, ha potuto condurre la battaglia contro la morte per vincere la vittoria per noi! Chiunque, dunque, voglia privare Cristo della sua divinità o anche della sua umanità, o diminuisce la sua maestà e il suo onore, o oscura la sua bontà verso di noi. Ma altrettanto grande è allora il torto fatto all’uomo dall’altra parte: si scuote e si perverte la sua fede, che può stare saldamente in piedi solo su questo fondamento. Inoltre, il Figlio di Abramo e di Davide, che Dio ha promesso nella Legge e nei Profeti, dovrebbe essere atteso come Redentore; il pio può prendere come ulteriore frutto la certezza che questo è il Cristo, che ci viene lodato in tante profezie, dal fatto che la sua origine risale ovviamente a Davide e Abramo. Soprattutto, però, dobbiamo tenerci stretti a ciò che ho già esposto: L’essere di Cristo, che abbraccia Dio e l’uomo insieme, è la garanzia della nostra comunione con lui come Figlio di Dio; nella nostra carne ha abbattuto la morte e il peccato, così che noi possiamo avere la vittoria, noi possiamo condurre il trionfo; la nostra carne l’ha presa e offerta in sacrificio, per cancellare la nostra colpa con il suo sacrificio espiatorio e per riconciliare la giusta ira di Dio contro di noi!

II,12,4 Chiunque prenda in considerazione questi pezzi con la dovuta attenzione, potrà facilmente far fronte alle speculazioni infondate che sono portate avanti da persone frivole e dipendenti dalle novità. Questi includono, soprattutto, l’affermazione che Cristo si sarebbe fatto uomo anche se non ci fosse stato bisogno di un mezzo per redimere l’umanità. Ammetto che già nell’ordine della prima creazione, cioè allo stato incorrotto, egli fu fatto capo degli angeli e degli uomini, ed è per questo che Paolo lo chiama "il primogenito prima di ogni creatura" (Col 1,15). Ma tutta la Scrittura dice abbastanza chiaramente che ha preso la nostra carne per diventare il nostro Redentore, e quindi sarebbe presuntuoso immaginare qualsiasi altra ragione o scopo per questo. Si sa bene a quale fine erano dirette tutte le promesse che hanno testimoniato Cristo fin dall’inizio: egli doveva restaurare il mondo decaduto e venire in aiuto degli uomini nella loro perdizione. Ecco perché la sua immagine era implicita nei sacrifici sotto la Legge, in modo che i credenti sperassero che Dio sarebbe stato benevolo con loro dopo che il peccato era stato espiato e lui era stato riconciliato con loro! In tutti i tempi, anche prima dell’emanazione della Legge, non c’è mai una promessa del Mediatore senza sangue; e da questo dobbiamo concludere che il Mediatore, secondo il consiglio eterno di Dio, è stato ordinato di lavare i nostri peccati; poiché lo spargimento di sangue è un segno di espiazione. Anche i profeti predicarono di lui in modo tale che apparisse nella loro promessa come il riconciliatore tra Dio e l’uomo. La famosa testimonianza di Isa può bastare come prova: Egli promette che il mediatore sarà "schiacciato per la nostra iniquità" per mano di Dio, che il "castigo è su di lui", "affinché noi possiamo avere pace", che egli sarà il sacerdote che si offre in sacrificio, "e per le sue ferite" gli altri saranno "guariti"; poiché tutti noi "ci siamo smarriti come pecore", è piaciuto a Dio colpirlo, che egli porti la punizione di tutti noi… (Isa 53,4-6). Lì sentiamo che Dio lo ha chiamato a portare aiuto ai poveri peccatori nella loro miseria; chi va oltre questo limite lascia correre il suo orgoglio! Quando lui stesso è venuto, ha sottolineato come motivo della sua venuta che voleva riconciliare Dio con noi e così condurci dalla morte alla vita. Anche gli apostoli hanno testimoniato la stessa cosa di lui. Così Giov parla prima del peccato dell’uomo e solo dopo dell’incarnazione del Verbo! (Giov 1,9-11; Giov 1,14). Ma soprattutto, dobbiamo sentire lui stesso dire del suo ministero: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, affinché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia vita eterna" (Giov 3,16). "Viene l’ora in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio, e quelli che ascolteranno vivranno" (Giov 5:25). "Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se fosse morto, vivrà…" (Giov 11,25). "Il Figlio dell’uomo è venuto a salvare ciò che era perduto…" (Mat 18,11). "I sani non hanno bisogno di un medico…" (Mat 9,12). Non sarebbe una fine se volessi elencare tutto! In piena unanimità, anche gli apostoli ci portano alla stessa fonte. Se non fosse venuto per riconciliarci con Dio, non avrebbe l’onore del sacerdozio, perché il sacerdote stava tra Dio e gli uomini in intercessione (Ebr 5:1); né sarebbe la nostra giustizia, perché questo vale solo per lui perché è diventato un sacrificio per noi, in modo che Dio non ci imputi il nostro peccato (2Cor 5:19). In breve, egli perderebbe allora tutte le alte dignità che la Scrittura gli attribuisce. Anche le parole di Paolo andrebbero perdute: "Ciò che era impossibile per la legge, Dio l’ha fatto e ha mandato il suo Figlio a somiglianza di carne peccatrice… e ha condannato il peccato nella carne" (Rom 8:3; Calvino traduce in modo un po’ diverso). Bisognerebbe allora lasciar cadere anche l’altra parola, secondo la quale in questo specchio, cioè nel fatto che Dio ci ha dato Cristo come Salvatore, "la grazia salvifica di Dio" e il suo amore infinito "apparvero a tutti gli uomini"! (Tito 2:11). In breve, la Scrittura non menziona da nessuna parte un altro scopo per l’incarnazione del Figlio e l’incarico che Egli ricevette dal Padre se non quello di diventare il sacrificio per riconciliare il Padre con noi. "Così sta scritto, e così Cristo doveva soffrire… e far predicare il pentimento nel suo nome…" (Luca 24,46 s.). "Perciò il Padre mio mi ama, perché do la mia vita" "per le pecore"; "un tale comandamento l’ho ricevuto dal Padre mio" (Giov 10,17 s., eco di 10,12). "Come Mosè innalzò un serpente nel deserto, così deve essere innalzato il Figlio dell’uomo" (Giov 3,14). E poi ancora: "Padre, aiutami ad uscire da quest’ora. Ma per questo sono venuto a quest’ora: Padre, glorifica il tuo nome…" (Giov 12,27 s.). In questi passaggi egli stesso descrive chiaramente lo scopo dell’incarnazione: egli deve essere il sacrificio e il mezzo di espiazione per porre fine al nostro peccato. Per questo Zac proclama anche che egli è venuto secondo la promessa fatta un tempo ai padri, "per apparire a coloro che siedono nelle (tenebre e) nell’ombra della morte…" (Luca 1,79). E tutto questo è detto – non dobbiamo dimenticare! – si dice del Figlio di Dio, nel quale, secondo un’altra parola di Paolo, "sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza di Dio" (Col 2:3), e del quale Paolo si vanta di non conoscere altri che lui solo (1Cor 2:2)!

II,12,5 Ora qualcuno potrebbe obiettare che Cristo è davvero il Redentore per noi che siamo condannati; ma se fossimo rimasti sani e senza macchia, Egli avrebbe potuto ancora mostrarci il suo amore prendendo la nostra carne… A questo posso rispondere brevemente: Se lo Spirito Santo ci fa sapere che nell’eterno consiglio di Dio queste due cose esistevano insieme, che Cristo ci redimesse, e questo con l’assunzione della nostra natura, allora non ci è permesso chiedere di più! Perché colui che permette a se stesso di essere stimolato dal suo desiderio di sapere ancora di più, dimostra che non è soddisfatto del consiglio immutabile di Dio, e proprio per questo non vuole essere soddisfatto del Cristo che è stato scelto per noi come Salvatore! Paolo non solo mostra per che cosa Cristo è stato mandato, ma penetra nel mistero più profondo della predestinazione e mette così fine ad ogni audacia umana e ad ogni presunzione. "Poiché dunque egli ci ha scelti per mezzo di lui prima che fosse posta la fondazione del mondo… e ci ha ordinati all’adozione filiale a sé per mezzo di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà… e ci ha fatti accettare nell’Amato, nel quale abbiamo la redenzione attraverso il suo sangue…" (Efes 1,4-7). Qui la caduta di Adamo non è ovviamente presupposta come un evento già accaduto in precedenza, ma ci viene presentato ciò che Dio ha decretato dall’eternità, poiché ha deciso di venire in aiuto dell’umanità nella sua miseria! Ma se uno degli oppositori obietta poi che questo consiglio di Dio dipendeva dalla caduta dell’uomo nel senso che Dio stesso l’aveva previsto, voglio solo far notare: chi si permette di chiedere di più su Cristo o vuole sapere più di quanto Dio abbia determinato nel suo segreto consiglio, si fa un nuovo Cristo per sé nella presunzione senza Dio! È pienamente giustificato che Paolo, parlando in questo senso dell’effettivo ministero di Cristo, auguri agli Efesini lo spirito di comprensione, "affinché comprendiate… quale sia l’ampiezza, la lunghezza, la profondità e l’altezza, conoscendo anche l’amore di Cristo, che sorpassa ogni conoscenza" (Efes 3:16, 18 s.). È come se Paolo volesse mettere un recinto intorno alle nostre menti in modo che non ci allontaniamo minimamente dalla grazia della riconciliazione quando pensiamo a Cristo! Perché secondo Paolo, è "certamente vera e preziosa la parola che Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori…". (1Ti 1:15). Vorrei rimanere con questo. Altrove, lo stesso apostolo insegna che la grazia che ora ci viene fatta conoscere attraverso il vangelo ci fu già data in Cristo "prima del tempo del mondo" (2Tim 1:9); penso che dobbiamo perseverare con questo fino alla fine! Contro questa modesta moderazione Osiander si ribella ora con veemenza; egli ha riportato la questione, che prima di lui era stata sollevata con noncuranza anche da altri, di nuovo allo scoperto nel nostro tempo. Accusa di presunzione tutte le persone che non vogliono ammettere che Cristo sarebbe apparso nella carne anche se Adamo non fosse caduto – e questo perché quest’ultima fantasia non è confutata da nessun passo della Scrittura! Come se Paolo non mettesse un freno a tale contorta presunzione quando prima parla della redenzione avvenuta in Cristo – e poi immediatamente avverte. "Ma di domande sciocche… astenersi!" (Tito 3:9). La folle illusione è scoppiata così selvaggiamente in alcuni che ora - con l’errata intenzione di apparire il più possibile perspicaci! – hanno sollevato la questione se il Figlio di Dio avrebbe potuto assumere anche la natura di un asino! Osiander giustifica questa mostruosità, che ogni persona pia troverà atroce e terribile, con la scusa che questo non è mai espressamente rifiutato nella Scrittura! Come se Paolo, quando ci dice che non conosce nulla di più prezioso e degno di essere conosciuto che "Cristo crocifisso" (1Cor 2,2), ammettesse anche un asino come autore della nostra salvezza! Colui che dice di Cristo: "Dio ha messo tutte le cose sotto i suoi piedi e lo ha posto a capo di tutte le cose" (Efes 1,22) – non riconoscerà nessun altro che Cristo come colui che deve e può compiere l’ufficio della salvezza!

II,12,6 Ma la ragione su cui insiste Osiander è del tutto indegna. Egli sostiene che l’uomo è stato creato a immagine di Dio, il che significa che è stato fatto a immagine del futuro Cristo: dovrebbe quindi essere già simile a colui che, secondo il consiglio del Padre, doveva un tempo assumere forma carnale! Da questo egli trae la conclusione: anche se Adamo non fosse mai caduto dal suo stato originale e immacolato di creazione, Cristo sarebbe comunque diventato uomo! Chiunque possa pensare razionalmente riconoscerà quanto sia ridicola e incoerente questa affermazione. Ciononostante, Osiandro sostiene di essere stato il primo a scoprire correttamente cosa fosse effettivamente l’"immagine di Dio" (imago Dei): perché non era affatto da ricercare solo nel fatto che la gloria di Dio risplendesse nei magnifici doni concessi all’uomo, ma che Dio avesse dimorato in lui secondo la sua essenza! Ora lo ammetto: Adamo portava l’immagine di Dio solo nella misura in cui era unito a Dio – perché questa è la vera e più alta dignità. Ma io sostengo, d’altra parte, che la somiglianza con Dio va cercata solo in quelle gloriose caratteristiche con cui Dio aveva distinto Adamo sopra tutte le altre creature! Che Cristo fosse già allora a immagine di Dio è la convinzione unanime di tutti; e quindi tutto ciò che fu dato ad Adamo in termini di maestà deriva unicamente dal fatto che attraverso il Figlio unigenito fu reso partecipe della gloria del suo Creatore. L’uomo, dunque, è veramente creato a immagine di Dio: il Creatore stesso ha voluto rendere la sua gloria visibile in lui come in uno specchio. Il fatto che abbia raggiunto una così alta dignità è stato per il bene del Figlio unigenito. Ma vorrei aggiungere che questo stesso Figlio era anche il capo degli angeli oltre che dell’uomo, così che la dignità conferita all’uomo si estendeva anche agli angeli. Perché questi, come abbiamo sentito, sono "figli di Dio" (Sal 82,6) – e allora è assurdo non supporre che anche loro avessero qualcosa in loro in cui assomigliavano al Padre! Quindi Dio ha voluto mostrare la sua gloria negli angeli così come nell’uomo, ha voluto renderla visibile in entrambe le nature – ed è per questo che è una sciocchezza quando Osiandro sostiene che gli angeli erano di minore dignità dell’uomo in quel tempo, perché non portavano l’immagine di Cristo. Ma (dobbiamo rispondere) essi non godrebbero sempre della vista attuale di Dio se non gli assomigliassero; e Paolo stesso non conosce altro modo di rinnovare l’immagine di Dio negli uomini (Col 3:10) che quello di essere ricevuti nella comunione degli angeli e allo stesso tempo essere uniti insieme sotto un unico capo. Sì, se dobbiamo credere alle parole di Cristo, la nostra massima beatitudine, quando saremo assunti in cielo, consisterà nell’essere come gli angeli (Mat 22,30). Se dunque si concede a Osiandro che l’immagine originale di Dio era l’uomo Cristo, un altro potrebbe altrettanto giustamente sostenere che Cristo avrebbe dovuto assumere anche la natura degli angeli, perché anch’essi erano partecipi dell’immagine di Dio!

II,12,7 Osiandro non ha bisogno di temere che Dio venga necessariamente reso bugiardo, se non avesse già portato in sé la ferma e irremovibile intenzione che Cristo debba farsi carne. Infatti, se la giustizia di Adamo non fosse crollata, Adamo sarebbe rimasto come Dio, come del resto gli angeli, e quindi non sarebbe stato affatto necessario che il Figlio di Dio diventasse uomo o angelo. Anche il timore di Osiander che Cristo avrebbe dovuto perdere la sua eccezionale dignità se Dio non avesse avuto già prima della creazione dell’uomo il fermo progetto di nascere un giorno – e non come Redentore, ma come "primo uomo" – è abbastanza insensato. Perché – conclude ancora Osiander – se l’incarnazione di Cristo fosse stata dipendente da certe circostanze, cioè dalla necessità di restaurare l’umanità perduta – allora Cristo sarebbe stato creato a immagine di Adamo! Perché allora Osiander passa così paurosamente accanto alla chiara e aperta dichiarazione della Scrittura che Cristo è diventato come noi in tutto, solo senza peccato? (Eb 4,15). Anche Luca non esita a chiamare il Signore Figlio di Adamo secondo la discendenza! (Luca 3,38). Vorrei sapere perché mai Paolo chiama Cristo il "secondo" Adamo! (1Cor 15:47). Non può esserci stata altra ragione che quella di essere destinato alla vera esistenza umana, per strappare i discendenti di Adamo alla loro miseria! Se il piano dell’Incarnazione fosse esistito prima della Creazione, Cristo avrebbe dovuto essere chiamato il primo Adamo! Così Osiander sostiene con freschezza e impudenza che Cristo come uomo era già conosciuto nel pensiero di Dio prima – e che Dio ha creato l’umanità secondo questo archetipo! Ma Paolo chiama Cristo il "secondo" Adamo; pone così la caduta nel mezzo tra la creazione originale dell’uomo e la restaurazione, come la otteniamo in Cristo: solo da lui nasce la necessità di riportare la natura al suo stato precedente, ed è così anche la ragione per cui il Figlio di Dio doveva nascere, che così si è fatto uomo! Osiander, tuttavia, conclude insensatamente da questa considerazione che Adamo sarebbe stato allora la propria immagine e non l’immagine di Cristo prima della sua caduta! Rispondo esattamente al contrario: anche se il Figlio di Dio non avesse mai preso carne, l’immagine di Dio avrebbe comunque brillato da Adamo in corpo e anima – e lo stesso splendore di questa immagine avrebbe sempre mostrato che Cristo è in verità il capo e ha la precedenza in tutto! Così si dissolve il vuoto sofisma di Osiandro, secondo il quale gli angeli non avrebbero potuto avere Cristo come capo se Dio non avesse voluto farlo carne, e questo senza colpa di Adamo. Perché nella sua noncuranza avanza una proposizione che nessun uomo sensato gli ammetterà: cioè, che Cristo ha il dominio sugli angeli solo in quanto è uomo, e quindi gli angeli possono avere il godimento del suo dominio solo in quanto è uomo! Eppure la cosa giusta da fare emerge abbastanza chiaramente dalle parole di Paolo in Colossesi: secondo queste, Cristo è il "primogenito prima di tutte le creature" come Parola eterna di Dio (Col 1,15), non perché sia stato creato o annoverato tra le creature, ma perché lo stato incorrotto del mondo nella sua originale, meravigliosa gloria non aveva altra origine che Lui; nella misura in cui, d’altra parte, si è fatto uomo, Paolo lo chiama il "primogenito dai morti" (Col 1,18). Così in questo breve contesto l’apostolo ci dà entrambe le cose da considerare. In primo luogo, tutte le cose sono state create dal Figlio, così che egli è anche Signore sugli angeli (specialmente 1,16) – e in secondo luogo, si è fatto uomo per diventare il Redentore. La stessa ignoranza è tradita da Osiandro con l’affermazione che Cristo sarebbe anche perso per l’umanità come re se non fosse diventato uomo! Come se il regno di Dio non potesse esistere se l’eterno Figlio di Dio, anche senza assumere la carne umana, avesse riunito angeli e uomini per partecipare alla sua gloria e alla sua vita, e così lui stesso detenesse il dominio! Ma Osiander fantastica sempre e si destreggia con il principio insensato come se la Chiesa dovesse rimanere senza capo se Cristo non fosse apparso nella carne. Come se non potesse, come gli angeli avevano il loro capo in lui, essere anche la guida e il capo degli uomini e conservarli e proteggerli con la potenza nascosta del suo Spirito come suo corpo, finché essi, assunti in cielo, potessero godere della stessa vita degli angeli! Ma Osiandro prende ora il pettegolezzo che ho respinto per la più certa rivelazione divina, e poi, inebriato dalle sue gloriose fantasie, intona abitualmente potenti canti di battaglia sul nulla ad esso! Ma pensa di trovare una prova ancora più affidabile nelle parole presumibilmente profetiche di Adamo, che esclamò alla vista di sua moglie: "Certamente questo è osso delle mie ossa e carne della mia carne!" (Gen 2:23). Ma come fa Osiander a dimostrare che queste parole sono davvero una profezia? Forse dal fatto che Cristo li mette in bocca a Dio nel Vangelo di Matteo! Come se tutto ciò che Dio ha parlato attraverso l’uomo dovesse contenere una profezia! Osiandro dovrebbe cercare profezie nei singoli comandamenti della Legge – e sicuramente la Legge viene dalla bocca di Dio! Cristo sarebbe stato allora anche un interprete rozzo e terreno che si sarebbe "semplicemente" attenuto al senso letterale! Non parla dell’unità nascosta di cui ha onorato la Chiesa, ma della fedeltà coniugale; e dichiara che Dio ha detto che l’uomo e la donna sono una sola carne, così che nessuno può osare violare questo legame indissolubile con il divorzio. Se questa semplice spiegazione non piace a Osiandro, può lamentarsi di Cristo, perché non ha introdotto i suoi discepoli al giusto mistero e non ha interpretato più profondamente la parola del Padre! Ma nemmeno Paolo può essere preso come giuramento per tali sciocchezze: egli dice sì che siamo carne della carne di Cristo – ma aggiunge subito: "Il mistero è grande" (Efes 5,30 ss.). Né intende spiegare in che senso Adamo ha pronunciato quella parola, ma vuole mostrare sotto l’immagine, la parabola del matrimonio, quel santo legame che ci unisce a Cristo. Questo è provato anche dalle parole: "Parlo di Cristo e della chiesa" (5,32); egli vuole distinguere l’unione spirituale di Cristo con la sua chiesa dall’ordine dello stato matrimoniale per una migliore spiegazione. Perciò questo inutile sproloquio di Osiander scompare da solo. Credo anche che non sia necessario qui dare ulteriori sciocchezze, perché questa breve confutazione dell’uno rivela già la follia dell’altro. Per i figli di Dio che cercano un solido nutrimento, questa semplice e chiara parola sarà pienamente sufficiente: "Ma quando il tempo fu compiuto, Dio mandò il suo Figlio, nato da una donna e messo sotto la legge, per riscattare quelli che erano sotto la legge…" (Gal 4,4).


Capitolo tredici

Cristo ha veramente assunto la nostra carne umana.

II,13,1 Ho già dimostrato altrove la divinità di Cristo con prove chiare e certe; se vedo bene, non ho bisogno di farlo di nuovo qui. Dobbiamo quindi ancora vedere come egli, rivestito della nostra carne, ha svolto l’ufficio di Mediatore. Che fosse veramente e realmente un uomo era già stato contestato nell’antichità dai manichei e dai marcioniti. I Marcioniti dichiaravano che il suo corpo era solo apparente, un fantasma, i manichei sognavano che fosse dotato di carne celeste. Ma queste due opinioni erronee sono contrastate da molte e potenti testimonianze della Scrittura. La promessa di benedizione non si riferisce a un seme celeste o a un essere umano illusorio, ma al seme di Abramo e Giacobbe! (Gen 17:2; 22:18; 26:4). Né il trono eterno di Davide è attribuito a un uomo etereo, ma al figlio di Davide, il frutto dei suoi lombi! (Sal 45:7). Ecco perché Colui che si è rivelato nella carne è chiamato Figlio di Davide e di Abramo (Mat 1,1), non perché sia nato nel grembo della vergine, né perché sia stato creato nell’etere, ma perché secondo Paolo è "nato nella carne dalla stirpe di Davide" (Rom 1,3); così come lo stesso Paolo fa derivare l’origine di Cristo dagli ebrei (Rom 9,5). Perciò il Signore stesso non si accontenta della designazione "uomo", ma si chiama spesso "Figlio dell’uomo", per mostrare che è un uomo, veramente uscito dal seme degli uomini! Così spesso e attraverso così tanti strumenti lo Spirito Santo ci ha posto davanti, con tanto zelo e semplicità, questa materia, che di per sé non è affatto oscura, che non ci si sarebbe dovuto aspettare che la sfacciataggine degli uomini fosse mai così grande da cercare di penetrare anche qui con la sua illusione! Ma ci sono altre testimonianze disponibili, se si vuole sempre compilare di più. Per esempio, le parole di Paolo: "…Dio mandò il suo Figlio, nato da una donna…". (Gal 4:4). Poi ci sono gli innumerevoli passaggi in cui sentiamo che il Signore ha sofferto la fame, la sete, il gelo e altre debolezze corrispondenti alla nostra natura! Ma voglio selezionare soprattutto quei passaggi che sono particolarmente adatti per incoraggiarci a confidare in Lui. Per esempio, quando sentiamo che non fece agli angeli l’onore di prendere la loro natura, ma prese la nostra stessa natura per "togliere nella carne e nel sangue il potere di colui che aveva il potere della morte… attraverso la morte" (Ebr 2:16). (Ebr. 2,16.14). O anche: poiché ha assunto una sola natura con gli uomini, "non si vergogna di chiamarli fratelli!". (Eb 2,11). Oppure: "Doveva diventare come i suoi fratelli in tutto, per essere misericordioso e un sommo sacerdote fedele" (Eb 2,17). E poi anche la parola: "Non abbiamo un sommo sacerdote che non possa avere compassione delle nostre infermità…" (Eb 4,15). Questa serie potrebbe facilmente essere continuata. Qui appartiene anche un passaggio già menzionato sopra, secondo il quale egli dovette espiare i nostri peccati "a somiglianza della carne peccatrice", "nella carne", come sottolinea espressamente Paolo (Rom 8:3). Proprio per questo, ciò che il Padre gli ha dato è certamente nostro: perché Lui è il Capo, "dal quale tutto il corpo è unito, e un membro si unisce all’altro attraverso tutte le giunture… e fa crescere tutto il corpo…" (Efes 4,16). Solo così è anche vero che, come dice la Scrittura, ha ricevuto lo Spirito Santo senza misura, così che tutti noi abbiamo "ricevuto grazia per grazia dalla sua pienezza!" (Giov 1:16). Perché sarebbe abbastanza assurdo pensare che Dio possa essere arricchito nel suo essere da un dono estraneo! Per questo Cristo stesso dice: "Io mi santifico per loro" (Giov 17,19).

II,13,2 Ora i falsi maestri portano anche passi biblici per provare la loro causa; ma li distorcono orribilmente, e con i loro vuoti sofismi non possono fare nulla anche se tentano di rovesciare la mia prova contraria. Marcione immagina che Cristo abbia assunto solo un corpo illusorio perché dice: "E fu fatto come un altro uomo, e fu trovato un uomo in apparenza" (Fili 2,7). Ma non pensa a ciò che Paolo sta effettivamente dicendo qui! Perché non sta parlando di che tipo di corpo ha assunto Cristo; vuole mostrare qualcosa di completamente diverso: Cristo avrebbe potuto mostrare giustamente la sua divinità, ma non ha lasciato che si vedesse altro che la natura di un essere umano umile e disprezzato! Vuole incoraggiarci a seguire l’esempio di Gesù e chiamarci alla stessa obbedienza, e perciò dichiara: Egli era Dio, ed era certamente in grado di far risplendere la sua gloria davanti al mondo in ogni momento, ma rinunciò al suo diritto e si umiliò volontariamente, prese la forma di un servo e si accontentò di una posizione così umile, permise che la sua divinità rimanesse nascosta dietro la cortina di carne! Paolo non insegna certo che tipo di Cristo era, ma come si è mostrato! È anche abbastanza chiaro da tutto il contesto che Cristo ha davvero assunto la natura umana nella sua umiliazione. Cos’altro può significare quando sentiamo: "È stato trovato un uomo in apparenza"? Può significare altro se non che la Sua gloria divina non divenne visibile per un certo tempo, ma che Egli apparve in uno stato umile e disprezzato, sotto forma di uomo? Le parole di Pietro: "Fu messo a morte nella carne, ma fu reso vivo nello Spirito" (1Piet 3,18) non avrebbero senso se il Figlio di Dio non fosse stato veramente debole nella natura umana! Paolo lo rende ancora più chiaro quando parla di Cristo "crocifisso nella debolezza…" (2Cor 13:4; Calvino aggiunge: "della carne"). Anche l’esaltazione di Cristo rientra qui: è espressamente detto che Cristo ha raggiunto una nuova gloria dopo la sua umiliazione. Ma questo può valere solo per una persona con corpo e anima. I manichei sognano una carne celeste di Cristo, perché Cristo sarebbe chiamato il "secondo Adamo", cioè "il Signore dal cielo" (1Cor 15,47). Ma in questo passaggio l’apostolo non parla del corpo di Cristo che è di natura celeste; parla della potenza spirituale che viene da Cristo e ci rende vivi! Ma Paolo e Pietro, come abbiamo visto, distinguono questo potere dalla Sua carne! Così questa presunta prova dei manichei è praticamente un’eccellente conferma della dottrina dell’essere di Cristo nella carne, che è tenuta da tutti i credenti ortodossi. Perché se Cristo non avesse assunto la stessa natura corporea che abbiamo noi, anche la frase che Paolo proclama con tanto zelo verrebbe meno: "Ma se Cristo è risorto, anche noi risorgeremo; se non c’è risurrezione per noi, nemmeno Cristo è risorto!" (1Cor 15:16; in realtà nota di contenuto a 1Cor 15:12-20). Ora, non importa quanto duramente i manichei o i loro seguaci moderni cerchino di far cadere questa prova, non saranno in grado di tirarsene fuori! È una scusa patetica quando dicono che Cristo è chiamato "il Figlio dell’Uomo" solo se è stato promesso agli uomini. Eppure è chiaro che in ebraico "Figlio dell’uomo" significa semplicemente quanto "uomo"! Cristo ha ovviamente conservato l’espressione abituale nella sua lingua madre. Che l’espressione "figli di Adamo" abbia anche lo stesso significato è indiscutibile. Ma non voglio più essere sviato: le parole dell’ottavo salmo, che gli apostoli riferiscono a Cristo, sono una prova sufficiente: "Che cos’è l’uomo, perché ti ricordi di lui, e il Figlio dell’uomo, perché ti ricordi di lui? (Sal 8:5; Ebr 2:6). In questa immagine si esprime la vera umanità di Cristo: non è stato generato direttamente da un padre mortale, ma ha comunque preso la sua origine da Adamo! Solo a questa condizione l’apostolo poteva dire, come abbiamo già detto: "Ora che i figli hanno carne e sangue, anche lui ne è diventato partecipe…", cioè riunire i figli per l’obbedienza a Dio! (Eb 2,14). Lì è chiaramente indicato: Cristo ha condiviso la stessa natura, era soggetto alla stessa natura come noi! Nello stesso senso deve essere intesa la frase: "Poiché tutti provengono da uno solo, sia colui che santifica che coloro che sono santificati" (Eb 2,11). Perché questo, secondo il contesto, deve riferirsi alla condivisione della stessa natura: l’apostolo aggiunge anche immediatamente: "Perciò non si vergogna di chiamarli fratelli!" (Eb 2,11). Se avesse voluto dire prima che i credenti sono anche di Dio, allora non ci sarebbe veramente motivo di vergogna in presenza di una così alta dignità! Ma poiché Cristo, nella sua incommensurabile grazia, si è associato con gente sporca e ignobile, c’è ragione di dire: non si è vergognato! E non aiuta affatto obiettare che in queste circostanze anche gli empi sarebbero fratelli di Cristo; perché sappiamo che i figli di Dio non nascono dalla carne e dal sangue, ma dallo Spirito Santo, attraverso la fede! Pertanto, la carne da sola non porta a questo legame fraterno! Così, sebbene l’apostolo dia ai credenti solo l’onore di essere uno con Cristo, non si può certo concludere che anche i non credenti traggano la loro origine dalla stessa fonte. Lo stesso vale per la frase che Cristo si è fatto uomo per renderci figli di Dio: anche questo non si riferisce semplicemente a qualsiasi essere umano, perché la fede sta in mezzo, integrandoci spiritualmente nel corpo di Cristo. Essi sollevano anche tutti i tipi di argomenti sofistici con l’espressione "il primogenito". Perché concludono così: Cristo avrebbe dovuto nascere da Adamo fin dall’inizio se doveva essere "il primogenito tra molti fratelli"! (Rom 8:29). L’espressione "primogenito", tuttavia, non si riferisce affatto all’età fisica, ma al rango, all’onore e al potere eccezionale! Altrettanto inconsistente è il loro discorso che la frase che Cristo ha assunto la natura dell’uomo e non quella degli angeli (Ebr 2:16) significa solo questo, che ha assunto l’umanità in grazia. L’apostolo vuole solo mettere in prospettiva l’onore di cui Cristo ci ha resi degni, e a questo scopo ci paragona agli angeli, che sono inferiori a noi sotto questo aspetto! L’intera controversia può essere risolta se consideriamo il significato della testimonianza di Mosè, dove parla del seme della donna che schiaccia la testa del serpente (Gen 3:15). Perché questo non parla solo di Cristo, ma di tutto il genere umano. La vittoria di Cristo doveva essere data a noi, e quindi Dio proclamò in generale che i discendenti della donna avrebbero vinto il diavolo! Ma da questo deriva che Cristo è nato dalla razza umana, perché l’intenzione di Dio nel rivolgersi a Eva era di incoraggiarla a sperare con gioia, affinché non soccombesse al suo dolore!

II,13,3 Ma ci sono passi in cui Cristo è chiamato il "seme di Abramo" o il frutto dei lombi di Davide! Ma i falsi insegnanti li trattano coprendoli stupidamente e impudentemente con interpretazioni allegoriche. Ma se la parola "seme" aveva un significato allegorico, Paolo non l’ha certo nascosto, poiché spiega chiaramente senza immagine che non si tratta di molti semi di Abramo, cioè di molti salvatori, ma solo di uno, Cristo (Gal 3,16). L’affermazione che Gesù aveva il titolo di "Figlio di Davide" solo perché era stato promesso come tale e poi anche rivelato a suo tempo (Rom 1,3) è analogamente farsesca. Questo è sbagliato, perché Paolo aggiunge al titolo "Figlio di Davide": "secondo la carne"; si riferisce chiaramente alla natura. Così nel nono capitolo dei Romani lo chiama da un lato "Dio, benedetto in eterno" (9,5), e poi dall’altro osserva che egli discende dagli ebrei secondo la carne (9,5). Se non era veramente nato dal seme di Davide, che senso aveva dire che era il frutto del suo grembo? (2 Sam 7:12, Atti 2:30). Cosa dobbiamo fare allora con la promessa: "Ecco, dai tuoi lombi uscirà Colui che abiterà sul tuo trono per sempre"? (Sal 132:11). I falsi maestri si permettono anche un grande gioco sofistico con la genealogia di Cristo, come ci viene offerta in Matteo. Mat non elenca gli antenati di Maria, ma quelli di Giuseppe; ma è convinto di parlare di un fatto ben noto ovunque, e quindi si accontenta di dimostrare che Giuseppe proveniva dalla stirpe di Davide, poiché era generalmente noto che Maria proveniva dalla stessa famiglia. Luca insiste maggiormente su queste cose: vuole mostrare che la salvezza, come Cristo ce la porta, è comune a tutta l’umanità, perché Cristo, il suo portatore, discende da Adamo, il nostro comune antenato! Ammetto che la prova della figliolanza di Cristo con Davide si trova solo nel registro genealogico in quanto è nato dalla Vergine Maria. Ma i nostri nuovi Marcioniti sono troppo ansiosi di fare buon viso alla loro illusione e vogliono dimostrare che Cristo ha preso il suo corpo dal nulla: a questo scopo affermano nella loro folle arroganza che le donne non hanno seme – e così in questo modo invertono il corso della natura! Ma questa disputa non è di natura teologica, e le ragioni che essi adducono sono così banali che non meritano davvero alcuna confutazione; passerò quindi sopra alle questioni filosofiche e mediche e tratterò solo le obiezioni che essi pensano di poter giustificare con la Scrittura. Così dicono: Aronne e Jehoiada presero mogli della tribù di Giuda, quindi se le donne avevano un seme procreativo, le tribù d’Israele sarebbero state mescolate! Ma è ben noto che per l’ordine civile il seme maschile determina la successione dei sessi; ma questo vantaggio politico del sesso maschile non annulla affatto la mescolanza del seme femminile con quello maschile nella procreazione! Questa spiegazione si applica a tutti i registri genealogici. La Scrittura spesso menziona solo gli uomini nei registri dei sessi, ma dovremmo quindi dire che le donne non sono niente? Anche i bambini sanno che sono implicitamente nominati con gli uomini. Ecco perché si dice che le donne partoriscono "ai loro mariti"; perché il nome del sesso rimane sempre all’uomo. Ma come la posizione privilegiata del sesso maschile si esprime nel fatto che i figli sono di nascita nobile o non nobile secondo lo status del padre, così, d’altra parte, gli studiosi del diritto sostengono anche che nella servitù della gleba i figli seguono la madre. Da questo si vede che anche la prole del corpo proviene in parte dalla madre; per questo le madri sono chiamate "procreatrici" in tutti i popoli e in tutti i tempi. La legge di Dio ha ragione anche in questo senso; come è noto, essa proibisce il matrimonio di uno zio con sua nipote – e questo sarebbe sbagliato se non fosse per il fatto che c’è una relazione di sangue (consanguinitas)! Allora sarebbe anche lecito per un uomo prendere in moglie la sua sorella naturale, a condizione che entrambi abbiano la stessa madre, ma non lo stesso padre! Ammetto certamente che le donne hanno solo un potere passivo nella procreazione, ma d’altra parte sostengo anche che si dice lo stesso di loro come degli uomini. Non si dice che Cristo è nato da una donna, ma che è "nato da una donna" (Gal 4:4). (Gal 4,4). Ma c’è chi, tra i falsi maestri, si spinge fino all’insolenza di chiederci se pensiamo che Cristo sia nato dal seme mensile escreto della vergine. A queste persone pongo la contro-domanda, se non sia davvero nato con il sangue della madre – e allora devono ammetterlo! È chiaro da Mat che poiché Cristo è nato da Maria vergine, è anche nato dal suo seme; così come è detto che Boaz è nato da Rahab (Mat 1,5), dove si fa riferimento allo stesso processo. Mat non presenta la questione come se la Vergine Maria fosse un canale attraverso il quale Cristo è venuto a noi; ma distingue questa generazione miracolosa da quella ordinaria in quanto Gesù Cristo è nato da una vergine e dal seme di Davide! Infatti, come si dice che Isacco è nato da Abramo, Salomone da Davide e Giuseppe da Giacobbe, così si dice di lui che è nato da sua madre. Secondo questo punto di vista l’evangelista ha messo insieme la sua genealogia; poiché vuole dimostrare che Cristo discende da Davide, gli basta che sia nato da Maria. Ha quindi dato per scontato che Maria e Giuseppe fossero parenti di sangue!

II,13,4 L’insensatezza con cui vogliono caricarci è piena di abusi infantili. Così si dice: Per Cristo sarebbe una disgrazia, una macchia, se egli derivasse la sua discendenza dagli uomini; perché allora non potrebbe essere esentato dalla legge generale, che tiene ogni discendente di Adamo senza eccezione sotto il peccato. Ma questo nodo può essere facilmente sciolto dal confronto che sentiamo in Paolo. "Perciò, come per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e la morte per mezzo del peccato… così anche per mezzo di una sola giustizia la giustificazione della vita è venuta su tutti gli uomini" (Rom 5:12, 18). C’è anche l’altro accostamento: "Il primo uomo è della terra e terreno, l’altro uomo è il Signore dal cielo!" (1Cor 15:47). Perciò l’apostolo insegna anche in un altro luogo che Dio "mandò il suo Figlio a somiglianza di carne peccatrice" perché desse soddisfazione alla legge (Rom 8:3); ma lo esclude espressamente dalla generale sorte umana e mostra come egli fosse un vero uomo, ma senza peccato e depravazione! Contro questo si fa ora l’obiezione infantile: Se Cristo è dunque incontaminato da ogni macchia, se è nato dal seme di Maria per opera misteriosa dello Spirito Santo – allora il seme femminile non è impuro, ma solo quello dell’uomo! Ma noi non dichiariamo che Gesù Cristo è puro da ogni contaminazione perché è nato solo da sua madre, senza alcun contatto con un uomo, ma piuttosto perché lo Spirito Santo lo ha santificato in modo che fosse una generazione pura e senza macchia, come sarebbe stato prima della caduta di Adamo! Ma in ogni circostanza teniamo fermo questo: Quando le Scritture ci parlano dell’assenza di peccato di Cristo, pensano alla vera natura umana; perché sarebbe superfluo dire che Dio è senza peccato! Né la "santificazione" di cui sentiamo parlare in Giov 17 sarebbe adatta alla natura divina. A proposito, non diamo per scontato che il seme di Adamo sia di due tipi, quando Cristo, che è anche discendente da lui, non è stato contaminato in alcun modo. Perché la procreazione umana non è affatto impura o corrotta di per sé, ma lo è diventata attraverso la caduta! Non è quindi sorprendente che Cristo, che doveva ripristinare la purezza originale, sia stato esente dalla corruzione generale. Certo, anche qui ci viene rimproverata l’assurdità che il Verbo eterno di Dio abbia preso la carne, e quindi sia stato rinchiuso nell’angusta, terrena casa di schiavitù del corpo; ma questa è davvero pura impudenza: perché il Verbo, nell’immensità del Suo essere, è davvero cresciuto insieme alla natura dell’uomo in una persona, ma non è rinchiuso in essa! Questo è il grande miracolo: il Figlio di Dio è disceso dal cielo – e tuttavia non l’ha lasciato; è nato dalla Vergine, ha camminato sulla terra, sì, è stato appeso con la sua volontà alla croce – e tuttavia ha sempre riempito il mondo intero, come in principio!


Capitolo quattordici

Come le due nature formano la persona del Mediatore.

II,14,1 Quando si dice: "il Verbo si fece carne" – questo non deve essere inteso come se il Verbo fosse trasformato in carne o mescolato alla carne. Piuttosto, è successo perché dal grembo della Vergine doveva vedere per sé un tempio in cui abitare, perché Lui, il Figlio di Dio, è diventato il Figlio dell’Uomo, e questo non attraverso la mescolanza dell’essere fondamentale, ma attraverso l’unità della Persona. Ma questa unione e unità della Divinità con la natura umana è – come noi sosteniamo – di un tipo tale che ogni natura conserva perfettamente ciò che le appartiene, e tuttavia da queste due è diventato l’unico Cristo. Se dovessimo nominare qualcosa che possa essere paragonato a questo sublime mistero, potremmo considerare al meglio l’uomo stesso: anch’egli è composto da due esseri fondamentali; e tuttavia nessuno dei due è così mescolato all’altro da perdere la sua individualità! Perché l’anima non è il corpo e il corpo non è l’anima. Perciò, si possono dire molte cose dell’anima che non possono in alcun modo essere dette del corpo, e ancora molte cose del corpo che in nessun caso si applicano all’anima; anche di tutto l’uomo si possono dire molte cose che non possono essere applicate né alla sola anima, né al corpo senza spostare il contenuto! Infine, si possono trasferire qualità dell’anima al corpo e qualità del corpo all’anima – eppure l’essere umano, composto da corpo e anima, è uno e non diversi. Se si parla dell’essere umano in questo modo, risulta da un lato che è una persona composta da due parti collegate, ma che dall’altro lato ci sono due nature diverse che formano quella persona. Anche la Scrittura parla di Cristo in questo modo. Da un lato, gli attribuisce ciò che, per la sua stessa natura, deve necessariamente essere legato alla natura umana; dall’altro, gli attribuisce anche ciò che è chiaramente peculiare alla Divinità, e spesso anche ciò che è comune alle due nature, ma che non appartiene a nessuna delle due in modo speciale! Di questa unione di nature che ha luogo in Cristo, la Scrittura parla con scioltezza in modo tale da assegnare la peculiarità dell’una anche all’altra; questo modo di insegnare le cose è quello che gli antichi maestri della Chiesa chiamano "mutua partecipazione agli attributi" (idiomaton koinonia, communicatio idiomatum).

II,14,2 Queste considerazioni, tuttavia, avrebbero poca validità se non ci fossero chiari passaggi nella Sacra Scrittura che provano che queste proposizioni non sono state inventate dall’uomo. Cristo dice di se stesso: "Prima che Abramo fosse, io sono" (Giov 8:58) – questo ovviamente non si adatta in alcun modo alla natura umana. So molto bene, naturalmente, quali sciocchezze i falsi spiriti tirano fuori qui per interpretare male questo passaggio: dicono che Cristo era qui prima di tutti i tempi, perché era già conosciuto come il Redentore nel consiglio del Padre e poi anche nella mente dei pii. Ma egli stesso fa una chiara distinzione tra il giorno della sua rivelazione e il suo essere ed essenza eterna, e attribuisce espressamente a se stesso il dominio che esiste dal principio, il che lo eleva molto al di sopra di Abramo. Paolo lo chiama "il primogenito prima di ogni creatura", che era prima di ogni cosa e "per mezzo del quale tutte le cose sono state create" (Col 1,15 s.). Lui stesso parla della "chiarezza che avevo con voi prima che il mondo fosse. ." (Giov 17:5). Egli dichiara: "Il Padre mio opera finora e anch’io opero" (Giov 5:17). Anche queste affermazioni non possono riferirsi all’uomo più della prima menzionata; dobbiamo quindi certamente attribuirle alla Divinità in modo speciale. Ma d’altra parte Egli è chiamato il "servo" del Padre (Isa 42:1 e più); leggiamo: "E aumentava in età, sapienza e grazia presso Dio e presso gli uomini" (Luca 2:52). Lui stesso dice: "Non cerco la mia gloria…" (Giov 8,50). Secondo la sua stessa dichiarazione, egli non conosce l’ultimo giorno (Mar 13,32). Egli dichiara: "Le parole che dico, non le dico da me stesso…". (Giov 14:10). Né fa la sua propria volontà (Giov 6,38). È stato visto e toccato (Luca 24,39). Tutto questo appartiene solo alla natura umana! Perché come Dio non può crescere, come Dio agisce in tutto da sé, come Dio nulla gli è nascosto, come Dio fa sempre la sua propria volontà, come Dio non è visibile, non è palpabile! Eppure non fa queste affermazioni a partire dalla sua sola natura umana (separata dalla sua "persona"), ma le riferisce a se stesso (come "persona"), poiché appartengono alla sua persona mediatrice! Troviamo la "mutua condivisione degli attributi" per esempio nella parola di Paolo: "(La chiesa) che egli (Dio!) ha acquistato con il proprio sangue!". (Atti 20:28), o anche nella sua frase: "Altrimenti non avrebbero crocifisso il Signore della gloria!" (1Cor 2:8). Questo è anche il caso quando Giov parla della "parola di vita" che "le nostre mani hanno toccato" (1Gio 1:1). (1Gio 1:1). Perché Dio certamente non ha sangue, certamente non è capace di soffrire, non è toccato con le mani. Ma Cristo, che era vero Dio e vero uomo, ha versato il suo sangue per noi sulla croce, e quindi ciò che ha compiuto secondo la sua natura umana è allo stesso tempo detto anche della natura divina, certamente in modo inautentico, ma veramente non senza ragione! È simile al passo 1Gio 3:16, dove sentiamo che Dio "ha dato la sua vita per noi". Anche qui, una peculiarità della natura umana è data contemporaneamente all’altra. D’altra parte, Cristo dice durante il suo cammino sulla terra: "E nessuno sale al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, cioè il Figlio dell’uomo che è nei cieli!" (Giov 3:13). Non era certamente in cielo in quel momento dopo l’uomo e nella sua carne, che aveva assunto. Ma Egli era Dio e uomo allo stesso tempo – e a causa dell’unità e della reciproca comunanza delle nature, poteva attribuire all’uno ciò che in realtà apparteneva all’altro!

II,14,3 Ma la natura di Cristo è descritta più chiaramente nei passi che parlano di entrambe le nature allo stesso tempo. Questi si trovano in gran numero, specialmente nel Vangelo di Giovanni. Per esempio, non può essere attribuito esclusivamente alla Divinità, né in modo speciale all’umanità, ma deve essere attribuito a entrambi allo stesso tempo, quando si dice che Cristo ha ricevuto dal Padre l’autorità di perdonare i peccati (Giov 1,29; Mat 9,6), o l’autorità di risuscitare chi vuole (Giov 5,21), o anche di distribuire giustizia, santità e beatitudine, o anche che è stato istituito come giudice sui vivi e sui morti, perché sia onorato come il Padre (Giov 5,21 ss.). Nella stessa direzione va quando è chiamato "la luce del mondo" (Giov 8,12; 9,5), il "buon pastore", l’"unica porta" (Giov 10,9.12) o anche la "vite giusta" (Giov 15,1). Perché queste erano le prerogative speciali di cui il Figlio di Dio fu dotato quando si rivelò nella carne; Egli le aveva esercitate insieme al Padre anche prima dell’inizio del mondo, sebbene in un modo e in un rispetto diverso, e queste prerogative non avrebbero mai potuto essere concesse a un uomo che non era stato altro che un uomo! Nello stesso senso, si dovrà capire quando Paolo scrive che Cristo consegnerà "il regno a Dio e al Padre" dopo il giudizio (1Cor 15:24). Il regno del Figlio di Dio certamente non ha inizio e non può avere fine. Ma Egli si nascose sotto l’umiltà della carne, svuotò se stesso e prese la forma di servo, depose tutta la gloria della sua maestà divina e fu obbediente al Padre fino alla fine (Fili 2,8). 2:9) ed esaltato al dominio supremo (Fili 2:10), così che ora ogni ginocchio si inchinerà a Lui; e così Egli deporrà un giorno il suo nome glorioso e la sua corona d’onore, tutto ciò che il Padre gli ha dato, anche ai piedi del Padre, "affinché Dio sia tutto in tutti" (1Cor 15:28). Perché a quale scopo il Padre gli ha dato potere e dominio, se non per governarci attraverso di lui? Allo stesso modo, quando la Scrittura ci dice che Egli è seduto alla destra del Padre (Rom 8:34 e altri), deve essere compreso. Ma questo dura solo per un tempo, cioè fino a quando ci è permesso di vedere Dio presente. Qui alcuni degli antichi commisero un errore imperdonabile: non prestarono la giusta attenzione alla posizione di Cristo come mediatore e quindi oscurarono il significato originale di quasi tutto l’insegnamento di Cristo così come ci affronta il Vangelo di Giovanni, impigliandosi in molti trabocchetti. Teniamola quindi come la chiave per la giusta comprensione di queste cose: Le affermazioni riguardanti l’ufficio di Mediatore non devono mai essere riferite alla natura divina o anche alla natura umana da sola. Cristo, dunque, regnerà fino a quando verrà come giudice del mondo, cioè ci unisce al Padre secondo la misura della nostra debolezza. Ma quando saremo diventati partecipi della gloria celeste, quando vedremo Dio come Egli è, allora Cristo avrà finalmente completato il suo ufficio mediatorio, allora cesserà di essere l’emissario del Padre, allora riprenderà possesso della gloria che aveva con il Padre prima della fondazione del mondo! Solo in questo senso il nome "Signore" si adatta alla persona di Cristo, cioè solo nella misura in cui egli assume una posizione mediatrice tra Dio e noi. È a questo che appartengono le parole di Paolo: "C’è un solo Dio, dal quale sono tutte le cose, e un solo Signore, per mezzo del quale sono tutte le cose! (1Cor 8:6); perché il Signore riceve il dominio temporale dal Padre, fino a quando possiamo vedere la sua divina maestà faccia a faccia; poi restituisce il suo ufficio di dominio al Padre; ma questo non significa una diminuzione della sua gloria, no, allora risplende ancora più radiosamente! Allora anche Dio non è più il capo di Cristo; perché la divinità di Cristo, che ora è ancora velata per noi come sotto una tenda, allora risplende nel suo proprio splendore!

II,14,4 Se il lettore applica bene queste osservazioni, molti nodi intricati vengono così sciolti. È davvero strano come persone poco colte e anche un po’ sapienti si offendano per queste espressioni, che evidentemente si riferiscono a Cristo, ma che non sembrano loro adatte né alla Sua Deità né alla Sua umanità: non fanno attenzione al fatto che queste denominazioni si riferiscono alla Sua Persona (indivisibile), nella quale si è rivelato come Dio e Uomo, e al Suo ufficio mediatorio. Si può sempre percepire come queste denominazioni individuali suonino bene insieme, se solo trovano un interprete comprensivo che cerca attraverso questi alti misteri con la dovuta riverenza (confrontare Augustin, Handbüchlein an Laurentius, 36). Ma non c’è niente che gli spiriti pazzi e fanatici non gettino nella confusione! Prendono le caratteristiche della natura umana – e vogliono negare la divinità con essa, e viceversa usano le caratteristiche della natura divina per negare la vera umanità di Cristo! E ciò che si dice di entrambe le nature allo stesso tempo, e che quindi non può essere attribuito a una sola, lo usano per negare entrambe! Ma questo non significa altro che questo: negano l’umanità di Cristo perché è Dio, e gli tolgono la divinità perché è uomo: così, in definitiva, non è né Dio né uomo, perché è uomo e Dio! Ma noi riteniamo che Cristo, poiché è Dio e uomo, e le due nature sono unite ma non mescolate in lui, sia il nostro Signore e il Figlio di Dio – anche secondo la sua natura umana, naturalmente, non per questo! Perciò non vogliamo avere nulla a che fare con l’errore di Nestorio: egli voleva separare le due nature l’una dall’altra invece di limitarsi a distinguerle, e così arrivò all’idea delirante di un, per così dire, doppio Cristo. Le Sacre Scritture si oppongono chiaramente a questo, perché Colui che è nato dalla Vergine Maria è chiamato il Figlio di Dio (Luca 1:32), e la Madre è chiamata la Madre di nostro Signore (Luca 1:43). Dobbiamo anche guardarci dall’illusione di Eutyche: altrimenti ci sforzeremmo di esprimere l’unità della persona nel modo più chiaro possibile, ma così facendo priveremmo entrambe le nature della loro distinzione. Abbiamo già citato un gran numero di passi scritturali in cui si distingue la divinità di Cristo dalla sua umanità, e ce ne sono altri dappertutto nella Scrittura, così che a questo proposito è possibile zittire anche le persone più litigiose. Tra poco aggiungerò anche alcune cose che possono distruggere meglio questo parto dell’immaginazione; per il momento un solo passaggio ci può bastare: Cristo chiama il suo corpo un tempio (Giov 2:19) – non avrebbe potuto dirlo affatto se la divinità non avesse avuto la sua dimora solo in lui (distinta dal corpo)! Era giusto che Nestorio fosse condannato nel sinodo di Efeso, e poi più tardi anche Eutyches nei sinodi di Costantinopoli e Calcedonia; perché non si devono mescolare né separare le due nature in Cristo.

II,14,5 Ma ai nostri tempi è apparso un mostro altrettanto pericoloso, cioè Michael Servet. Sostituisce il Figlio di Dio con un’immagine che dovrebbe essere composta dall’essenza di Dio, lo Spirito, la carne e tre elementi increati! Prima di tutto, egli afferma che Cristo è il Figlio di Dio solo perché e nella misura in cui è nato dalla Vergine Maria attraverso lo Spirito Santo. Lo scopo di questa proposta ingannevole è questo: vuole mettere da parte la distinzione delle due nature, e allora Cristo dovrebbe essere qualcosa che è mescolato insieme da Dio e dall’uomo, ma non sarebbe né Dio né uomo! Soprattutto, con tutto il suo procedimento vuole arrivare alla proposizione che Dio, prima della rivelazione di Cristo nella carne, aveva portato in sé solo delle immagini-ombra, e che queste immagini-ombra raggiunsero la verità e l’effetto solo quando iniziò quella "Parola" che Dio aveva scelto per questo onore di essere il Figlio di Dio! Ma ora sosteniamo che il Mediatore, nato dalla Vergine Maria, è veramente il Figlio di Dio. Né l’uomo Cristo avrebbe potuto essere lo specchio dell’inconcepibile grazia di Dio, se non fosse stato dotato della dignità in virtù della quale era e fu chiamato l’unigenito Figlio di Dio! Ma a questo proposito è assolutamente necessario aderire alla forma di espressione abituale nella Chiesa: Cristo è chiamato Figlio di Dio perché, come Verbo generato dal Padre prima di tutti i tempi, ha assunto la natura umana in unione personale. Il termine "unione personale" (unio hypostatica) era usato dagli antichi perché si riferisce all’unione di due nature in una sola persona. Il termine fu usato per allontanare l’illusione di Nestorio che il Figlio di Dio abitasse nella carne in modo tale da non diventare egli stesso uomo. Ora Servet ci rimprovera di immaginare un duplice Figlio di Dio, perché diciamo che il Verbo eterno era già il Figlio di Dio prima che avvenisse l’Incarnazione – eppure stiamo solo dicendo che si è rivelato nella carne! Se Egli era già Dio prima di diventare uomo, non è diventato un nuovo Dio con l’Incarnazione! Né è assurdo dire che il Figlio di Dio, che era certamente già il Figlio per generazione eterna, è ora apparso nella carne. Lo dimostrano anche le parole dell’angelo a Maria: "Il Santo che nascerà da te sarà chiamato Figlio di Dio" (Luca 1,35). Questo significa che il nome del Figlio, che era un po’ nascosto sotto la legge, deve ora diventare molto famoso e universalmente conosciuto! Anche le parole di Paolo sono vere: "Poiché siamo figli di Dio per mezzo di Cristo, gridiamo liberamente e con fiducia: ’Abba, Padre caro’" (Rom 8:15). Ma i santi padri non erano anch’essi annoverati tra i figli di Dio nei tempi antichi? Certamente, facevano affidamento sui loro diritti filiali quando invocavano Dio come loro Padre! Ma da quando il Figlio unigenito di Dio è venuto nel mondo, questa paternità di Dio è diventata più chiaramente conosciuta, e Paolo considera questo come uno dei privilegi speciali che il regno di Cristo ci porta! Ma naturalmente deve essere notato: Dio non si è mai mostrato come Padre - agli angeli o agli uomini! – Dio non si è mai mostrato come Padre – agli angeli o agli uomini – ma solo in vista del Suo Figlio unigenito! In particolare, gli uomini, che sono detestabili per Dio a causa della loro ingiustizia, sono figli di Dio solo attraverso l’accettazione benevola; perché Cristo è per natura il Figlio di Dio! Ora Servet obietta senza ragione che questa graziosa accettazione dipende dal fatto che Dio abbia deciso in se stesso di avere un Figlio; ma qui non si tratta degli esempi – cioè della rappresentazione esteriore dell’espiazione nel sacrificio animale! È una questione della materia stessa: e qui vale la proposizione che i padri non avrebbero potuto veramente diventare figli di Dio se la loro adozione nella filiazione non fosse stata fondata nel loro capo; se poi si negasse al capo ciò che i membri possiedono tutti (cioè la reale filiazione), sarebbe semplicemente insensato! Sì, vado anche oltre: la Scrittura chiama anche gli angeli figli di Dio (Sal 82,6); questa loro alta dignità non dipendeva dalla futura redenzione; eppure Cristo doveva essere posto davanti a loro per portarli in comunione con il Padre. Lo ripeterò tra poco e lo applicherò agli uomini. Gli angeli e gli uomini erano già stati creati nella creazione originale perché Dio fosse il loro Padre comune – perché Paolo ha sicuramente ragione quando dice che Cristo è sempre stato il capo, il "primogenito prima di tutte le creature", il detentore del dominio su tutti (Col 1:15)! Ma se questo è vero, allora credo di essere anche pienamente giustificato nel concludere che Cristo era il Figlio di Dio anche prima della creazione del mondo!!

II,14,6 Se – se devo esprimermi in questo modo – la figliolanza di Cristo ha avuto il suo inizio solo con la sua rivelazione nella carne, allora da questo dovrebbe seguire che Egli è stato Figlio (di Dio) anche per quanto riguarda la sua natura umana. Servet e altri spiriti dello sciame sono dell’opinione che Cristo, apparso nella carne, sia il Figlio di Dio, perché senza la carne non potrebbe portare questo nome. Ma ora devono dirmi se è il Figlio secondo entrambe le nature e sotto entrambi gli aspetti. Questo è quello che dicono – ma Paolo insegna tutt’altro! Da parte mia, ammetto che Cristo nella sua forma umana è chiamato Figlio; ma questo non nel senso in cui i credenti portano questo titolo, cioè per adozione e grazia, ma egli è veramente e per natura il Figlio e quindi di una posizione unica, è il Figlio unico, e questo lo pone al di sopra di tutti gli altri! Dio conferisce certamente a noi, che siamo nati di nuovo a vita nuova, il nome di "figli di Dio", ma il vero e unico Figlio è solo Cristo. Ma egli ha una dignità unica in una così grande moltitudine di fratelli solo perché possiede naturalmente ciò che noi riceviamo in dono! Questo onore, tuttavia, si riferisce a tutta la persona del Mediatore: colui che è nato dalla Vergine Maria, che ha dato se stesso sulla croce come sacrificio al Padre, è in verità e nel vero senso il Figlio di Dio. Egli è il Figlio di Dio in virtù della Sua divinità, come insegna chiaramente Paolo: "Paolo … messo a parte per predicare il vangelo di Dio, che Egli ha promesso in anticipo … del suo Figlio, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, e potentemente dimostrato di essere il Figlio di Dio …" (Rom 1:1-4). (Rom 1,1-4; in selezione). Quindi lo chiama esplicitamente "Figlio di Davide secondo la carne" – e poi soprattutto dichiara che è "provato che è il Figlio di Dio". Con questo vuole solo insinuare che questa dignità dipende da qualcos’altro che la carne stessa! Perché nello stesso senso in cui dice che Cristo soffrì "nella debolezza" ma fu risuscitato "per la potenza di Dio" (2Cor 13:4; Calvino dice: "dello Spirito"), qui fa anche una distinzione tra le due nature. Proprio come Cristo – gli avversari devono confessarci questo! – Cristo ha ricevuto da sua madre ciò che gli dà il diritto di essere chiamato Figlio di Davide, così ha ricevuto dal Padre quella dignità per cui è chiamato Figlio di Dio, e questa dignità è ben distinta dalla sua natura umana. Così le Sacre Scritture gli danno un doppio nome: lo chiamano talvolta Figlio di Dio, talvolta Figlio dell’Uomo. Non si può discutere sulla designazione "Figlio dell’uomo": secondo l’uso ebraico, è chiamato "Figlio dell’uomo" perché discende da Adamo. D’altra parte, io sostengo: egli porta il titolo di "Figlio di Dio" per la sua divinità, il suo essere eterno; perché bisogna rapportare l’espressione "Figlio di Dio" alla sua divinità come noi rapportiamo la denominazione "Figlio dell’uomo" alla sua umanità! Dobbiamo anche ricordare il passo della Lettera ai Romani: lì sentiamo che colui che è nato dal seme di Davide secondo la carne è stato dimostrato essere il Figlio di Dio secondo la potenza di Dio; ma questo è inteso esattamente come leggiamo altrove: "… dal quale è venuto Cristo secondo la carne, che è Dio, benedetto nei secoli dei secoli" (Rom 9:5). (Rom 9,5). Così in entrambi i passaggi (Rom 1 e Rom 9) viene fatta una chiara distinzione tra le due nature. Ma come si può negare che Cristo sia il Figlio di Dio secondo la sua divinità e il Figlio dell’uomo secondo la sua umanità?

II,14,7 Ma i nostri avversari cercano con grande clamore di difendere il loro errore. Infatti, essi indicano innanzitutto la frase che Dio "non ha risparmiato il proprio Figlio…". (Rom 8,32). Fanno anche notare che l’angelo ha dato l’istruzione di chiamare il nato da donna "Figlio dell’Altissimo". Ma affinché non diventino arroganti per un’obiezione così infondata, consideriamo un po’ insieme a cosa serve questa conclusione. Se è giusto dire che il Figlio di Dio è iniziato solo con il concepimento, perché colui che è stato concepito è stato chiamato "Figlio", allora ne consegue che egli è anche solo Parola da quando si è rivelato nella carne – come Giov parla anche della "Parola di vita" che le sue "mani hanno toccato"! (1Gio 1:1). Ma ora vi ricordo la parola del profeta: "E tu, Betlemme di Giuda, che sei piccola tra le migliaia di Giuda, da te uscirà per me il duca che sarà sovrano sul mio popolo Israele, che è da sempre e in eterno" (Mic 5:1). (Mic 5:1). Cosa vogliono dire sull’interpretazione di questo passaggio se vogliono attenersi alla loro argomentazione di cui sopra? Ho già chiarito che noi, da parte nostra, non pensiamo di essere d’accordo con Nestorio, che ha inventato un duplice Cristo. Perché noi insegniamo che Cristo ci rende figli di Dio attraverso l’unione fraterna con se stesso, perché nella carne, che ha preso da noi uomini, era l’unigenito Figlio di Dio. Per questo anche Agostino chiama giustamente una prova gloriosa della grazia speciale di Dio il fatto che Cristo, come uomo, abbia ricevuto un onore che non poteva guadagnare come uomo. Perché Cristo era già adornato della gloriosa dignità di essere il Figlio di Dio fin dal grembo di sua madre. Ma anche così, questa unità di persona non significa una mescolanza che priverebbe la divinità di Cristo del suo proprio essere! Perché il fatto che il Verbo eterno di Dio, da un lato, e Cristo, in cui le due nature sono unite in una sola persona, dall’altro, portino il titolo di "Figlio di Dio" sotto aspetti diversi, è altrettanto assurdo quanto il fatto che egli sia chiamato a volte Figlio di Dio, a volte Figlio dell’Uomo, a seconda della relazione del momento! Servet porta un altro abuso, ma non importa neanche a noi: dice che Cristo non è mai stato chiamato "Figlio di Dio" prima della sua apparizione nella carne, se non in un discorso figurato. Certamente, sotto la legge c’erano solo oscuri indizi di lui; ma lo abbiamo già dimostrato: Egli era Dio eterno solo perché era il Verbo generato dal Padre eterno, e questo nome (Figlio di Dio, Dio eterno) spetta solo alla Persona del Mediatore, che ha assunto, perché è Dio, manifestato nella carne; né Dio sarebbe chiamato Padre fin dal principio, se non fosse per la relazione reciproca con il Figlio, dal quale ogni parentela e paternità procede in cielo e in terra (Efes 3,15). Da ciò deriva immediatamente che Egli era il Figlio di Dio anche sotto la Legge e i Profeti, quando il nome "Figlio di Dio" non era ancora universalmente conosciuto nella comunità. Ma se la disputa riguarda solo il nome "Figlio di Dio", vorrei anche riferirmi a Salomone: egli parla dell’incommensurabile maestà di Dio e poi sostiene che il Figlio di Dio è altrettanto incomprensibile quanto Dio stesso: "Dimmi il suo nome, se puoi, o dimmi il nome del suo figlio…" (Prov 30:4; non il testo di Lutero). So bene che le persone polemiche non troveranno sufficiente questa testimonianza scritturale; né io voglio basarmi particolarmente su di essa; ma essa dimostra sufficientemente una cosa: le persone che vogliono considerare Cristo il Figlio di Dio solo in quanto si è fatto uomo sono dei blasfemi maligni! Anche i più antichi scrittori ecclesiastici hanno espresso unanimemente e chiaramente la dottrina che noi sosteniamo; e quindi è ridicolo e impertinente se uno osa oppormi Ireneo o Tertulliano, entrambi i quali testimoniano chiaramente che colui che poi apparve visibilmente nella carne era già prima invisibilmente il Figlio di Dio.

II,14,8 Così Servet ha accumulato orribili mostruosità l’una sull’altra, e forse non tutti i suoi colleghi pensatori sottoscriveranno tutto quello che dice. Ma se queste persone, che vogliono riconoscere il Figlio di Dio solo nell’incarnato, sono costrette a fare affermazioni più precise, ammetteranno immediatamente che Cristo è il Figlio di Dio solo perché è stato concepito dallo Spirito Santo nel corpo della Vergine Maria. In questo modo, i manichei sostenevano anche nell’antichità che l’uomo riceve la sua anima da Dio lasciandogliela passare: perché leggono che Dio diede ad Adamo "un alito vivente nelle sue narici" (Gen 2,7). Intendono allora il nome "Figlio" in modo così preciso che non lasciano più alcuna distinzione tra le "nature", ma sbraitano in confusione che l’uomo Cristo è il Figlio di Dio, perché è nato da Dio secondo la sua natura umana. Così l’eterno generarsi della sapienza, di cui parla Salomone (Isa Sir. 24,14), è rifiutato, e la divinità del Mediatore è lasciata inosservata – o un fantasma prende il posto dell’uomo! Varrebbe la pena di confutare qui altre grandi delusioni di Servet, con le quali egli ingannò se stesso e gli altri – solo questo esempio dovrebbe essere un avvertimento per il pio lettore a non lasciarsi portare via dalla sobrietà e dalla modestia nell’insegnamento! Ma credo che qui sarebbe superfluo, perché ho scritto un libro speciale su di esso. L’insegnamento di Servet ha al suo centro la proposizione che il Figlio di Dio era in principio un’idea, un pensiero; e che già allora era destinato a diventare un uomo che ora sarebbe stato a immagine di Dio. Come "Parola" di Dio, Servet riconosce quindi solo un’apparenza esteriore. Servet intende la generazione del Figlio in questo modo: Dio ha generato fin dall’inizio la volontà di generare il Figlio, e questa volontà si è poi effettivamente dimostrata nella creatura stessa. In questo modo, Servet mescola spirito e parola, perché si suppone che Dio (secondo la sua opinione) abbia affondato la parola invisibile e lo spirito nella carne e nell’anima. Così, nel suo caso, la concezione figurativa di Cristo prende il posto della procreazione; naturalmente, secondo lui, questo Figlio, che era allora solo un’immagine in ombra, è stato infine generato attraverso la Parola – che egli pensa come il "seme"! – è stato generato. Da questo ne consegue che anche i maiali e i cani sono figli di Dio, perché si suppone che anche loro siano stati creati dal seme originale della Parola di Dio! Perché egli permette effettivamente che Cristo sia formato da tre materiali di base increati – il che per lui significa tanto quanto essere generato dall’essenza di Dio – ma Cristo è il primogenito prima di tutte le creature solo nel senso che una certa divinità essenziale appartiene anche alle pietre – solo secondo il loro proprio grado! Egli vuole naturalmente evitare l’impressione di negare ora a Cristo la sua divinità; ecco perché afferma che la carne di Cristo è di una sola essenza con Dio; o dice anche che il Verbo si è fatto uomo trasformando la carne in Dio! Secondo i suoi presupposti, può considerare Cristo come Figlio di Dio solo se la sua carne proviene dall’essenza di Dio e si trasforma in essenza divina – ma in questo modo annulla la stessa persona eterna del Verbo e ci strappa il Figlio di Davide che ci è stato promesso come Redentore. Lo ripete spesso: il Figlio è effettivamente nato da Dio, cioè nella conoscenza e nell’elezione di Dio – ma poi finalmente si è fatto uomo da quella sostanza che in principio era visibile con Dio nei tre elementi, poi è apparso in quella prima, originale luce del mondo così come nella colonna di nuvola e fuoco! Sarebbe eccessivo se ora volessi mostrare quanto follemente si contraddice a volte. In ogni caso, il lettore avrà capito da questo resoconto sommario come ogni speranza di salvezza sia distrutta dall’ambigua astuzia di quest’uomo impuro. Perché se la carne stessa è la Divinità, non è più il suo tempio. Nessuno può essere il nostro Redentore se non colui che è della stirpe di Abramo e di Davide, e che si è fatto veramente uomo secondo la carne. È dunque sbagliato che Servet si riferisca con tanto zelo alle parole di Giovanni: "Il Verbo si fece carne…", poiché questa parola, che si oppone così acutamente all’errore di Nestorio, d’altra parte non incoraggia l’empia fantasmagoria di Eutyches: l’evangelista voleva solo sottolineare l’unità della persona nelle due nature!


Capitolo quindici

Se vogliamo sapere cosa Cristo è stato mandato dal Padre a fare e cosa ci ha portato, dobbiamo prima di tutto considerare il suo triplice ufficio, quello profetico, quello regale e quello sacerdotale.

II,15,1 Agostino sottolinea giustamente che gli eretici vogliono predicare il nome di Cristo, ma non stanno sullo stesso fondamento dei fedeli; questo fondamento appartiene solo alla Chiesa; infatti, se si considera attentamente tutto ciò che si intende quando si parla di Cristo, Cristo vive con loro solo di nome, ma non di fatto (Manuale a Laurentius, 5). Così è con i papisti oggi. Certamente parlano sempre del "Figlio di Dio", il "Salvatore del mondo"; ma si accontentano del nome vuoto, ma gli tolgono tutto il potere e la dignità, ed è per questo che la parola di Paolo si applica veramente a loro: non "tengono il capo" (Col 2:19). Se, dunque, la fede deve davvero trovare in Cristo il solido fondamento di tutta la salvezza, se deve riposare interamente su di Lui, deve valere il principio: l’ufficio che il Padre gli ha affidato comprende tre compiti. Perché egli è posto davanti a noi come profeta, re e sacerdote. Ma sarebbe poco utile aggrapparsi solo a questi tre termini: bisogna anche sapere cosa significano e a cosa servono. Infatti vengono pronunciate anche dai papisti, ma senza coinvolgimento interiore e senza grandi frutti: lì, appunto, non si ha idea di cosa significhi ognuna di queste lodi. Come ho già detto, Dio ha mandato un profeta dopo l’altro in successione ininterrotta, e non ha mai lasciato il suo popolo senza un insegnamento salvifico, non gli ha mai negato ciò che era sufficiente per la salvezza. Tuttavia, i pii sono sempre stati certi che la piena luce della conoscenza poteva essere sperata solo dalla venuta del Messia. Questa convinzione raggiunse persino i Samaritani, che non avevano mai conosciuto il vero culto di Dio. Questo è evidente dalle parole della donna al pozzo di Giacobbe: "Quando il Messia verrà, ci insegnerà ogni cosa" (Giov 4:25). Gli ebrei, tuttavia, non se lo sono semplicemente inventato da soli, ma lo sapevano da chiare parole di rivelazione da parte di Dio, e quindi ci hanno creduto. Le parole di Isa sono di particolare importanza: "Ecco, io l’ho posto come testimone per le genti, come principe e sovrano per le nazioni" (Isa 55,4). Così egli è anche chiamato in anticipo il messaggero e l’interprete del grande consiglio di Dio (Isa 9:5). Anche l’apostolo si esprime in modo simile: loda la perfezione dell’insegnamento del vangelo e dice: "Dopo che Dio ha parlato ai padri per mezzo dei profeti talvolta e in molti modi in passato, ha parlato a noi nell’ultimo di questi giorni per mezzo del suo Figlio…" (Eb 1,1 s.). L’ufficio comune dei profeti, tuttavia, era quello di mantenere la chiesa in attesa e allo stesso tempo di rafforzarla fino alla venuta del Mediatore; e così i fedeli al tempo della dispersione si lamentarono che questo beneficio ordinato da Dio era stato loro tolto: "I nostri segni non li vediamo, e nessun profeta predica più, e nessuno di noi sa per quanto tempo!" (Sal 74:9). Ma mentre la venuta di Cristo si avvicinava, fu dato a Daniele un tempo in cui le visioni e il profeta stesso avrebbero dovuto trovare il loro sigillo (Dan 9:24). Questo fu fatto non solo per salvaguardare la reputazione della profezia in questione, ma anche perché i fedeli potessero pazientemente fare a meno dei profeti per un certo tempo, nella certezza che l’adempimento di tutte le rivelazioni e la decisione erano ormai alle porte!

II,15,2 Ora dobbiamo considerare ulteriormente che il nome "Cristo", l’"Unto", comprende tutti questi tre uffici. Perché sotto la legge, come sappiamo, sia i profeti che i sacerdoti che i re erano unti con l’olio santo. Ecco perché il nome Messia (= l’Unto = Cristo) era anche legato al Mediatore promesso. Sono dell’opinione – come ho già spiegato – che questa designazione "Messia" era intesa in modo speciale per l’ufficio regale; ma anche l’unzione profetica e sacerdotale conservano la loro dignità e non devono essere trascurate da noi. L’unzione profetica di Cristo è menzionata in Isaia: "Lo Spirito del Signore è su di me, perché mi ha consacrato con l’unzione… per predicare agli afflitti, per fasciare i cuori spezzati, per proclamare la libertà ai prigionieri… per proclamare un anno piacevole del Signore…" (Isa 61:1 s.). Vediamo che è stato unto dallo Spirito per essere un araldo e un testimone della grazia del Padre; e questo ufficio di testimone non era il solito: il profeta si distingue dagli altri maestri, con il cui ufficio ha qualcosa in comune. D’altra parte, dobbiamo fare attenzione: Cristo non ricevette questa unzione solo per se stesso, in modo da poter esercitare correttamente l’ufficio di maestro, ma per tutto il suo corpo (la congregazione), in modo che nella perpetua proclamazione del vangelo la potenza dello Spirito potesse operare di conseguenza. È abbastanza certo che attraverso l’insegnamento perfetto che egli ha portato, tutte le profezie sono finite; chi, quindi, non vuole essere soddisfatto del vangelo e vi aggiunge ogni sorta di cose strane, diminuisce la reputazione di Cristo e del suo insegnamento. Perché la voce che gli venne dal cielo, dicendo: "Questo è il mio Figlio prediletto, lui dovete ascoltare!" (Mat 17,5 c s. Mat 3,17), questa voce lo innalzava infinitamente al di sopra di tutti gli altri! Poi, naturalmente, questa unzione dalla testa arrivò anche alle membra, come aveva predetto Gioele: "E i vostri figli profetizzeranno, e le vostre figlie avranno visioni" (Jo. 3:1; non testo di Lutero). Ha circa lo stesso significato quando Paolo scrive che Cristo ci è dato per la sapienza (1Cor 1:30) o che "in lui" sono "nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza" (Col 2:3). Perché senza di Lui nulla è utile da conoscere, e chi ha afferrato la sua natura nella fede ha abbracciato tutti i beni del cielo nella loro pienezza! Ecco perché Paolo scrive altrove: "Non ho ritenuto di conoscere nulla in mezzo a voi, se non Gesù Cristo crocifisso!". (1 Cor. 2:2). Questo è assolutamente vero: perché ci è proibito da Dio voler andare oltre la semplicità del Vangelo. La dignità profetica, dunque, così come è tenuta da Cristo, dovrebbe condurci anche alla comprensione che nella dottrina come Lui ce l’ha data tutta la sapienza è conclusa in perfetta pienezza.

II,15,3 Vengo ora alla regalità di Cristo. Ma è vano parlarne, se prima non si ricorda ai lettori che è di natura spirituale. Perché solo allora possiamo parlare di ciò che serve e di ciò che ci dà, solo allora possiamo parlare della sua piena potenza ed eternità. In Daniele l’angelo attribuisce questa eternità alla persona di Cristo (Dan 2,44); e in Luca ancora un angelo parla giustamente dell’eternità della salvezza data al popolo! Ma questa eternità è anche di una duplice natura e relazione: da un lato si estende a tutta la Chiesa, dall’altro è specifica per ogni singolo membro della Chiesa. La prima relazione è indicata dalle parole del Salmo: "Ho giurato una volta a Davide per la mia santità, e non mentirò: La sua discendenza sarà eterna, e il suo trono davanti a me come il sole; come la luna sarà conservato in eterno, e come il testimone nelle nuvole sarà sicuro" (Sal 89:36-38; inizio non testo di Lutero). Qui Dio promette ovviamente che attraverso la mano di Suo Figlio sarà sempre la protezione e il sostegno della Sua Chiesa. In nessun altro luogo, se non in Cristo, questa profezia trova il suo vero compimento; poiché la dignità del regno di Davide andò in pezzi per la maggior parte subito dopo la morte di Salomone, e per disgrazia della casa di Davide fu trasferita a un uomo non chiamato ad essa, finché alla fine decadde sempre di più e alla fine tristemente, miseramente perì! – Lo stesso significato ha l’esclamazione di Isaia: "Chi dirà la lunghezza (delle sue generazioni) della sua vita?". (Isa 53:8). Parla di come Cristo vincerà la morte, e così facendo la unisce alle sue membra. Così, quando sentiamo che Cristo sarà dotato di potere eterno, dobbiamo sempre ricordare che qui stiamo parlando della protezione che conserverà sempre la Chiesa, in modo che in mezzo a tutte le vorticose convulsioni a cui è sempre esposta, in mezzo a tutte le pesanti, terribili tempeste che minacciano di schiacciarla innumerevoli volte, essa rimarrà ancora illesa! Così Davide ridicolizza anche la sfida dei nemici che cercano di gettare via il giogo di Dio e del Suo Unto: egli pronuncia che i re e le nazioni infuriano invano, perché "Colui che abita nei cieli" è ancora abbastanza forte da resistere ai loro assalti (Sal 2:3 s.); e così egli dà ai fedeli l’assicurazione che la Chiesa sarà sempre preservata, e li incoraggia a una gioiosa speranza quando vedono la Chiesa oppressa. In questo senso il Salmista parla anche altrove, e in nome di Dio: "Siedi alla mia destra, finché io non faccia dei miei nemici il tuo sgabello!". (Sal 110:1) Egli ci sta dicendo che molti potenti nemici possono aver cospirato per distruggere la Chiesa, ma i loro poteri non sono sufficienti a scuotere l’immutabile consiglio di Dio, secondo il quale Egli ha fatto di Suo Figlio il Re eterno. Perciò il diavolo, con tutto il potere del mondo, non potrà mai distruggere la Chiesa, che è fondata sul regno eterno di Cristo. Ma questa eternità del regno di Cristo ha anche un grande significato per ogni individuo: dovrebbe stabilire e rafforzare in noi la speranza della beata immortalità. Perché ciò che è terreno e appartiene a questo mondo è, come vediamo, temporale, anzi cade facilmente; così allora Cristo, per dirigere la nostra speranza verso il cielo, lo ha chiaramente promesso: "Il mio regno non è di questo mondo" (Giov 18:36). Se sentiamo qualcosa – ognuno di noi! – Sentire che il regno di Cristo è spirituale, può risvegliare in noi la speranza di una vita migliore; e ciò che ora è protetto dalla mano di Cristo dovrebbe aspettarsi con gioia il frutto maturo di questa grazia per l’eternità!

II,15,4 Ho detto sopra: possiamo afferrare la potenza e la benedizione della regalità di Cristo solo quando consideriamo che è spirituale. Questo ci è già chiaro per il fatto che dobbiamo lottare sotto la croce per tutta la vita e che la nostra esistenza è miserabile e dura! A cosa ci servirebbe essere uniti sotto il dominio del Re celeste se i frutti di questo dominio non arrivassero a noi al di fuori di questa vita? Non dimentichiamo mai, quindi, che la beatitudine promessaci in Cristo non consiste in comodità terrene: non si tratta di vivere una vita felice e senza lotte, di avere ricchi possedimenti, di non essere toccati da nessuna difficoltà, da nessun danno e di avere in abbondanza tutti i piaceri in cui la carne si diletta. No, è che ci venga concessa la vita celeste! E proprio come in questa vita la prosperità e il benessere di un popolo dipendono dal fatto che abbia, da un lato, sufficienti possedimenti e pace all’interno, e, dall’altro, una protezione sicura all’esterno, in modo che sia immune da ogni violenza esterna, così anche Cristo equipaggia abbondantemente i Suoi con tutto ciò che è necessario per la salvezza eterna dell’anima, e li fortifica anche con la Sua potenza, in modo che siano invincibili contro tutti i tentativi dei nemici spirituali! Così il regno di Cristo è per il nostro bene piuttosto che per il suo, e questo interiormente ed esteriormente. Perché dobbiamo ricevere la piena ricchezza dei doni dello Spirito, che mancano completamente in noi per natura, per quanto Dio lo ritenga utile – e da queste primizie dobbiamo riconoscere che siamo in comunione con Dio fino alla piena beatitudine! Ma allora dobbiamo affidarci coraggiosamente a questo potere dello Spirito e non dubitare che saremo sempre vittoriosi contro il diavolo e il mondo e tutto ciò che vuole farci del male! Questo è anche il punto della parola di Gesù ai farisei: il regno di Dio è dentro di noi e quindi non viene con gesti esteriori! (Luca 17,20 s.). Probabilmente i farisei avevano chiesto beffardamente al Signore, che si dichiarava il Re, dal quale ci si doveva aspettare le più alte benedizioni di Dio, di mostrare loro i suoi segni regali. Ma vuole mostrare loro che non devono stupidamente fermarsi allo splendore esteriore – erano comunque già troppo attaccati alle cose terrene! E quindi li indica alla propria coscienza – perché il regno di Dio è "giustizia e pace e gioia nello Spirito Santo! (Rom 14:17). Ora sentiamo brevemente ciò che ci è concesso nel regno di Cristo; poiché non è terreno e non carnale, soggetto alla rovina generale, ma è spirituale e ci conduce alla vita eterna: Sopportiamo dunque nella nostra vita con gioia la miseria e il bisogno, la freddezza e il disprezzo, il disonore e ogni altra afflizione, e accontentiamoci di una cosa, che il nostro Re non ci lascerà mai, che non ci rifiuterà mai il suo aiuto nelle nostre difficoltà, finché non avremo combattuto la nostra battaglia e saremo chiamati al trionfo; perché questo è il modo del suo regno, che ci restituisce tutto ciò che egli stesso ha ricevuto dal Padre. Ma poiché egli ci equipaggia con la sua potenza, ci incorona con onore e gloria, ci fornisce abbondantemente di ogni bene, quindi abbiamo più che sufficienti motivi per vantarci, quindi non possiamo mai mancare di gioiosa fiducia, così che possiamo combattere senza paura la battaglia con il diavolo, il peccato e la morte! Così, rivestiti della sua giustizia, vinceremo coraggiosamente tutte le offese del mondo. E come lui stesso ci ricopre abbondantemente di tutti i suoi doni, così noi a nostra volta lo porteremo frutto per la sua gloria!

II,15,5 Perciò la sua unzione regale non fu con olio e spezie preziose, ma è chiamato l’Unto di Dio, perché su di lui riposa lo "spirito di sapienza e di intelligenza, lo spirito di consiglio e di forza, lo spirito di conoscenza e di timore del Signore" (Isa 11,2). Questo è l’"olio di letizia" con cui, secondo le parole del Sal 45, egli è unto "più dei suoi simili" (Sal 45:8); se non fosse così glorioso e perfetto, saremmo tutti poveri e affamati! Tutto questo – come ho già detto – non gli è stato dato per sé solo (privatamente), ma egli deve far traboccare la sua abbondanza agli affamati e agli assetati! Infatti si può dire di Lui che il Padre non gli ha dato lo Spirito "secondo misura" (Giov 3,34), e la ragione è che dalla sua pienezza noi tutti dobbiamo ricevere grazia per grazia! (Giov 1:16). Da questa fonte sgorga il dono che Paolo ricorda: "Ma a ciascuno di noi è data la grazia secondo la misura del dono di Cristo" (Efes 4,7). Questa è una prova sufficiente di ciò che ho detto sopra, cioè che il regno di Cristo ha la sua essenza nello spirito e non nel piacere o nello splendore terreno. Se vogliamo partecipare a questo regno, dobbiamo rinunciare al mondo. Un segno visibile di questa santa unzione ci è dato nel battesimo di Cristo: lì lo Spirito Santo venne su di Lui in forma di colomba (Giov 1,32; Luca 3,22). Che io chiami la comunicazione dello Spirito e dei suoi doni un’unzione (cfr. anche 1Gio 2:20, 27) non è nuovo, e certamente non può sembrare contraddittorio; perché solo da lì ci viene data la vitalità, e soprattutto per quanto riguarda la vita celeste, non c’è una goccia di potenza in noi che lo Spirito non infonda in noi: Egli ha preso la sua dimora in Cristo, affinché da Lui possiamo ricevere le ricchezze celesti di cui siamo del tutto privi. Ma poiché i fedeli sono invincibili sotto la potente protezione del loro Re, poiché le sue ricchezze sono abbondantemente elargite su di loro, non sono chiamati cristiani senza ragione! Certo, Paolo dice: "Dopo questa fine, quando consegnerà il regno a Dio e al Padre… allora anche il Figlio stesso sarà sottomesso… affinché Dio sia tutto in tutti" (1Cor 15:24,28). Ma questa parola non contraddice affatto l’eternità del regno di Cristo di cui abbiamo parlato. Perché Paolo intende solo dire che la disposizione del regno di Cristo nella sua gloria consumata sarà diversa da quella attuale. Il Padre ha dato tutta l’autorità al Figlio per guidarci con la sua mano, per sostenerci, per rafforzarci, per metterci sotto la sua protezione e per darci aiuto. Finché siamo ancora pellegrini davanti a Dio, Cristo entra nei mezzi per condurci passo dopo passo alla comunione stabile con Dio. Che egli siede alla destra del Padre significa certamente che è il governatore di Dio, con il quale tutta l’autorità riposa; perché Dio vuole governare e proteggere la sua Chiesa indirettamente, per così dire, nella sua persona. Questo è anche ciò che Paolo dice nel primo capitolo della Lettera agli Efesini: Dio ha fatto sedere Cristo "alla sua destra in cielo" in modo che egli sia il "capo della chiesa", "che è il suo corpo" (Efes 1,20.22 s.). Nella stessa direzione insegna: "Dio ha dato a Cristo un nome che è al di sopra di ogni nome, affinché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi e ogni lingua confessi che egli è il Signore, a gloria di Dio Padre! (Fili 2:9-11). Perché anche con queste parole l’apostolo loda l’ordine nel regno di Cristo, che è necessario nella nostra presente debolezza. Per questo motivo, tuttavia, egli giustamente conclude ulteriormente: un giorno Dio solo sarà l’unico Capo della Chiesa, perché allora l’opera di Cristo per la conservazione e la difesa della Chiesa sarà completata. Per la stessa ragione, Cristo è chiamato Signore in tutta la Scrittura, perché il Padre lo ha fatto Signore su di noi per esercitare il suo dominio su di noi attraverso di lui. Anche se molti regni possono essere vantati nel mondo, dice Paolo, "tuttavia abbiamo un solo Dio, il Padre, dal quale sono tutte le cose, e noi a lui; e un solo Signore, Gesù Cristo, dal quale sono tutte le cose, e noi attraverso lui! (1Cor 8:5 s.). Da ciò segue giustamente: Egli è dunque lo stesso Dio che ha proclamato per bocca di Isa che Egli è il Re e Legislatore della Sua Chiesa! (Isa 33,22). Infatti egli chiama certamente tutto il suo potere dono del Padre, ma questo non significa altro che egli regna in nome e per incarico di Dio, poiché ha accettato l’ufficio di mediatore, scendendo dal seno e dalla gloria inconcepibile del Padre per avvicinarsi a noi. Tanto più è giusto che ci mettiamo d’accordo per obbedirgli e servirlo con il più grande zelo ai suoi ordini! Egli ha infatti unito l’ufficio di re a quello di pastore per i pii che si sottomettono volentieri a lui; ma sentiamo anche dall’altra parte che egli brandisce uno scettro di ferro per schiacciare tutti gli indisciplinati e per gettarli a terra come vasi di terra! (Sal 2:9). Sentiamo anche che egli sarà il giudice dei Gentili, "per fare una grande percossa in mezzo a loro" e per abbattere tutte le cose alte che sono contrarie a lui! (Sal 110:6). Esempi di questo si vedono anche oggi; ma soprattutto sarà rivelato nell’ultimo giorno: e questo dovrà allora essere effettivamente considerato come l’ultimo atto del suo regno!

II,15,6 Ora parlerò brevemente dell’ufficio sacerdotale di Cristo. Ha il suo scopo e la sua utilità in quanto è un mediatore puro, libero da ogni macchia, che ci riconcilia con Dio attraverso la sua santità. Ma la giusta maledizione di Dio ostacola l’accesso, e Dio come giudice è pieno di ira contro di noi; quindi, se il sommo sacerdote deve guadagnare il piacere di Dio per noi, per placare la sua ira, deve entrare nei mezzi di riconciliazione. Cristo voleva adempiere a questo ufficio, e perciò doveva offrire un sacrificio; perché anche sotto la legge al sommo sacerdote era proibito da Dio di entrare nel santo dei santi senza sangue. I fedeli devono sapere che il sommo sacerdote è certamente posto al centro come intercessore per il popolo, ma Dio non può mostrare misericordia senza espiare i peccati! L’autore della Lettera agli Ebrei ne parla in modo molto dettagliato dal settimo alla fine del decimo capitolo. Il contenuto principale della sua argomentazione è questo: La dignità del sommo sacerdozio appartiene solo a Cristo, il quale, con il sacrificio della propria morte, ha messo via la nostra colpa e ha fatto l’espiazione dei nostri peccati. Quanto questo sia importante, lo vediamo da quel solenne giuramento di Dio, che non si pentirà mai: "Tu sei sacerdote per sempre secondo l’ordine di Melchisedec!". (Sal 110:4). Con questo, Dio ha senza dubbio voluto definire chiaramente il punto più importante da cui, come Lui sapeva, dipende completamente la nostra salvezza. Perché noi, o anche le nostre preghiere, non abbiamo accesso a Dio se Cristo come Sommo Sacerdote non lava via i nostri peccati e ci santifica, ottenendo per noi la grazia da cui l’impurità delle nostre azioni malvagie e dei nostri vizi altrimenti ci tiene lontani! Dobbiamo quindi partire dalla morte di Cristo se vogliamo che l’effetto e la benedizione del suo ufficio sacerdotale arrivino a noi. Ma qui segue anche che egli è un eterno intercessore per noi: la sua intercessione in nostro favore ci fa guadagnare il favore di Dio. In questo modo l’uomo pio può ottenere gioia nella preghiera e pace nella sua coscienza, perché poggia saldamente sulla misericordia di Dio, e può certamente vivere nella convinzione che Dio è contento di ciò che il mediatore santifica! Sotto la legge il sacerdote doveva sacrificare animali secondo il comando di Dio; con Cristo è completamente diverso, completamente nuovo: lui, il sommo sacerdote, è lui stesso il sacrificio. Perché non c’era nessun altro sacrificio che avrebbe potuto intercedere sufficientemente per i nostri peccati – e d’altra parte, nessuno era degno di tale onore per offrire a Dio il suo Figlio unigenito come sacrificio. Ora dunque Cristo porta il sacerdozio e lo esercita non solo per ottenere per noi il piacere e la benevolenza di Dio attraverso una riconciliazione eterna, ma anche per renderci partecipi della stessa dignità (Apoc. 1:6). Perché noi siamo davvero contaminati in noi stessi; ma in lui siamo sacerdoti, offriamo noi stessi e tutto ciò che siamo e abbiamo a Dio come un sacrificio, abbiamo libero accesso al santo dei santi in cielo, così che tutti i nostri sacrifici di preghiera e di lode che abbiamo da offrire siano un buon odore agli occhi di Dio! Tutto questo abbraccia la parola di Cristo: "Io santifico me stesso per loro" (Giov 17:19) – perché Egli ha offerto noi, che siamo altrimenti disgustosi davanti a Dio, con se stesso a Dio, e così, fluendo con la santità di Cristo, siamo puri e irreprensibili, persino santi, davanti a Lui, e così troviamo il Suo piacere! La promessa dell’unzione del "Santissimo", che si trova in Daniele (Dan 9,24), appartiene anche qui. Naturalmente, dobbiamo prestare particolare attenzione al contrasto tra questa unzione e la formazione d’ombra che era in pratica a quel tempo: l’angelo vuole dire che nella persona di Cristo le immagini d’ombra sono finite e il sacerdozio risplende nella sua piena gloria. Ma è ancora più spaventoso quando gli uomini, nella loro presunzione, non vogliono essere soddisfatti del sacerdozio di Cristo e poi, nella loro sciocca presunzione, presumono ogni giorno di offrirlo di nuovo; questo è ciò che si tenta oggi nel papato, dove la Messa è considerata come il sacrificio di Cristo!


Capitolo sedici

Come Cristo ha fatto l’opera del Salvatore e ha acquistato la salvezza per noi. Qui, dunque, stiamo parlando della morte, della risurrezione e dell’ascensione di Cristo.

II,16,1 Ciò che abbiamo detto finora di Cristo deve essere tutto riferito ad un punto: Noi che siamo condannati, morti e persi in noi stessi, dobbiamo cercare la giustizia, la liberazione, la vita e la salvezza in lui. Questo è ciò che ci insegna la famosa frase di Pietro: "Non c’è salvezza in nessun altro, né c’è un altro nome sotto il cielo dato tra gli uomini, per cui dobbiamo essere salvati! (Atti 4:12). Il fatto che portasse il nome di Gesù non accadde involontariamente, per caso o per arbitrio umano; ma questo nome gli fu dato da un angelo del cielo come messaggero del supremo consiglio di Dio, e ne fu aggiunto anche il motivo: "Perché egli salverà il suo popolo dai suoi peccati!". (Mat 1,21; Luca 1,31). Queste parole dimostrano – come ho già detto! – che l’ufficio di Salvatore è conferito a Lui, che Egli è il nostro Salvatore! E sarebbe una redenzione incompleta se non ci conducesse in costante progresso verso la meta ultima della beatitudine! Se dunque ci allontaniamo minimamente da lui, la nostra salvezza svanirà a poco a poco; poiché essa riposa in lui solo: chi dunque non si attiene a lui, si priva della salvezza! È bene considerare ciò che dice Bernardo. Il nome di Gesù non è solo la luce, ma anche il cibo; è l’olio, senza il quale tutto il cibo dell’anima è senza succo; è il sale, senza il quale tutto ciò che ci viene messo davanti non ha condimento: è miele in bocca, è un bel suono all’orecchio, è un tripudio nel cuore, come una meravigliosa medicina allo stesso tempo; e tutto il nostro parlare è follia, se questo nome non suona da esso! (Bernhard, Sermoni sul Cantico dei Cantici, 15). Ma qui dobbiamo riflettere diligentemente su come è avvenuto che abbiamo la salvezza in lui; perché non solo dobbiamo essere certi che la salvezza viene da lui, ma anche afferrare fermamente ciò che dà ragione e certezza alla nostra fede, e respingere tutto ciò che potrebbe allontanarci in questa o quella direzione! Ma chi riconosce veramente se stesso e considera seriamente chi è veramente, deve necessariamente sentire l’ira di Dio contro di lui in modo feroce e quindi cercare ansiosamente se e come può essergli concessa la riconciliazione. Perché qui c’è bisogno di soddisfazione; quindi si tratta di una questione di un’assicurazione insolitamente forte; perché l’ira di Dio rimane immutata sul peccatore finché non è liberato dalla colpa; perché Dio è un giudice giusto, e non permette che la sua legge sia violata impunemente, ma è attrezzato per una giusta punizione!

II,16,2 Ma prima di andare oltre, dobbiamo riflettere di sfuggita sulla questione di come si possa riconciliare che Dio, che ci ha preceduto con la sua misericordia, ci sia tuttavia ostile finché non si riconcilia con noi in Cristo! Perché come avrebbe potuto darci una garanzia così unica del suo amore per noi nel suo Figlio unigenito se non ci fosse già stato amico nella grazia gratuita? Quindi qui c’è davvero l’apparenza di una contraddizione, e quindi devo cercare di sciogliere questo nodo. Lo Spirito Santo lo dice nella Scrittura qualcosa del genere: Dio era ostile all’uomo finché non l’ha riportato alla grazia attraverso la morte di Cristo (Rom 5:10). Oppure sentiamo anche che l’uomo è sotto la maledizione finché la sua ingiustizia non è espiata dalla morte sacrificale di Cristo (Gal 3,10.13), o che è separato da Dio finché non viene ripristinata la comunione nel corpo di Cristo (Col 1,21 s.). Questi e simili detti sono adattati alla nostra comprensione, in modo che possiamo meglio riconoscere quanto miserabile e angosciosa sia la nostra situazione senza Cristo. Perché se non ci venisse detto con parole chiare che l’ira di Dio, il castigo e la morte eterna sono su di noi, saremmo meno propensi a riconoscere quanto saremmo miserabili senza la misericordia di Dio, e meno propensi ad apprezzare il dono della liberazione! Farò un esempio. Qualcuno sente: se Dio, quando eri ancora un peccatore, ti avesse odiato così tanto e ti avesse allontanato da sé come meritavi, saresti perito miseramente; ma Dio, di sua spontanea volontà e in libera misericordia, ti ha accettato in grazia, non ha voluto allontanarti completamente, e ti ha salvato da tale pericolo. Chiunque ascolti questo sarà certamente colpito interiormente da esso, egli considererà anche in una certa misura quali grazie deve alla misericordia di Dio. Ma se, d’altra parte, sente ciò che la Scrittura insegna: ti sei veramente allontanato da Dio attraverso il peccato, sei un erede dell’ira, sei caduto sotto la maledizione della morte eterna, sei escluso da ogni speranza di salvezza, sei un estraneo a tutte le benedizioni di Dio, uno schiavo di Satana, un prigioniero sotto il giogo del peccato, consegnato a una terribile distruzione, sì, già in mezzo ad essa! – Ma poi Cristo si mise in mezzo come intercessore e prese la punizione su di sé, soffrì ciò che tutti i peccatori dovevano soffrire secondo il giusto giudizio di Dio, espiò con il suo sangue tutto il male che li rendeva detestabili davanti a Dio; e ora, attraverso questo sacrificio espiatorio, il Padre è soddisfatto, attraverso questo intercessore la sua ira è placata, su questo fondamento la pace di Dio con gli uomini è fermamente stabilita, ora il buon piacere di Dio verso di noi poggia su questa unione! – Dico, quando un uomo sente questo, non lo prenderà tanto più profondamente a cuore, quanto più chiaramente e vividamente gli viene fatto vedere quanto è grande il bisogno da cui Dio lo tira fuori? In breve, non siamo di natura tale da poter desiderare adeguatamente la vita per la misericordia di Dio e ringraziare sufficientemente per essa, se il terrore dell’ira di Dio e l’orrore della morte eterna non penetrano prima nelle nostre anime e non ci gettano a terra; ed è per questo che l’insegnamento divino ci istruisce in modo tale che vediamo Dio come ostile a noi, vediamo la sua mano tesa per distruggerci – ma solo per poter afferrare la sua bontà e il suo amore paterno in Cristo soltanto!

II,16,3 Ciò che sentiamo dell’ira di Dio è dunque detto per la nostra debolezza, ma ciò non lo rende scorretto. Perché Dio è la giustizia nella sua massima perfezione, e quindi non può amare l’ingiustizia che percepisce in tutti noi. Egli trova in tutti noi abbastanza per meritare la sua ira. Perché la nostra natura è corrotta, la nostra vita è perversa – e quindi al suo cospetto siamo tutti colpevoli di inimicizia contro di lui e destinati alla dannazione infernale! Ma il Signore non vuole abbandonare alla corruzione in noi ciò che in fondo è suo, e quindi trova ancora qualcosa da amare nella sua bontà. Perché siamo davvero peccatori nella nostra corruzione – ma rimaniamo ancora sue creature; abbiamo davvero meritato la morte – ma lui ci ha creato una volta per la vita! Così, per puro e misericordioso amore verso di noi, viene ad accoglierci nella grazia! Ma il conflitto tra la giustizia e l’ingiustizia è incessante e inconciliabile, e quindi non può accettarci finché siamo peccatori. Perciò, per porre fine ad ogni inimicizia e per riconciliarci completamente con Lui, Egli cancella ogni male in noi attraverso l’espiazione che ha avuto luogo in Cristo, in modo da apparire giusti e santi davanti a Lui, che prima erano tuttavia impuri e contaminati! Così l’amore del Padre precede la riconciliazione attraverso Cristo. Egli "ci ha amati per primo" (1Gio 4:19) – e poi ci ha riconciliati con sé! Ma in noi, finché Cristo non ci porta aiuto con la sua morte, rimane l’ingiustizia che merita l’ira di Dio, ed è maledetta, condannata davanti a lui. Quindi abbiamo una vera e perfetta comunione con Dio solo quando Cristo ci attira nella sua comunione. Se, dunque, vogliamo avere la ferma certezza che siamo riconciliati con Dio e che in lui abbiamo un Dio benevolo, dobbiamo fissare i nostri occhi e i nostri cuori fermamente ed esclusivamente su Cristo, perché è solo attraverso di lui che i nostri peccati non ci vengono imputati. Se fosse altrimenti, l’ira di Dio sarebbe inevitabile!

II,16,4 Per questo Paolo dice anche che l’amore con cui Dio ci ha amati "prima della fondazione del mondo" ha il suo fondamento e la sua base in Cristo (Efes 1,4 s.). Queste sono parole chiare e scritturali; da qui possiamo anche conciliare quando leggiamo nella Scrittura: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito…" (Giov 3,16). (Giov 3,16), e poi ancora, dall’altra parte, che Dio ci era ostile prima che la morte di Cristo lo rendesse nuovamente misericordioso con noi (Rom 5,10). Ma voglio rendere queste cose più certe a quei lettori che amano chiedere una testimonianza della Chiesa primitiva; a questo scopo citerò un passo di Agostino, che sostiene la stessa dottrina. "Incomprensibile e immutabile è l’amore di Dio! Perché non ha cominciato ad amarci solo da quando siamo stati riconciliati con lui attraverso il sangue del suo Figlio; no, ci ha amati prima della fondazione del mondo, perché diventassimo suoi figli con il suo Figlio unigenito prima di essere qualsiasi cosa! La nostra riconciliazione attraverso il sangue del Figlio non deve essere intesa come se il Figlio ci avesse riconciliati con Dio allo scopo di amare noi che prima odiava; no, siamo stati riconciliati con lui quando già ci amava – sebbene fossimo in inimicizia con lui a causa del nostro peccato! Paolo può testimoniare la verità di questa affermazione: "Perciò, mentre eravamo ancora peccatori, Dio glorifica il suo amore per noi, in quanto Cristo è morto per noi" (Rom 5:8). (Rom 5:8). Quindi ci ha già abbracciato con il suo amore mentre noi vivevamo ancora nell’inimicizia contro di lui e facevamo l’iniquità. Così ha fatto il miracolo divino di odiarci e allo stesso tempo amarci. Ci odiava perché non eravamo come ci aveva fatti; ma tuttavia la nostra ingiustizia non aveva consumato interamente la sua opera, e quindi era in grado nel caso di ciascuno di noi di odiare allo stesso tempo ciò che avevamo fatto – e di amare ciò che ancora aveva fatto!" (Riflessioni sul Vangelo di Giovanni, 110). Queste sono le parole di Agostino!

II,16,5 Se ora chiediamo in che modo Cristo ha messo via il peccato, ha messo fine alla lite tra noi e Dio, e ha acquistato per noi la giustizia che ci rende di nuovo inclini e graziosi a Dio, la risposta generale è: ha compiuto questo per noi attraverso l’obbedienza durante tutta la sua vita. Questo è provato dalla testimonianza di Paolo: "Come per la disobbedienza di un uomo molti sono diventati peccatori, così per l’obbedienza di un uomo molti diventano giusti" (Rom 5:19; Calvino cita un po’ diversamente). Anche in un altro luogo mostra chiaramente che Cristo, con tutta la sua vita, ha acquistato per noi il perdono che ci libera dalla maledizione della legge: "Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da una donna e messo sotto la legge, per riscattare quelli che erano sotto la legge…" (Gal 4:4). Cristo stesso ha detto al suo battesimo: "Ci conviene compiere ogni giustizia" (Mat 3,15): una parte della giustizia era dunque già compiuta per il fatto che egli eseguiva il comando del Padre in obbedienza. In breve, dal giorno in cui "prese su di sé la forma di servo" ha anche iniziato a offrire il riscatto per la nostra liberazione! Se, tuttavia, la Scrittura vuole definire più precisamente come è avvenuta la nostra salvezza, la attribuisce in modo speciale ed effettivamente alla morte di Cristo. Egli stesso ha descritto come suo ufficio quello di "dare la sua vita in riscatto per molti" (Mat 20,28). E Paolo dice che è stato "dato per i nostri peccati" (Rom 4:25). Giov Battista lo proclamò ad alta voce: "Ecco l’Agnello di Dio che porta il peccato del mondo!". (Giov 1,29). E Paolo insegna in un altro passo: "Siamo giustificati senza merito per la sua grazia, mediante la redenzione avvenuta per mezzo di Cristo Gesù, che Dio ha presentato come sede di misericordia (per fede) nel suo sangue…" (Rom 3:24 s.). Dice anche che siamo giustificati dal Suo sangue e riconciliati dalla morte di Suo Figlio (Rom 5:9 s.). E poi ancora: "Egli ha fatto sì che colui che non aveva conosciuto peccato fosse peccato per noi, affinché noi diventassimo in lui la giustizia di Dio!". (2Cor 5:21). Ma non voglio entrare in tutti i passaggi – c’è un’immensa abbondanza, e molti saranno menzionati al loro posto. Per questa ragione, il cosiddetto Credo degli Apostoli procede nell’ordine corretto dalla nascita di Cristo alla sua morte e risurrezione: perché su di esse poggia, in linea di massima, la nostra perfetta salvezza. Questo certamente non ignora l’obbedienza che ha reso in tutta la sua vita. Anche Paolo ha riassunto tutta la sua vita fino alla fine quando ha detto di lui: "Umiliò se stesso e prese la condizione di servo… e si fece obbediente fino alla morte, fino alla morte di croce…" (Fil 2,7 s.). (Fili 2,7 s.). La cosa principale qui è che fu un’obbedienza volontaria; perché solo un sacrificio offerto volontariamente potrebbe portare alla giustizia! Perciò il Signore testimonia: "Io do la mia vita per le pecore…" (Giov 10,15) e poi aggiunge esplicitamente: "Nessuno me lo toglie!". (Giov 10,18). Per questo Isa dice anche: "Era come una pecora che tace davanti al suo tosatore" (Isa 53,7). Il Vangelo della Passione ci dice anche come andò liberamente incontro ai soldati (Giov 18,4), come si presentò davanti a Pilato senza alcuna difesa e si sottopose al suo giudizio (Mat 27,11). Certamente non lo fece senza lottare, perché aveva accettato la nostra debolezza, e in questo modo l’obbedienza che rendeva al Padre doveva diventare visibile. Fu una prova singolarmente gloriosa del suo amore per noi che lottò con una paura senza nome, che dimenticò se stesso sotto quei terrori terribili della morte per aiutarci. Dobbiamo tenere a mente questo: la giustizia di Dio poteva essere soddisfatta nel sacrificio solo quando Cristo, per sua stessa decisione, rinnegò se stesso e si sottomise obbedientemente e si arrese completamente alla volontà di Dio. L’autore della Lettera agli Ebrei cita un passo molto appropriato dei Salmi: "Nel libro della legge è scritto di me; la tua volontà, mio Dio, la faccio volentieri, e la tua legge l’ho nel cuore. Poi dissi: ’Ecco, io vengo’ …" (Ebr 10:7, 9; Sal 40:8 s.). Poiché la nostra coscienza spaventata può trovare riposo solo nel sacrificio e nella purificazione che cancella i nostri peccati, il nostro sguardo è giustamente rivolto ad esso, e nella morte di Cristo troviamo la ragione della nostra vita! Data la nostra colpa, dovevamo aspettarci la condanna davanti al seggio del giudizio celeste di Dio; ecco perché il Credo menziona la condanna davanti a Ponzio Pilato, il governatore della Giudea, in primo luogo: dobbiamo sapere che il giusto ha veramente preso su di sé la punizione che ci minacciava! Non potevamo sfuggire al terribile giudizio di Dio, e lì Cristo si è lasciato condannare davanti a un uomo mortale, anche vizioso e senza Dio, per strapparci via. Il fatto che il governatore sia menzionato per nome non è solo per sostenere la credibilità del racconto storico, ma dobbiamo imparare da esso ciò che Isa ci dice: "La punizione era su di lui perché avessimo pace, e dalle sue ferite siamo guariti!" (Isa 53:5). Perché per rimuovere la condanna che era su di noi, non era sufficiente che Cristo avesse sofferto la morte in qualche forma arbitraria; se la nostra redenzione doveva essere pienamente compiuta, doveva essere una forma di morte in cui egli prese su di sé la nostra condanna, fece l’espiazione per il nostro peccato stesso – e così ci liberò sia dalla condanna che dal bisogno di espiazione! Se fosse stato strangolato dai ladri o ucciso in un tumulto durante una rivolta popolare, la caratteristica essenziale della soddisfazione sarebbe mancata in entrambi questi modi di morire. Ma viene portato davanti al tribunale come un accusato, i testimoni lo accusano e lo accusano, il giudice stesso lo consegna alla morte: lì vediamo che si è lasciato trattare come un criminale! Due cose sono da notare qui, che sono già predette nelle profezie dei profeti e portano infinito conforto e rafforzamento alla fede. Quando sentiamo come Cristo fu condannato a morte dal giudice e impiccato tra gli assassini, vediamo in questo l’adempimento della profezia che anche l’evangelista cita: "Egli è annoverato tra i trasgressori" (Isa 53:12; Mar 15:28). Cosa significa questo? Egli prende il posto del peccatore, non del giusto e dell’innocente; perché non ha sofferto la morte per amore dell’innocenza, ma per amore del peccato! E quando, d’altra parte, sentiamo come la stessa bocca che pronuncia la sentenza di condanna su di lui lo dichiari anche innocente – poiché Pilato si vide costretto più di una volta a testimoniare pubblicamente l’innocenza di Cristo! Ricordiamo ciò che possiamo leggere in un altro profeta: "Paga ciò che non ha rubato" (Sal 69,5; nel testo 1a persona). Così vediamo come Cristo appare nel ruolo di un peccatore colpevole - ma allo stesso tempo la sua innocenza risplende, e diventa abbastanza chiaro che egli non porta la sua colpa, ma quella degli altri! Soffrì sotto Ponzio Pilato, e fu solennemente giudicato come uno dei malfattori; eppure ciò avvenne in modo tale che lo stesso Ponzio Pilato dovette dichiararlo giusto, come egli stesso testimoniò: "Non trovo in lui alcuna colpa" (Giov 18:38). Questa, dunque, è la nostra assoluzione: sul capo del Figlio di Dio è posta la colpa che, in fondo, ci ha consegnato al castigo! Dovremmo sempre ricordare questa intercessione di Cristo per noi, per non tremare tutta la vita e sederci nella paura – come se il giusto castigo di Dio, che il Figlio di Dio ha comunque preso su di sé, ci minacciasse ancora!

II,16,6 C’è anche un mistero speciale nel tipo di morte sofferta da Cristo. La croce era maledetta – non solo secondo l’opinione umana, ma per una disposizione della legge di Dio. Così, quando Cristo è stato crocifisso, è incorso nella maledizione. Ma doveva accadere così, perché noi potessimo essere liberi da tutta la maledizione che ci minacciava per i nostri peccati, anzi che era proprio su di noi, trasmettendola a lui. Anche per questo, la legge offre un’oscura prefigurazione. Perché la parola ebraica "asham", che significa effettivamente "peccato", è anche l’espressione per i sacrifici e l’espiazione offerti per il peccato! Con questo trasferimento di nomi, lo Spirito Santo ha voluto mostrarci che questi sacrifici erano, per così dire, "sacrifici di purificazione", che prendevano su di sé la maledizione che poggiava sull’azione cattiva dell’uomo! Ma ciò che è rappresentato pittoricamente nei sacrifici mosaici è rivelato in Cristo, l’archetipo su cui tutto questo era basato. Per realizzare la vera riconciliazione, Egli offrì la Sua anima come sacrificio per il peccato (come "asham"), cioè come un sacrificio sufficiente per il peccato, come dice il profeta (Isa 53:5, 10); ogni contaminazione e punizione è gettata su di Lui, e ora non è più imputata a noi. L’apostolo lo ha testimoniato con maggiore chiarezza: "Egli ha fatto sì che colui che non aveva conosciuto peccato fosse peccato per noi, perché noi diventassimo in lui la giustizia di Dio" (2Cor 5:21). Perché il Figlio di Dio, lui stesso puro da ogni iniquità, ha preso su di sé il nostro peccato e la nostra vergogna, e ci ha rivestito della sua purezza in cambio. Sembra riferirsi a questo quando Paolo dice del peccato che fu "condannato nella Sua carne" (Rom 8:3). Perché il Padre ha distrutto il potere del peccato quando la sua maledizione è stata trasferita nella carne di Cristo. Quindi questa espressione vuole mostrare: Cristo, nella sua morte, è stato offerto al Padre come un sacrificio soddisfacente; e attraverso il suo sacrificio l’espiazione è stata compiuta, così che non dobbiamo più temere l’ira di Dio. Ora comprendiamo anche cosa intende il profeta quando dice: "Ma il Signore ha gettato su di lui tutto il nostro peccato" (Isa 53:6); Cristo, per purificarci da tutte le nostre sozzure, è stato completamente coperto dal peccato con una tale imputazione di trasferimento. Per questo la croce su cui fu inchiodato è un segno, come ci dice l’apostolo: "Cristo … ci ha riscattati dalla maledizione della legge, essendo stato fatto maledizione per noi; poiché sta scritto: ’Maledetto ogni uomo che è appeso al legno’ – affinché la benedizione di Abramo venga tra i gentili in Cristo Gesù …" (Gal 3,13 s.). Questo è anche ciò che Pietro intende quando dice: "Che ha portato lui stesso i nostri peccati… sul legno…" (1Piet. 2:24); perché con questo segno della maledizione vediamo ancora più chiaramente che il peso che ci opprimeva è stato posto su di lui. Tuttavia, non dobbiamo assolutamente pensare che la maledizione abbia vinto lui stesso: no, l’ha presa su di sé e quindi lui stesso l’ha abbattuta, l’ha rotta, l’ha resa nulla! Ecco perché la fede trova la rivendicazione nella condanna di Cristo e la benedizione nella maledizione che era su di lui. Ecco perché Paolo magnifica la vittoria che Cristo ha ottenuto sulla croce – come se la croce, che altrimenti era piena di vergogna, fosse diventata un carro di trionfo! "Egli ha cancellato la scrittura che era contro di noi … e l’ha posta sulla croce, e ha tolto i principati e le potenze, e li ha fatti apparire allo scoperto …" (Col 2:14 s.). Questo non è sorprendente: perché Cristo – come dice un altro apostolo – "ha offerto se stesso a Dio per mezzo dello Spirito eterno" (Ebr 9:14), e quindi viene questo rovesciamento di tutte le cose! Ma questa certezza deve radicarsi nei nostri cuori e permearci completamente, e quindi dobbiamo sempre ricordare questo sacrificio, questa purificazione. Non potremmo avere la certezza che Cristo è la nostra redenzione (apolytrosis), il nostro riscatto (antilytron) e il nostro "seggio di misericordia" (hilasterion) se non fosse il nostro sacrificio! Ecco perché la Scrittura parla sempre del sangue quando parla di come è avvenuta la nostra redenzione. Naturalmente, il sangue di Cristo non scorreva solo come un sacrificio espiatorio; era anche, in un certo senso, un bagno in cui abbiamo trovato la purificazione dalla nostra contaminazione.

II,16,7 Ora segue nel Credo: "Morto e sepolto". Anche qui si percepisce come Cristo, per pagare il nostro riscatto, si è messo ovunque al nostro posto. Perché la morte ci teneva prigionieri sotto il suo duro giogo – e lui è andato in suo potere al nostro posto, per liberarci a sua volta da esso! Questo è ciò che l’apostolo intende quando scrive: "così che egli… ha gustato la morte per tutti!". (Eb 2,9). Perché con la sua morte non ci ha fatto morire, o, che è lo stesso, con la sua morte ci ha comprato la vita! Solo in questo è abbastanza diverso da noi: si è dato in potere della morte, non per essere inghiottito da essa, ma per inghiottirla lui stesso, che minacciava di inghiottirci! Si è sottomesso alla morte, non per essere schiacciato dal suo potere, ma per buttarla giù lui stesso, che tuttavia ci minacciava sempre e già si rallegrava della nostra caduta! Infine, è morto per distruggere con la morte colui che ha il potere della morte, cioè il diavolo (Ebr 2:14), e per redimere coloro "che per paura della morte dovevano essere schiavi per tutta la vita!" (Eb 2,15). Questo è il primo frutto che la sua morte ci ha portato. Il secondo effetto della morte di Cristo per noi è che ci attira nella comunione della sua morte; così ha messo a morte le nostre membra terrene in modo che non facciano più la loro opera malvagia, così ha anche portato al nulla il nostro vecchio uomo, in modo che ora non prosperi più e non porti più i suoi frutti! E a questo scopo è stato anche sepolto, cioè noi stessi ora partecipiamo alla sua sepoltura e siamo così anche sepolti dal peccato. Infatti, secondo Paolo, siamo incorporati a Cristo da una morte simile, e sepolti con lui, e quindi morti al peccato; per mezzo della sua croce "il mondo è crocifisso a noi, e noi al mondo!" (Gal 2:19; 6:14). Siamo morti con lui (Col 3,3). Ma l’apostolo non ci sta semplicemente incoraggiando a mostrare ed esprimere l’esempio della sua morte in noi, ma ci sta spiegando che nella morte di Cristo abita una tale potenza che ora deve diventare visibile in tutti i cristiani se non vogliono rendere la morte di Cristo in se stessa inutile e senza frutto! Così riceviamo una doppia benedizione dalla morte e dalla sepoltura di Cristo: la liberazione dalla morte, di cui eravamo schiavi – e la mortificazione della nostra carne!

II,16,8 Ma non dobbiamo nemmeno passare sopra la "discesa agli inferi"; perché anche in questo c’è qualcosa di importante deciso per il compimento dell’opera di redenzione. Gli scritti degli antichi maestri della chiesa mostrano che questa parte del credo non era molto sostenuta nella chiesa di quel tempo. Ma se si vuole presentare tutta la dottrina, anche questa parte deve avere il suo posto, perché qui incontriamo un mistero salutare e da non disprezzare. Anche tra gli antichi maestri di chiesa ci sono alcuni che non lo passano. Questo porta a supporre che questo pezzo sia stato aggiunto solo più tardi e che non sia stato insegnato nella Chiesa immediatamente, ma solo gradualmente. Ma non c’è dubbio che la dottrina è entrata in vigore per convinzione generale dei fedeli; perché tra i Padri della Chiesa non ce n’è uno che non abbia menzionato in qualche modo questa "discesa agli inferi" – anche se l’interpretazione è molto diversa. Contribuisce anche poco alla questione da chi e in quale momento questa dottrina è stata inserita nella confessione. Nel considerare il Credo, dobbiamo essere tanto più attenti che esso contenga veramente tutti gli elementi essenziali della fede, e che non vi si aggiunga nulla che non sia tratto dalla più pura Parola di Dio. Ci sono certamente persone che si rifiutano ostinatamente di aggiungere questa affermazione al Credo; ma diventerà presto chiaro quale grande importanza essa abbia per la conoscenza complessiva della nostra salvezza: se fosse trascurata, la morte di Cristo perderebbe gran parte della sua benedizione per noi. D’altra parte, ci sono teologi che sono dell’opinione che qui non viene detto nulla di nuovo, ma solo l’articolo sulla sepoltura di Cristo viene ripetuto in altre parole; l’espressione "inferno" è usata diverse volte nella Scrittura al posto di "tomba"! Lo ammetto: quello che si dice sul significato della parola è corretto: l’inferno è infatti spesso messo al posto di tomba. Ma ci sono due ragioni per distinguere tra il "viaggio all’inferno" di Cristo e la sua sepoltura. Perché (da un lato) sarebbe stata una grande prolissità aver espresso una cosa molto semplice in termini chiari e plausibili, e poi averla accennata con un’affermazione molto più difficile che averla effettivamente spiegata! Perché se due espressioni che si riferiscono alla stessa cosa sono elencate una accanto all’altra, si suppone di solito che la seconda spieghi la prima in modo più dettagliato. Ma che tipo di spiegazione sarebbe se si volesse dire: ’Cristo è stato sepolto’ e questo significa: ’è sceso all’inferno’? Ma allora è anche (d’altra parte) improbabile che una tale inutile ripetizione possa essere penetrata nel Credo; perché qui, dopo tutto, i punti principali della fede sono enunciati in modo sommario nel minor numero di parole possibile! Credo che coloro che considerano la questione con una certa precisione saranno d’accordo con me.

II,16,9 Altri, tuttavia, interpretano questa parte del Credo in modo molto diverso. Dicono che Cristo discese alle anime dei padri che erano morti sotto la legge, per portare loro il messaggio della redenzione compiuta e per condurli fuori dalla prigione in cui erano rinchiusi. In questa direzione essi interpretano male una parola del Sal come: "Ha rotto le porte di ottone e le sbarre di ferro" (Sal 107:16) o anche la parola di Zaccaria: "Anch’io … libero i tuoi prigionieri dalla fossa dove non c’è acqua" (Zacc. 9:11; Calvino cita in terza persona). Ma nel Salmo, la liberazione è effettivamente annunciata a coloro che sono tenuti in schiavitù lontano, e Zac intende per fossa o abisso profondo e senza acqua la cattività in Babilonia in cui il popolo era bloccato. Allo stesso tempo, Zac presenta la salvezza della Chiesa come una salvezza da una profondità insondabile. Quindi non vedo come sia stato possibile in tempi successivi pensare a un luogo sotterraneo qui, a cui si dava ancora il nome di "limbus". Anche se questa favola è stata inventata da persone famose ed è ancora seriamente difesa come verità da molti oggi, è ancora solo una favola. È infantile pensare alle anime dei defunti rinchiuse in una prigione. E perché allora era necessario che l’anima di Cristo vi scendesse per metterla in libertà? Ma ammetto prontamente che Cristo è apparso a coloro che si erano addormentati nella potenza del suo Spirito, così che essi hanno riconosciuto che la grazia che avevano solo assaggiato nella speranza era ora manifesta al mondo. Forse anche il passo in 1 Pietro può essere collegato a questo: "Nello stesso modo egli andò a predicare agli spiriti di guardia"; per cui viene solitamente tradotto: "in prigione" (1 Pietro 3:19). Il contesto ci porta al fatto che i credenti che sono morti prima di quel tempo sono comunque partecipi della stessa grazia con noi. Infatti l’apostolo vuole lodare in modo particolare la potenza della morte di Cristo e la giustifica dicendo che essa ha raggiunto i defunti: i pii hanno sperimentato la sua apparizione, che avevano atteso a lungo con desiderio, come qualcosa di presente, ed è diventato ancora più evidente per i malvagi che essi sono esclusi da ogni salvezza. Pietro, tuttavia, non parla così chiaramente. Questo non deve essere inteso come se stesse confondendo credenti e miscredenti senza distinzione; vuole solo insegnare che entrambi hanno ricevuto ugualmente la conoscenza della morte di Cristo.

II,16,10 Cercherò ora una spiegazione più affidabile di questa discesa di Cristo agli inferi, lasciando da parte la relazione di questa dottrina con la professione di fede. La spiegazione che ci dà la Parola di Dio non è solo santa e venerabile, ma anche piena di gloriosa consolazione. Non era sufficiente che Cristo soffrisse solo la morte corporale; no, doveva anche provare la piena severità del giudizio divino per scongiurare la sua ira e soddisfare la sua giusta sentenza. Per questo ha dovuto combattere anche con le potenze dell’inferno, con il terrore della morte eterna, come uomo contro uomo. Abbiamo già citato il passo di Isaia: "Il castigo è su di lui, perché noi possiamo avere pace… Egli è ferito per la nostra iniquità e livido per i nostri peccati…" (Isa 53:5). Lì il profeta mostra come egli si pone come mediatore, come garante per il colpevole, anche prendendo il suo posto, per sopportare e pagare tutta la punizione che il peccatore doveva aspettarsi – solo con l’unica restrizione che le "pene della morte" non potevano "trattenerlo" (Atti 2:24). Quindi, quando si dice: "discese all’inferno", non dobbiamo stupirci: dopo tutto, ha sopportato la morte che l’ira di Dio prepara per i malfattori! È improprio e ridicolo obiettare che in questo modo la sequenza ordinata è invertita, perché è inutile menzionare qualcosa che ha preceduto la sepoltura dopo di essa. No: prima viene mostrato ciò che Cristo ha sofferto pubblicamente, davanti agli occhi degli uomini – ma ora apprendiamo abbastanza correttamente del giudizio invisibile, incomprensibile, che Cristo ha sopportato davanti a Dio. Dobbiamo riconoscere da questo che non solo ha dato il suo corpo come riscatto, ma ha anche offerto un sacrificio più grande, più delizioso per noi sopportando nella sua anima i terribili tormenti di un uomo condannato e perso!

II,16,11 In questo senso Pietro dice: "Egli ha risuscitato Dio e ha sciolto le pene della morte, come era impossibile che fosse trattenuto da esse" (Atti 2,24). Non parla semplicemente della morte, ma dice esplicitamente che il Figlio di Dio ha sofferto il dolore, quel dolore che la maledizione e l’ira di Dio comportano – che è l’origine della morte! Perché sarebbe stata una piccola cosa se Cristo fosse andato alla morte incrollabile e come se giocasse! La vera prova della Sua insondabile misericordia stava piuttosto nel fatto che Egli tremò terribilmente davanti alla morte – e tuttavia non ne sfuggì! Senza dubbio, l’autore di Ebrei vuole dire la stessa cosa quando scrive che Cristo fu ascoltato per il suo timore (Ebr 5,7; non è il testo di Lutero). Alcuni traducono il passo in modo tale che al posto di "timore" inseriscono "timore di Dio" o "pietà" e così traducono: "e fu ascoltato, perché onorò Dio" (così anche Lutero). Ma questo non è molto appropriato, come mostrano la materia stessa e anche il significato della parola. Cristo pregava "con forti grida e suppliche" e fu ascoltato dal suo timore – non per essere protetto dalla morte, ma per non essere divorato da essa come peccatore. Perché ha fatto tutto questo al posto nostro! Non c’è certamente un abisso di miseria più spaventoso del sapersi abbandonati da Dio, alienati da Lui: lo si invoca e non si è ascoltati – come se Lui stesso avesse cospirato alla nostra rovina! Ma Cristo fu davvero così abbandonato che dovette gridare per un bisogno urgente: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". (Sal 22,2; Mat 27,46). Ora alcuni vogliono sostenere che egli fece questo terribile grido per i sentimenti degli altri, ma non per la sua propria esperienza (Cirillo, Sulla retta fede); ma questo è abbastanza improbabile, perché queste parole ovviamente vengono fuori dalla più profonda angoscia interiore! Tuttavia, non voglio dire che Dio sia mai stato ostile o arrabbiato con Cristo. Come poteva essere arrabbiato con il Figlio amato in cui si era compiaciuto? O come poteva Cristo, con la sua sostituzione, riconciliare gli altri con Dio, quando egli stesso era sotto l’ira? Ma io dico questo: Cristo ha sopportato tutta la severità dell’ira divina; perché è stato "livido e ferito" dalla mano di Dio (allusione a Isa 53:5) e ha sopportato tutte le manifestazioni dell’ira e della punizione di Dio! Così anche Ilario trae la conclusione che questa "discesa agli inferi" ha per noi l’effetto di abolire la morte (Ilario, Sulla Trinità, 4). Hilarius è anche d’accordo con la mia opinione in altri luoghi; così dice: "Croce, morte, inferno - questa è la nostra vita!". (Libro 2 della stessa opera), e poi ancora: "Il Figlio di Dio è all’inferno – ma l’uomo è elevato al cielo!". (Libro 3). Ma perché sto citando la testimonianza di una persona privata – quando l’apostolo dice la stessa cosa? Infatti lo stesso autore della Lettera agli Ebrei sottolinea che in questo modo Cristo "ha redento coloro che per paura della morte dovevano essere schiavi per tutta la vita" (Ebr 2,15). Così Cristo ha dovuto combattere questa paura, che per natura tiene tutti i mortali perennemente nella paura e nell’angoscia – e questo poteva accadere solo nella dura lotta! Pertanto, l’afflizione che colpì il Signore non poteva essere di tipo ordinario o derivare da una piccola causa. Questo diventerà presto più chiaro. Così ha combattuto con la violenza del diavolo, con il terrore della morte, con le pene dell’inferno, uomo contro uomo, per così dire – e lì ha vinto su di loro e ha trionfato con potenza, così che nella morte non dobbiamo più temere ciò che il nostro Duca ha già combattuto!

II,16,12 Ora qui alcuni sciocchi ignoranti, ma più per malizia che per ignoranza delle cose, sollevano l’obiezione con forti grida che sto facendo a Cristo un’amara ingiustizia con la mia interpretazione. Perché è del tutto incompatibile con la sua dignità che egli debba temere per la salvezza della sua anima! Ma poi passano ad un abuso ancora più violento: ho affermato che il Figlio di Dio era in disperazione, e questo va contro la fede! Così queste persone pensano di dover iniziare una lotta a causa della mia affermazione che Cristo ha sopportato la paura e il terrore. Eppure gli evangelisti parlano abbastanza chiaramente di questo! Anche prima dell’inizio dell’effettiva sofferenza della morte, sentiamo che Cristo fu scosso nello spirito (Giov 12,27) e che la tristezza lo avvolse, e nella battaglia stessa "cominciò a piangere e a tremare…" (Mat 26,37 s.). Dire che questo è stato fatto per finta è un’evasione particolarmente vergognosa. Dovremmo – come giustamente insegna Ambrogio – confessare coraggiosamente la tristezza di Cristo se non ci vergogniamo della croce! Se la sua anima non avesse sopportato la punizione, sarebbe stato certamente solo il redentore del nostro corpo! Si è dovuto lottare duramente perché Cristo ci facesse risorgere, che tuttavia giacevano completamente a terra. In questo modo non perde nulla della sua gloria celeste, no, è proprio qui che la sua bontà, che non sarà mai lodata abbastanza, risplende gloriosamente, in quanto non ha rifiutato di prendere su di sé tutta la nostra debolezza. Da qui questa consolazione contro ogni paura, ogni dolore, che l’apostolo ci propone: Questo Mediatore ha portato le nostre "infermità", e quindi può a maggior ragione "avere compassione" degli infelici (Ebr 4:15). Ma si sostiene che è sbagliato di per sé attribuire al Signore qualcosa di imperfetto. Come se uno fosse più saggio dello Spirito di Dio! Perché lo Spirito riunisce perfettamente queste apparenti contraddizioni: "Egli fu tentato in ogni modo come noi" – e tuttavia "senza peccato"! (Eb 4,15). Quindi, la debolezza di Cristo non può spaventarci; non è stato costretto da nessuna necessità o costrizione a prenderla su di sé, ma lo ha fatto puramente per amore per noi, puramente per misericordia! Ma ciò che ha sopportato volontariamente per il nostro bene non toglie nulla al suo potere e alla sua virtù. Gli avversari sono sulla strada sbagliata se non vogliono riconoscere alcuna debolezza in Cristo, sebbene egli sia puro e libero da ogni colpa e da ogni macchia, perché si è mantenuto completamente in obbedienza! Una tale disciplina non si trova nella nostra natura, a causa della corruzione della nostra natura; in noi tutti gli impulsi vanno selvaggiamente oltre ogni misura – e ora fanno la cosa sbagliata nell’applicare questa norma al Figlio di Dio! Ma lui era puro, e quindi tutte le sue emozioni erano governate da quella disciplina interiore che impediva ogni eccesso. Così potrebbe essere come noi nel dolore e nella paura e nel terrore – e tuttavia in questo punto decisivo essere completamente diverso da noi! Se i nostri avversari vengono condannati su questo punto, subito tirano fuori una nuova obiezione; dicono: anche se Cristo temeva la morte, certamente non temeva la maledizione e l’ira di Dio, perché sapeva di esserne al sicuro! Ma ora il pio lettore dovrebbe considerare quale (dubbio) onore viene fatto a Cristo con questo: egli viene così dichiarato più tenero di cuore e timoroso di molte persone comuni! Anche i ladri e gli altri criminali vanno ostinatamente alla loro morte, altri la disprezzano con grande coraggio, altri la sopportano con calma e allegria! E si dice che il Figlio di Dio sia stato scosso, vinto dalla paura della morte? Che tipo di fermezza e grandezza interiore sarebbe stata? Di lui si riporta un fatto che generalmente si considererebbe strano e insolito: sotto la forza dell’agonia, gocce di sangue scorrevano dal suo volto! Ma questo non avvenne per finta, davanti alla faccia degli uomini, ma si ritirò nel nascondimento e lì portò il suo gemito davanti al Padre. Si toglie ogni dubbio quando si considera che gli angeli che gli portarono un conforto così insolito dovettero venire a lui dal cielo! Ma quale vergognosa mollezza sarebbe se Cristo fosse stato così tormentato dalla sola paura della morte, che in fondo colpisce tutti, da versare un sudore sanguinolento e poter essere resuscitato solo dall’apparizione degli angeli! Ma no, questa triplice supplica: "Padre, se è possibile, passi da me questo calice!". (Mat 26,39) – questa supplica proviene ovviamente da un’incredibile agonia interiore, e mostra che Cristo dovette veramente combattere una battaglia più aspra e dura della solita morte. Lì vediamo che questi ciarlatani, con i quali devo contestare, sono veloci a dare giudizi su cose di cui non sanno nulla; perché non hanno mai pensato veramente a cosa significhi e significhi che siamo redenti dal giudizio di Dio! Ma la nostra saggezza può consistere solo nel considerare ciò che la nostra redenzione è costata al Figlio di Dio! Ora qualcuno potrebbe chiedermi se questa "discesa agli inferi" sia avvenuta in quel momento in cui pregava per scongiurare la morte. Rispondo: quello è stato l’inizio, e solo a partire da quello si può vedere quali terribili, orribili tormenti ha vissuto quando si è reso conto che per il nostro bene stava davanti al giudizio di Dio come una persona colpevole! Così la potenza divina del suo spirito fu velata per un certo tempo e cedette il suo posto alla debolezza della carne; ma dobbiamo anche considerare che questa terribile sfida, che veniva dal sentimento del dolore e della paura, non era contraria alla fede. Si è dimostrato davvero come Pietro ha detto nel suo discorso: le pene della morte non sono state in grado di trattenerlo! (Atti 2,24). Perché sapeva di essere stato abbandonato da Dio, per così dire, ma non abbandonò minimamente la certezza della sua bontà. Lo dimostra il suo famoso grido, in cui grida per il suo dolore: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Mat 27,46). È nella più grande angoscia interiore – ma chiama ancora Dio, che lo ha abbandonato dopo la sua esclamazione, "Mio Dio!". Qui l’errore di Apollinare cade, così come la falsa dottrina dei cosiddetti "monoteliti". Apollinare accusò Cristo di avere lo spirito eterno al posto dell’anima, in modo da essere solo metà umano! Come se avesse potuto fare l’espiazione del nostro peccato senza obbedire al Padre! Ma dove dovrebbe mostrarsi l’impulso e la volontà di obbedire se non nell’anima? La sua stessa anima fu cacciata nella paura e nel terrore, affinché la nostra, liberata da ogni timore, potesse giungere alla pace e al riposo! Ma qui bisogna anche dire qualcosa contro i monoteliti (che sostenevano che in Cristo era attiva solo una volontà Dio-umana!): vediamo proprio qui come Egli non vuole secondo la sua natura umana ciò che vuole secondo la sua natura divina! Tralascio il fatto che egli ha effettivamente combattuto la paura che sorgeva, di cui abbiamo parlato, dalla volontà contraria; ma il conflitto in lui è anche chiaro nella parola: "Padre, aiutami ad uscire da quest’ora! – Ma è per questo che sono venuto a quest’ora. – Padre, glorifica il tuo nome!". (Giov 12:27 e seguenti). Eppure in questa discordia non c’era l’intemperanza che si manifesta maggiormente in noi proprio quando cerchiamo di controllarci al meglio!

II,16,13 (1.) Ora segue nel Credo: "Il terzo giorno risuscitato dai morti…" Senza la resurrezione, tutto quello che abbiamo detto finora sarebbe vano e frammentario. Perché nella crocifissione, nella morte, nella sepoltura di Cristo, tutta la debolezza è rivelata, e la fede deve quindi superare tutto questo per arrivare alla vera potenza. Nella sua morte abbiamo veramente già il completo compimento dell’opera di salvezza, perché attraverso di lui siamo riconciliati con Dio, perché attraverso di lui il giusto giudizio di Dio è soddisfatto, la maledizione è tolta, la punizione è sopportata. Eppure la Scrittura non dice che attraverso la sua morte, ma "attraverso la risurrezione di Gesù Cristo dai morti" siamo "rinati" "a una speranza viva!" (1 Pt 1,3). Perché come lui è uscito nella sua risurrezione come vincitore della morte, così anche la vittoria della nostra fede si basa in ultima analisi sulla sua risurrezione. Come questo avvenga può essere meglio espresso nelle parole di Paolo: "È stato dato per i nostri peccati e risuscitato per la nostra giustizia" (Rom 4:25). Con questo intende dire che attraverso la sua morte il peccato è stato messo via, ma attraverso la sua risurrezione la giustizia è stata acquistata e restituita a noi. Ma come avrebbe potuto liberarci dalla morte nella morte, se lui stesso vi aveva ceduto? Come avrebbe potuto ottenere la vittoria se lui stesso aveva perso la battaglia? La nostra salvezza, quindi, si basa ugualmente sulla morte e sulla risurrezione di Cristo, ed è così: attraverso la morte il peccato è messo via e la morte è vinta; attraverso la risurrezione ci viene restituita la giustizia e ci viene data la vita. Va notato, tuttavia, che è solo attraverso il dono della risurrezione che riceviamo il potere e l’effetto della sua morte. Questo è il motivo per cui Paolo sottolinea anche che Cristo è stato "potentemente provato" di essere il "Figlio di Dio" attraverso la sua risurrezione (Rom 1:4); perché solo allora ha prima provato la sua potenza celeste, che è lo specchio chiaro della sua deità e su cui la nostra fede può tranquillamente riposare. Paolo insegna anche in un altro luogo: "E sebbene sia stato crocifisso nella debolezza, tuttavia è risorto nella potenza dello Spirito" (2Cor 13:4; non testo di Lutero). Nello stesso senso parla di perfezione in un altro luogo: "… per conoscere lui e la potenza della sua risurrezione". Naturalmente, aggiunge immediatamente: "… e la comunione delle sue sofferenze, per essere conforme alla sua morte" (Fil 3,10). Le parole di Pietro si adattano perfettamente a questo: "Dio lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria perché abbiate fede e speranza in Dio" (1Piet 1,21); questo non significa che la fede che si basa sulla morte di Cristo debba vacillare, ma che la potenza di Dio che ci mantiene nella fede si rivela più chiaramente nella risurrezione. Perciò dobbiamo tenere presente che dove si parla della sola morte, è inclusa anche la potenza della risurrezione; questa stessa inclusione avviene dove si parla della risurrezione senza la menzione esplicita della morte: anche lì si tiene conto degli effetti della morte. Ma nella risurrezione egli ha vinto la palma, così che è diventato "la risurrezione e la vita"; per questo Paolo dice che la fede è abnegata, che il vangelo è vano e ingannevole, se non ci è permesso di portare saldamente nel cuore la certezza della risurrezione (1Cor 15:17). In un altro luogo loda la morte di Cristo come un saldo baluardo contro tutti i terrori della dannazione, e poi, per aumentare la lode, continua: "Colui che è morto, anzi, colui che è risuscitato dai morti, è alla destra di Dio e ci rappresenta" (Rom 8:34). (2.) Inoltre, ho mostrato sopra come la mortificazione della nostra carne dipende anche dalla nostra partecipazione alla croce. Qui dobbiamo vedere come anche noi riceviamo dalla risurrezione un effetto del tutto corrispondente a questo. L’apostolo dice: "Siamo dunque sepolti con lui… nella morte, affinché, come Cristo è risuscitato dai morti, così anche noi camminiamo in novità di vita" (Rom 6:4). In Colossesi, dalla certezza che siamo "morti con Cristo" (3,3), deriva la conclusione: "Mettete dunque a morte le vostre membra che sono sulla terra…" (3:5); e allo stesso modo conclude: "Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù e non quelle della terra" (3:1 s.). In questo modo non solo ci incoraggia a prendere la resurrezione di Cristo come esempio e a raggiungere una nuova vita, ma vuole anche dirci che attraverso il suo potere accade realmente che siamo rinnovati alla giustizia! (3.) Ma dalla risurrezione riceviamo anche un terzo frutto: la risurrezione è come un pegno che riceviamo e che ci rende certi che anche noi stessi saremo risorti; è la vera e sicura ragione della nostra risurrezione! Paolo ne parla in dettaglio nel quindicesimo capitolo della Prima Lettera ai Corinzi. Vorrei aggiungere che le parole "Cristo è risorto dai morti" significano che egli era veramente morto ed è veramente risorto dai morti; ha dunque sofferto la stessa morte che il resto degli uomini deve morire per natura, e nella stessa carne mortale che ha preso su di sé è stato ricevuto nell’immortalità!

II,16,14 La resurrezione è ora seguita a buon diritto dall’ascensione. Già nella risurrezione Cristo cominciò a manifestare la sua gloria e la sua potenza in maggiore pienezza: perché già allora il suo umile e ignobile cammino nella vita mortale cessò, già allora la vergogna della morte di croce si allontanò. Ma fu solo con la sua assunzione in cielo che egli assunse in verità il dominio. Questo è dimostrato dall’insegnamento dell’apostolo che egli salì al cielo "per compiere tutte le cose" (Efes 4:10). A prima vista potrebbe sembrare una contraddizione, ma Paolo mostra come in realtà tutto si incastra: ci ha lasciato in modo tale che ora può essere presente a noi in un modo molto più benedetto che durante il suo cammino sulla terra, quando era ancora confinato nell’umile dimora della carne. Così Giov registra il glorioso invito: "Se qualcuno ha sete, venga a me e beva…" (Giov 7,37); ma subito aggiunge: lo Spirito Santo non era ancora stato dato ai credenti, "perché Gesù non era ancora trasfigurato" (7,39). Il Signore stesso ha testimoniato ai suoi discepoli: "È bene per voi che io vada. Perché se io non vado, il Consolatore non verrà a voi" (Giov 16,7). In vista della sua assenza fisica, egli offre loro il conforto: "Non vi lascerò orfani; io vengo a voi" (Giov 14,8). Questo avviene in modo invisibile, ma tanto più glorioso; perché ora, istruiti da un’esperienza più certa, possono sapere che il dominio di cui si è impadronito, e questo potere che esercita, sono sufficienti ai credenti non solo per vivere beatamente, ma anche per morire con gioia! E vediamo anche quanto più abbondantemente egli abbia ora riversato il suo Spirito, quanto più gloriosamente abbia diffuso il suo regno, e quanta più potenza abbia mostrato nel stare al fianco dei suoi e nel gettare a terra i suoi nemici. Egli è stato assunto in cielo, e ha così ritirato la sua presenza corporea dalla nostra vista. Ma non l’ha fatto per non essere più al fianco dei fedeli che sono in pellegrinaggio sulla terra, ma per governare il cielo e la terra ancora di più con il potere attuale! Sì, quello che ci ha promesso: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo", lo ha realizzato con la sua ascensione. Perché come il suo corpo è innalzato sopra tutti i cieli, così ora anche la sua potenza e il suo effetto vanno ben oltre tutti i confini del cielo e della terra! Preferirei dirlo con le parole di Agostino che con le mie: "Cristo doveva passare attraverso la morte per sedersi alla destra di Dio, e da lì tornerà per giudicare i vivi e i morti, e questo in presenza corporea, come dice la giusta dottrina e la regola della fede! Perché nella presenza spirituale sarebbe stato sempre con i suoi dopo la sua ascensione!". (Sul Vangelo di Giovanni, 78 e anche il Sermone 361). In un altro luogo lo dice ancora più chiaramente: "Nella sua grazia ineffabile e invisibile egli fa avverare la sua parola: ’Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo’ (Mat 28,20). Ma secondo la carne che ricevette il Verbo, secondo quella che nacque dalla Vergine Maria, secondo quella che i Giudei presero in cattività, secondo quella che fu crocifissa, avvolta nel lino, deposta nel sepolcro, e venne di nuovo alla luce nella risurrezione – secondo questa "non mi avrete", come dice il Signore, "sempre con voi! (Mat 26,11). Perché? Continuò a camminare con i suoi discepoli dopo la carne per quaranta giorni dopo la sua risurrezione, poi salì al cielo; i discepoli gli diedero una scorta: potevano guardarlo, ma non seguirlo (Atti 1:3, 9). Ora è vero: "Egli non è qui", perché ora è seduto alla destra del Padre (Mar 16:19) – eppure è qui; perché la vicinanza della Sua gloria non si è allontanata da noi! (Ebr 1:3). Così, secondo la presenza della sua maestà divina, abbiamo sempre Cristo in mezzo a noi. Ma della Sua presenza nella carne vale la parola che disse ai Suoi discepoli: ’Ma voi non avete sempre Me’ (Mat 26,11). Così la Chiesa lo ha avuto tra di lei in presenza corporea solo pochi giorni – ora lo ha nella fede, ma con gli occhi non lo vede!". (Sul Vangelo di Giovanni, 50).

II,16,15 Perciò anche ora continua: "seduto alla destra del Padre!". L’immagine è presa dai principi che hanno al loro fianco i loro governatori, ai quali affidano il reggimento e il governo. In questo senso si dice di Cristo, attraverso il quale il Padre vuole glorificarsi e per mano del quale vuole governare, che è esaltato alla destra del Padre. Questo significa che è stato fatto Signore del cielo e della terra e ha preso solennemente il regno affidatogli dal Padre. Ma non solo ha fatto questo, ma esercita anche il suo regno fino a quando verrà di nuovo per il giudizio. Così lo intende l’apostolo, che dice: "Il Padre lo ha posto alla sua destra nei cieli al di sopra di ogni principato, potere, autorità, dominio e di tutto ciò che può essere chiamato, non solo in questo mondo, ma anche in quello che verrà" (Efes 1:20 s. Fili 2:9). Oppure dice anche: "Ha messo tutte le cose sotto i suoi piedi" (1Cor 15:27) "e lo ha posto a capo della chiesa su tutte le cose…" (Efes 1,22). Lì puoi vedere cosa significa questo sedere alla destra del Padre: tutte le creature in cielo e sulla terra devono riconoscere la sua maestà, devono essere governate dalla sua mano, devono prestare attenzione ai suoi richiami, devono essere soggette al suo potere! Questo è anche ciò che gli apostoli vogliono esprimere: quando parlano di questo sedersi alla destra di Dio, stanno sempre dicendo che tutto è soggetto al suo dominio (Atti 2:30-36; 3:21; Ebr 1:8). Coloro che vogliono solo trovare la beatitudine espressa qui non stanno quindi andando sulla strada giusta. Né significa nulla qui il fatto che negli Atti degli Apostoli Stefano testimoni che vede il Signore in piedi davanti a lui (Atti 7:55); perché qui non si tratta della posizione del corpo, ma della gloria sovrana; "seduto" qui non significa altro che tenere il trono celeste e la sede del giudizio! (Così anche Augustin, Vom Glauben und dem Symbol, 7).

II,16,16 Da questo la fede riceve molteplici frutti. Prima di tutto, riconosce che il Signore, attraverso la sua ascensione, gli ha aperto di nuovo l’ingresso al regno dei cieli che era stato chiuso da Adamo. Perché egli è entrato in cielo nella nostra carne, per così dire nel nostro nome, e così ciò che l’apostolo esprime è che in lui siamo già, per così dire, "incastonati nella natura celeste" (Efes 2:5 s.). Non aspettiamo con la semplice speranza il cielo, ma lo abbiamo già in testa. In secondo luogo, la fede riconosce che ci è di grande beneficio il fatto che egli sia seduto alla destra del Padre. Perché egli è entrato nel Santo dei Santi, "che non è fatto con le mani", e ora intercede per noi davanti alla faccia del Padre per sempre come aiutante e intercessore (Ebr 7:25; 9:11f; Rom 8:34). Egli volge lo sguardo di Dio verso la sua giustizia e lontano dal nostro peccato. Egli riconcilia il Padre con noi e con la sua intercessione apre la via e l’accesso al suo trono. Egli permette al Padre di essere grazioso e gentile con noi, anche se altrimenti infonderebbe solo terrore nel misero peccatore. E in terzo luogo, la fede fissa il suo sguardo sulla sua potenza: su di essa poggia la nostra forza e la nostra potenza, il nostro potere e la nostra gloria contro tutte le potenze dell’inferno! Perché egli è entrato in cielo e ha "condotto la prigionia in cattività" (Efes 4:8), ha privato i nostri nemici del potere, ma ha reso ricco il suo popolo – e ancora oggi profonde ricchezze spirituali su di loro ogni giorno! Egli è intronizzato in alto per conferirci la sua potenza, per risvegliarci alla vita spirituale, per santificarci con il suo Spirito, per adornare la sua chiesa con tutti i tipi di doni di grazia, per proteggerla da ogni danno sotto la sua protezione, per tenere in suo potere la mano dei furiosi nemici della croce e della nostra salvezza – in generale, per esercitare tutto il potere in cielo e sulla terra, finché egli "pone tutti i suoi nemici, che sono anche nemici per noi, ai piedi dei suoi piedi" (Sal 110:1) ed edifica la sua chiesa. 110,1) e ha completato la costruzione della sua chiesa! Questa è la vera costituzione del suo regno, questo è il potere che il Padre gli ha dato, – finché non compie anche l’ultimo e viene di nuovo "per giudicare i vivi e i morti"!

II,16,17 Cristo dà una chiara prova del suo potere molto presente ai suoi. Ma il suo regno è in una certa misura nascosto sulla terra sotto l’umiltà della carne, e quindi la fede è giustamente chiamata a considerare quella presenza visibile di Cristo che Egli rivelerà nell’ultimo giorno. Infatti Egli ritornerà visibilmente dal cielo, come è stato visto salire (Atti 1:11; Mat 24:30). Egli apparirà a tutti con la gloria ineffabile del suo regno, nello splendore dell’immortalità, rivestito della potenza incommensurabile della maestà divina, accompagnato dalla schiera degli angeli! Aspettiamo dunque quel giorno in cui il nostro Salvatore separerà le pecore dai capri, gli eletti dai rifiutati! (Mat 25,31-33). Nessun vivente, nessun morto sfuggirà al Suo giudizio! Perché ai confini della terra si udrà il suono della tromba, che chiamerà tutti gli uomini davanti al suo seggio di giudizio – quelli che oggi sono ancora vivi e quelli che la morte ha già strappato (1 Tess 4:16 s.). Alcuni associano un significato diverso alle parole "vivi e morti"; in effetti, anche alcuni Padri della Chiesa hanno vacillato notevolmente nella loro spiegazione di questa espressione. Ma la mia interpretazione è chiara e plausibile, e certamente corrisponde maggiormente al significato del Credo, perché è scritto in un modo che tutti possono capire. Né lo contraddice la parola dell’apostolo, secondo la quale è stabilito che tutti gli uomini muoiano una volta (Ebr. 9,27). Perché le persone che sperimenteranno il Giudizio Universale in questa esistenza mortale non moriranno secondo il corso naturale delle cose, ma la trasformazione che subiranno è del tutto simile alla morte ed è quindi giustamente chiamata "morte". Perché sicuramente "non tutti si addormenteranno", ma "tutti saranno cambiati!". (1Cor 15:51). Che cosa significa? In un momento il loro essere mortale passerà e sarà portato via, e immediatamente sarà cambiato in un nuovo essere! (1Cor 15:52). Questo togliere la carne è senza dubbio la morte; quindi è ancora vero che "i vivi e i morti" saranno portati davanti al seggio del giudizio: prima i morti che si sono addormentati "in Cristo" risorgeranno, e poi i vivi che sono ancora rimasti sulla terra saranno presi nell’aria per incontrare il Signore! (1 Tess 4,16 ss.). L’espressione "i vivi e i morti" è ovviamente presa dal discorso di Pietro registrato da Luca (Atti 10:42) e dalla solenne affermazione di Paolo a Timoteo (2Tim 4:1).

II,16,18 Gloriosa è la consolazione che riceviamo dal fatto che il giudizio è con il Signore, che ci ha ordinato di essere membri della sua gloria nel giudizio. Quindi non si siederà certamente in giudizio per la nostra condanna! Perché come potrebbe lui, il graziosissimo principe, corrompere il suo stesso popolo? Come dovrebbe fare lui, il Capo, a distruggere i suoi membri? Come dovrebbe l’avvocato condannare le sue accuse? L’apostolo osa proclamare che nessuno può stare a condannarci, quando Cristo è qui per intercedere per noi. Ma è ancora più certo che Cristo stesso, l’Avvocato, non ci condannerà – ci ha preso nella sua alleanza, nella sua protezione! Questo ci dà una gloriosa fiducia che non saremo portati davanti a nessun altro seggio di giudizio che quello del nostro Salvatore, dal quale possiamo aspettarci la benedizione! (Confronta Ambrogio, Di Giacobbe e della vita beata, 1:6). Egli realizzerà certamente la promessa di beatitudine eterna, che ora ci proclama attraverso il Vangelo, attraverso il suo giudizio. Il fatto che il Padre abbia onorato il Figlio "consegnandogli il giudizio" (Giov 5,22) – lo ha fatto allo stesso tempo nella cura della coscienza dei fedeli, che altrimenti avrebbero dovuto tremare davanti al giudizio. Fino a questo punto ho seguito l’ordine del Credo degli Apostoli: esso comprende in poche parole le parti principali della nostra salvezza, quasi come un quadro attraverso il quale possiamo vedere chiaramente e in dettaglio ciò che dobbiamo conoscere di Cristo. Chiamo questo credo "apostolico", anche se non mi preoccupo dell’autore. I Padri della Chiesa furono unanimi nell’attribuirla agli Apostoli: forse pensarono che fosse stata scritta e pubblicata dagli Apostoli insieme, forse pensarono di potersi assicurare una reputazione speciale per questo abbozzo di dottrina proclamato dagli Apostoli, che fu compilato con vera fedeltà, con questa solenne denominazione. Da parte mia, non ho alcun dubbio che questa confessione di fede sia stata un credo pubblico e generalmente riconosciuto fin dall’inizio della Chiesa, cioè dal tempo degli Apostoli – da qualunque parte venga! Difficilmente è stato scritto da un individuo a proprio nome, perché ha avuto una reputazione veramente santa tra tutti i credenti fin dai tempi antichi. In ogni caso, non c’è dubbio su ciò che deve essere la nostra unica preoccupazione: dà davvero tutta la storia su cui poggia la nostra fede, chiaramente e in buon ordine, e non contiene nulla che non sia chiaramente provato da testimonianze incontrovertibili della Sacra Scrittura. Riconoscendo questo, non vale la pena di agonizzare sull’autore, o di disputare con altri su questo conto; o dovrebbe apparire sul serio uno che si troverebbe disposto a trovare qui chiaramente la verità dello Spirito Santo, solo se sapesse allo stesso tempo esattamente di chi è la bocca che l’ha pronunciata, e di chi è la mano che l’ha scritta!

II,16,19 Tutta la nostra salvezza, tutto ciò che vi appartiene, è deciso in Cristo solo (Atti 4,12). Perciò non dobbiamo ricavare il minimo da altrove. Se cerchiamo la salvezza, il nome stesso di Gesù ci dice: è con Lui! (1Cor 1:30). Se cerchiamo altri doni dello Spirito, li troviamo nella Sua unzione! Se chiediamo il potere – sta nel suo dominio, la purezza – si basa sulla sua concezione, la grazia – ci viene offerta nella sua nascita, attraverso la quale è diventato simile a noi in tutto, per avere compassione delle nostre infermità (Eb 2,17; 4,15). Se chiediamo la redenzione – sta nella sua sofferenza, l’assoluzione – sta nella sua condanna, il sollevamento della maledizione – avviene nella sua croce (Gal 3,13), per la soddisfazione – si compie nella sua espiazione, per la purificazione – viene a noi nel suo sangue, per la riconciliazione – l’abbiamo per la sua discesa agli inferi, per la mortificazione della nostra carne – si basa sulla sua sepoltura, per la vita nuova – appare nella sua risurrezione, per l’immortalità – ci è concessa anche lì. Vogliamo essere eredi del cielo – possiamo esserlo, perché lui è entrato in cielo; desideriamo protezione e sicurezza, ricchezze di tutti i beni: nel suo regno le troviamo! Vogliamo guardare con fiducia al giudizio: possiamo, perché il giudizio è stato affidato a lui! E infine: in lui si trova la pienezza di tutti i beni, e quindi dobbiamo attingere a questa fonte fino a quando siamo pieni, non a un’altra! Perché chi non si accontenta di lui solo, ma si lascia trascinare da ogni sorta di speranze – anche se guarda a lui "specialmente"! – perde la strada giusta, perché i suoi pensieri e le sue aspirazioni vanno in parte in un’altra direzione! Naturalmente, questo tipo di incredulità non può insinuarsi una volta che uno ha riconosciuto l’immensità dei suoi beni!


Capitolo diciassette

È giusto dire, e colpisce il chiodo sulla testa, che Cristo ci ha guadagnato la grazia di Dio e la salvezza attraverso il suo merito.

II,17,1 Anche questa questione può essere trattata ora come una sorta di bi s. Perché ci sono alcuni che hanno un tipo di perspicacia perversa: ammettono che otteniamo la salvezza attraverso Cristo, ma non possono ascoltare l’espressione merito, e pensano che la grazia di Dio sia oscurata da essa; così Cristo è per loro solo uno strumento o un servo, ma non l’autore, il duca e il "principe" della vita, come lo chiama Pietro! (Atti 3:15). Ora lo ammetto: se si volesse contrapporre Cristo in e per sé al giudizio di Dio, allora non ci sarebbe certamente alcun merito; perché nessun uomo ha un valore tale da poter guadagnare qualcosa con esso davanti a Dio. Infatti, come dice Agostino: "La luce più luminosa della predestinazione e della grazia è il Salvatore, l’uomo Cristo Gesù stesso; ma che sia così, la natura umana non ha acquisito in lui per meriti precedenti di opere o di fede. Altrimenti mi si dica come quest’uomo avrebbe meritato di essere accettato dal Verbo, che è eterno con il Padre, e di essere unito a lui nell’unità della persona. Così il nostro Capo deve essere riconosciuto come l’unica fonte da cui la grazia si riversa su tutte le membra, secondo la misura dell’individuo. È dunque la stessa grazia che oggi fa di ogni credente, appena comincia a credere, un cristiano – e dalla quale una volta questa persona è diventata Cristo all’inizio della sua umanità!" (Sulla predestinazione dei santi, 15). Anche Agostino giudica in modo simile altrove: "Non c’è un esempio più chiaro di predestinazione che il Mediatore stesso. Perché il Dio che ha fatto del seme di Davide un uomo giusto, che non sarebbe mai stato ingiusto, e ciò senza merito di alcuna sua precedente volontà – fa degli ingiusti dei giusti, che sono membri di quel capo", ecc. (Del dono della perseveranza, 24). Così, quando si parla del "merito" di Cristo, questo non è posto come inizio, ma si ritorna al decreto di Dio, che è la causa prima, perché per puro piacere Egli ci ha posto il Mediatore che doveva acquistare la salvezza per noi. Ma quindi è ignoranza della materia porre un contrasto tra la misericordia di Dio e il merito di Cristo. È, del resto, una regola abbastanza universale: ciò che risulta da una cosa non può contraddire quella cosa. Quindi, non c’è nulla di contraddittorio nella doppia affermazione: l’uomo è giustificato per grazia attraverso la pura misericordia di Dio – e: Il merito di Cristo intercede per noi. Perché questo merito di Cristo è subordinato alla misericordia di Dio! D’altra parte, questa grazia immeritata di Dio così come l’obbedienza sostitutiva di Cristo è giustamente contrapposta alle nostre opere, naturalmente entrambe secondo il Suo ordine! Perché Cristo è stato solo in grado di guadagnarci il merito per il buon piacere di Dio, proprio perché è stato ordinato di placare l’ira di Dio con il suo sacrificio espiatorio e di mettere le nostre trasgressioni fuori dal mondo con la sua obbedienza! Se, dunque, il merito dipende unicamente dalla grazia di Dio, che ha voluto creare la salvezza per noi in questo modo, questo merito di Cristo è altrettanto giustificatamente opposto a tutta la nostra giustizia quanto la grazia di Dio stesso.

II,17,2 Questa differenza si può cogliere anche da moltissimi passi della Scrittura. "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca…" (Giov 3:16). L’amore di Dio è al primo posto, perché è la prima causa e l’origine; solo dopo viene la fede in Cristo: è quindi la seconda, successiva causa. Ma se qualcuno dovesse dedurre da questo l’affermazione che Cristo è quindi solo la causa formale, indebolirebbe così il potere di Cristo ben oltre la misura del testo. Perché se otteniamo la giustizia attraverso la fede basata su di Lui, la ragione della nostra salvezza sta ovviamente in Lui. Questo è anche chiaramente dimostrato da molti passaggi scritturali. "In questo è l’amore, non che noi abbiamo amato Dio, ma che egli ha amato noi e ha mandato il suo Figlio per essere la propiziazione dei nostri peccati" (1Gio 4:10). Da questo è abbastanza chiaro: Dio, per rimuovere ogni ostacolo che bloccava il nostro accesso al suo amore, ha stabilito che fossimo riconciliati con lui in Cristo. La parola riconciliazione ha un grande peso: perché sebbene Dio ci abbia amato, in un modo inconcepibile ha sopportato l’ira contro di noi allo stesso tempo – fino a quando non è stato riconciliato in Cristo! Tutta una serie di passaggi scritturali appartiene a questo: "E lo stesso è la propiziazione per i nostri peccati" (1Gio 2:2). "Poiché è stato il suo buon desiderio… che… tutte le cose per mezzo di lui siano riconciliate con se stesso… che egli faccia la pace per mezzo di se stesso mediante il sangue della sua croce…" (Col 1:19 s.). "Dio era in Cristo per riconciliare a sé il mondo, non imputando loro il peccato…" (2Cor 5:19). "Egli ci ha resi graditi nell’Amato…" (Efes 1:6). "E che ha riconciliato entrambi con Dio… per mezzo della croce" (Efes 2:16). Il significato di questo mistero può essere accertato soprattutto dal primo capitolo della Lettera agli Efesini. Lì Paolo insegna prima che siamo stati scelti in Cristo, e poi aggiunge che abbiamo anche ottenuto la grazia in lui (Efes 1,4 ss.). Dio ci ha amato prima della fondazione del mondo, ma la sua grazia ci ha abbracciato solo quando, dopo essere stato riconciliato attraverso il sangue di Cristo, ha mostrato completamente il suo amore. Perché Dio è la fonte di ogni giustizia, e quindi, finché un uomo è peccatore, è necessariamente suo nemico e giudice! L’inizio dell’amore sta dunque nella giustizia, come dice Paolo: "Egli ha fatto sì che colui che non aveva conosciuto peccato fosse peccato per noi, affinché noi diventassimo in lui la giustizia di Dio" (2Cor 5,21; non proprio il testo di Lutero). Con questo dimostra: abbiamo ottenuto la giustizia per grazia gratuita attraverso il sacrificio espiatorio di Cristo, in modo che ora siamo graditi a Dio, che per natura sono "figli dell’ira" e sono caduti lontano da Lui attraverso il peccato. Questa differenza (questa dualità tra la misericordia di Dio e il merito di Cristo) è espressa anche nei passi in cui la grazia di Cristo appare connessa con l’amore di Dio; da ciò consegue che Egli ci dà del suo che ha acquisito; perché sarebbe improprio altrimenti dargli la lode senza il Padre, per se stesso solo, che questa grazia è la sua grazia, e che viene da lui!

II,17,3 Ma che Cristo, attraverso la sua obbedienza, abbia realmente ottenuto e guadagnato per noi la grazia presso il Padre, è chiaro e affidabile da moltissimi passi della Scrittura. Io do per scontato che: Se Cristo ha dato soddisfazione per i nostri peccati, se ha sopportato la punizione che meritavamo, se ha riconciliato Dio con la sua obbedienza, se lui, il giusto, ha sofferto per noi ingiusti, allora attraverso la sua giustizia ha acquistato la salvezza per noi – o, che significa la stessa cosa: l’ha guadagnata per noi! Ma ora, secondo la testimonianza di Paolo, siamo riconciliati, abbiamo ricevuto la riconciliazione attraverso la sua morte! (Rom 5,10 s.). La riconciliazione, tuttavia, avviene solo quando un’offesa è precedente. Il significato di questo passaggio, quindi, è questo: Dio, che noi odiavamo a causa del nostro peccato, è riconciliato con noi attraverso la morte di suo Figlio e ora è benevolo con noi. In questo contesto, dovremmo anche notare il paragone che Paolo fa poco dopo il passo citato: "Come per la disobbedienza di un uomo sono stati fatti molti peccatori, così anche per l’obbedienza di un uomo molti saranno resi giusti". (Rom 5:19). Il significato è il seguente: proprio come siamo caduti lontano da Dio attraverso il peccato di Adamo e siamo destinati alla distruzione, così attraverso l’obbedienza di Cristo siamo accettati come giusti nella grazia. Il fatto che Paolo si esprima come se questa giustizia fosse solo nel futuro non esclude la presenza di questa giustizia; questo è dimostrato dal contesto in cui si trova il testo. Infatti poco prima dice, anche senza il tempo futuro, "Il dono aiuta anche ad uscire da molti peccati verso la giustizia" (Rom 5:16)

II,17,4 Quando ho detto, a proposito, che la grazia è stata acquistata per noi attraverso il merito di Cristo, capisco che questo significa che siamo resi puri attraverso il Suo sangue, e la Sua morte come soddisfazione cancella il nostro peccato: "Il sangue di Gesù Cristo… ci rende puri da ogni peccato!" (1Gio 1:7). Questo è il sangue "che viene versato per la remissione dei peccati" (Mat 26,28). Il fatto che il suo sangue sia stato versato ha come effetto che i nostri peccati non sono imputati a noi, e da questo segue che questo riscatto ha soddisfatto il giudizio di Dio. A questo appartiene la parola di Giov Battista: "Ecco l’agnello di Dio, che porta il peccato del mondo". (Giov 1:29). Perché con questo egli contrappone Cristo a tutti i sacrifici richiesti dalla legge; vuole mostrare che in lui solo si compie ciò che quelle immagini avevano indicato! Sappiamo come Mosè dice di volta in volta: la trasgressione sarà cancellata, il peccato sarà cancellato e perdonato (ad esempio Lev 16:34). Infine, conosciamo già la potenza e l’effetto della morte di Cristo dagli esempi del Primo Patto. L’autore della Lettera agli Ebrei ha spiegato tutto questo molto chiaramente; egli afferma giustamente il principio: "Senza spargimento di sangue non c’è perdono" (Ebr. 9,22). Da questo egli trae la conclusione: "Cristo è apparso una volta per togliere il peccato con il proprio sacrificio" e "è stato sacrificato una volta per togliere molti peccati" (Ebr 9:26, 28). Ma prima di questo dice: "Cristo non è entrato per mezzo di sangue di capri o di vitelli, ma per mezzo del proprio sangue una volta nel luogo santo, avendo inventato una redenzione eterna" (Ebr 9:12). Egli ne trae la conclusione: "Perché se il sangue di tori e capri … santifica l’impuro alla purezza corporale, quanto più il sangue di Cristo … purifica la nostra coscienza dalle opere morte …" (Ebr. 9,13 s.). Da questo è chiaro: se non riconosciamo il potere del sacrificio di Cristo di fare l’espiazione, di fare la riconciliazione, di fare abbastanza, questo significa una denigrazione ingiustificata del Signore! Egli aggiunge: "Per questo egli è anche mediatore del nuovo testamento, affinché per mezzo della morte che è stata fatta per la redenzione dalle trasgressioni che erano sotto il primo testamento, i chiamati possano ricevere l’eredità eterna promessa" (Ebr 9:15). Ma soprattutto dobbiamo anche ricordare il paragone che Paolo usa in Galati: "Si è fatto maledizione per noi!". (Gal 3:13). Perché sarebbe superfluo, persino assurdo, che Cristo sia stato gravato dalla maledizione – se non avesse, sopportando la punizione che altri meritavano, ora anche acquisito la giustizia per loro! Anche la testimonianza di Isa è chiara: "Il castigo era su di lui, perché avessimo pace; e per le sue piaghe siamo guariti" (Isa 53:5). Se Cristo non avesse fatto soddisfazione per i nostri peccati, non si potrebbe dire che ha riconciliato Dio prendendo su di sé la punizione che abbiamo meritato. La parola che segue più avanti in Isa corrisponde anche a questo: "…perché è stato afflitto per l’iniquità del mio popolo" (Isa 53:8; Calvino cita un po’ diversamente, ma nello stesso senso). Inoltre, c’è una parola di Pietro che non lascia dubbi: "Che ha portato lui stesso i nostri peccati… sul legno" (1Piet 2,24). Secondo queste parole, il peso della condanna che era su di noi è stato gettato su Cristo!

II,17,5 Gli apostoli hanno anche proclamato chiaramente che Cristo ha offerto il riscatto per redimerci dalla colpa della morte. "Siamo giustificati senza merito per la sua grazia mediante la redenzione avvenuta per mezzo di Cristo Gesù, che Dio ha presentato come sede di misericordia nel suo sangue per mezzo della fede…" (Rom 3,24 s.). Qui Paolo loda la grazia di Dio, perché nella morte di Cristo ha dato il riscatto, e poi ci incoraggia a rifugiarci nel suo sangue per raggiungere la giustizia davanti a Dio e poter stare con fiducia davanti al suo seggio di giudizio (specialmente 3:25). Le parole di Pietro hanno lo stesso significato: "E sappiate che non siete stati riscattati con argento o oro deperibili… ma con il prezioso sangue di Cristo come agnello innocente e senza macchia" (1Piet 1,18 s.). Perché la messa in opera di questo contrasto (oro e argento – l’agnello!) non avrebbe alcun senso se Cristo non avesse veramente fatto abbastanza con questo riscatto. Paolo dice anche: "Siete stati comprati a caro prezzo! (1Cor 6:20). Anche la sua parola: "C’è … un mediatore, … che ha dato se stesso come riscatto …" (1Tim 2:5 s. non proprio il testo di Lutero) non sarebbe rimasto in piedi se la punizione che meritavamo non fosse stata posta su di Lui. In un altro luogo Paolo vuole descrivere cos’è la "redenzione attraverso il Suo sangue", e lì la chiama "il perdono dei peccati" (Col 1,14); ciò significa: riceviamo la giustificazione e l’assoluzione da Dio, perché quel sangue significa soddisfazione completa. Anche l’altro passo corrisponde a questo: "Egli ha cancellato la scrittura che era contro di noi… e l’ha inchiodata sulla croce…" (Col 2,14). Parla di quel pagamento, quella compensazione, che ci libera dalla colpa. Anche le parole di Paolo hanno un grande peso: "Se la giustizia viene attraverso la legge, Cristo è morto invano" (Gal 2:21). Da questo possiamo vedere che dobbiamo cercare da Cristo ciò che la legge concederebbe se la si adempisse, cioè che attraverso la grazia di Cristo otteniamo il compimento della promessa che Dio ha fatto alle nostre opere nella legge: "Chiunque fa questo vivrà per esso!" (Lev 18:5). Questo è altrettanto chiaro nel suo discorso ad Antiochia, dove proclama che attraverso la fede in Cristo siamo giustificati da tutte quelle cose "dalle quali non potevate essere giustificati nella Legge di Mosè" (Atti 13:38). (Atti 13:38). Perché l’obbedienza alla legge è la giustizia, e quindi Cristo, che ha preso su di sé questo peso e ci ha riconciliati con Dio in modo tale come se avessimo adempiuto la legge, ci ha innegabilmente guadagnato la grazia di Dio attraverso il suo merito! Le note parole di Galati vanno nella stessa direzione: "… Dio mandò il suo Figlio … sotto la legge per riscattare coloro che erano sotto la legge" (Gal 4:4 s.). Perché fu messo sotto la legge se non per compiere ciò che noi non eravamo in grado di compiere, e in questo modo per guadagnare per noi la giustizia? Da qui questa imputazione della giustizia senza tutte le buone opere, di cui Paolo scrive; quella giustizia che ci viene imputata per grazia, perché si trova solo in Cristo (Rom 4). Per questo il corpo di Cristo è chiamato il nostro cibo (Giov 6,55). Perché solo in Lui troviamo il fondamento e la forza della nostra vita. Ma questo potere viene a noi solo perché il Figlio di Dio è stato crocifisso come riscatto per la nostra giustizia! Paolo dice anche: "Ha dato se stesso per noi come dono e sacrificio, un dolce sapore a Dio" (Efes 5:2). E poi ancora: "È stato dato per i nostri peccati e risuscitato per la nostra giustizia" (Rom 4:25). Da questo segue che non solo la salvezza ci è data per mezzo di Cristo, ma che il Padre è ora benevolo con noi per causa sua! Perché è indubbiamente in Lui che si avvera ciò che Dio fece proclamare una volta da Isa in un’immagine: "Io la soccorrerò per amor mio e per amor del mio servo Davide" (Isa 37,35). L’apostolo è il miglior testimone di questo; egli dice: "I vostri peccati vi sono perdonati per mezzo del suo nome" (1Gio 2:12). Il nome di Cristo non è espressamente menzionato, ma Giovanni, secondo la sua abitudine, si riferisce a Lui con la parola "Suo". Nello stesso senso, il Signore parla per se stesso: "Come io vivo per il Padre, così chi mangia me vivrà anche per me" (Giov 6,57; Calvino cita in modo impreciso). Anche le parole di Paolo sono vere: "Vi è dato di fare questo per amore di Cristo, non solo di credere in Lui, ma anche di soffrire per Lui" (Fili 1:29).

II,17,6 Qui Pietro Lombardo (Sentenze III,18) e gli scolastici si chiedono se Cristo abbia guadagnato meriti anche per sé. Ma questa domanda è una sciocca presunzione – e la sua affermazione una presuntuosa affermazione. Era necessario che l’unigenito Figlio di Dio scendesse sulla terra per acquisire qualcosa di nuovo per sé? Ma Dio stesso risolve il mistero del suo consiglio e pone così fine a tutte le domande. Perché non è affatto detto che il Padre abbia pensato ai meriti del Figlio stesso, ma che lo ha dato alla morte e non lo ha risparmiato perché ha amato il mondo! (Rom 8,32.35.37). Qui dobbiamo prestare attenzione a parole profetiche come le seguenti: "Un bambino è nato per noi…" (Isa 9,6). "Tu, figlia di Sion, gioisci, ecco che il tuo Re viene a te!". (Zac 9:9). Nell’altro caso, le alte parole con cui Paolo loda l’amore di Cristo, cioè che è morto per i suoi nemici, sarebbero anch’esse superflue e senza senso! (Rom 5,10). Non pensava a se stesso e lo dice lui stesso: "Io mi santifico per voi" (Giov 17,19). Lì testimonia chiaramente che non vuole guadagnare nulla per sé: dà il frutto della sua auto-santificazione agli altri. E questo è certamente degno della nostra costante attenzione: Cristo si è dato così tanto per guadagnare la nostra salvezza che ha dimenticato se stesso nel processo. È anche sbagliato quando gli scolastici prendono la parola di Paolo per la loro opinione: "Perciò Dio lo ha esaltato e gli ha dato un nome che è al di sopra di ogni nome…" (Fil 2,9). (Fili 2,9). Per quali meriti un uomo dovrebbe arrivare ad essere il giudice del mondo, il capo degli angeli, a detenere il potere supremo di Dio, come dovrebbe arrivare ad avere insita in lui quella maestà divina di cui tutta la potenza e la virtù degli uomini e degli angeli non sono in grado di raggiungere la millesima parte? Ma la soluzione è anche abbastanza facile e chiara: Paolo non parla qui del motivo per cui Cristo è stato esaltato, ma mostra che l’esaltazione è la conseguenza della precedente umiliazione. Così Cristo deve servire da esempio per noi. Paolo non vuole dire nulla di diverso da ciò che è detto altrove: "Non doveva forse Cristo soffrire queste cose ed entrare nella sua gloria? (Luca 24,26).


Giovanni Calvino: La vera e la falsa predestinazione.   -  Discorso 100